M. Heidegger, Essere e Tempo
26 aprile 2017
Siamo al paragrafo 23. La spazialità dell’essere-nel-mondo. Ciascuno è quello che è perché è nel mondo e non perché è un soggetto, un Io o un altro accidente qualunque. È chiaro che la spazialità da noi attribuita all’Esserci, il suo “essere nello spazio”, deve essere intesa a partire dal modo di essere di questo ente. La spazialità dell’Esserci (che è essenzialmente diversa dalla semplice-presenza) non può significare né la sua presenza in un luogo dello “spazio cosmico” né il suo essere utilizzabile in qualche posto. Non basta questo per parlare della spazialità dell’Esserci, non è una cosa messa fra altre. L’uno e l’altro sono modi d’essere dell’ente intramondano. L’Esserci è “nel” mondo nel senso del commercio familiare che si prende cura dell’ente che si incontra nel mondo. Questo è il modo di essere dell’Esserci, cioè, essere nel mondo prendendosi cura delle cose. Cosa significa prendersi cura delle cose? Voler fare qualcosa relativamente a queste cose ed essere questo volere fare delle cose. Noi sappiamo anche che cosa si vuole fare: controllarle, gestirle. A pag. 134. L’Esserci che percorre le sue strade non è una cosa corporea semplicemente-presente… Ricordiamoci che l’Esserci è il parlante. Dice non è una cosa corporea semplicemente-presente …che misura un percorso spaziale; l’Esserci non divora chilometri; avvicinamento e dis-allontanamento sono sempre un modo di essere caratterizzato dal prendersi cura di ciò che è avvicinato e dis-allontanato. Cioè, dal fatto che io mi interesso più o meno alle cose che mi circondano. Un percorso “obiettivamente” lungo può essere più corto di un altro “obiettivamente” più corto, se questo è, ad esempio, “molto arduo” e appare interminabile. Solo in questo “apparire” il rispettivo mondo è autenticamente utilizzabile. Io posso utilizzare qualche cosa relativamente al modo in cui questa cosa mi appare; può apparirmi più vicina se mi è utile, lontanissima se non mi interessa minimamente. A pag. 135. Questo sapere è utile solo a un essere che si prende cura di un mondo di cui “gli importa” e che, quindi, non sta semplicemente a misurare le distanze. Per effetto di un orientamento preventivo sulla “natura” e sulle distanze “oggettivamente” misurate delle cose si tende a spacciare queste stime e questa interpretazione della lontananza come “soggettive”. La distanza, dice, può essere intesa come soggettiva: a me pare più lunga, a lei appare più corta. Non è proprio così, dice, Ma si tratta di una “soggettività” che scopre ciò che forse vi è di più reale nella “realtà” del mondo, e che quindi non ha nulla a che fare con l‘arbitrio “soggettivo” o con le “opinioni” soggettive circa un ente che altrimenti esiste “in sé”. Il dis-allontanare proprio della quotidianità dell’Esserci secondo la visione ambientale preveggente scopre l’essere-in-sé del “vero mondo”, dell’ente presso il quale l’Esserci, in quanto esistente, è già da sempre. Il che significa semplicemente che questo dis-allontanamento, cioè, questo avvicinamento delle cose… lui parla sempre dis-allontanamento nel senso che da lontane le pongo, quindi, è un’operazione attiva. Dunque, questo dis-allontanamento è determinato da qualcosa che è sempre presso l’Esserci, cioè, il mondo di cui è fatto che, in quanto esistente, è già da sempre. Che cosa è già da sempre se non il linguaggio, che è esattamente ciò che mi consente di accorgermi di esistere, di pensarmi, di volere fare qualche cosa. Il linguaggio, come altre volte abbiamo detto, non è niente altro che la volontà di potenza, la struttura con cui si manifesta la volontà di potenza, e cioè la tecnica. A questo punto siamo arrivati, in effetti. A pag. 136. Quando nel prendersi cura l’Esserci porta qualcosa vicino a sé, ciò non significa il trasferimento di questo qualcosa nel luogo dello spazio cha he la minor distanza possibile da un punto qualsiasi del suo corpo. Avvicinare qualcosa lui non lo intende come il prendere questo e metterlo qua, non è propriamente questo. Vicino a sé significa: nell’ambito di ciò che è innanzi tutto utilizzabile in base alla visione ambientale preveggente. Quindi, che cosa significa vicino? Lo diciamo con Nietzsche: ciò che è utilizzabile per il superpotenziamento, nient’altro che questo. L’avvicinamento non si orienta su un io-cosa fornito di corpo, ma sull’essere-nel-mondo prendente cura ovvero su ciò che in esso di volta in volta incontra. La spazialità dell’Esserci non è quindi determinata mediante la indicazione del luogo in cui una cosa-corpo sarebbe semplicemente-presente. Come dire che questo accendino è al centro del tavolo. Certo, diciamo che anche l’Esserci occupa sempre un posto. Ma questo “occupare” è fondamentalmente diverso dall’esser utilizzabile in un posto all’interno di una prossimità. Cioè, non occupa un posto come una cosa qualunque, come una matita, la metto lì e quindi occupa un posto, e bell’è fatto. No, dice, non è così semplice. L’occupare un posto da parte dell’Esserci dev’essere inteso come dis-allontanamento dell’utilizzabile ambientale in una prossimità prescoperta dalla visione ambientale preveggente. È un altro modo per dire che questo occupare un posto, uno spazio, è intimamente connesso con la mia di utilizzare una certa cosa in un certo modo, cioè, con la volontà di potenza. L’Esserci comprende il suo “qui” a partire dal “là” del mondo ambiente. Il fatto che sia qui lo comprendo perché ci sono tante altre cose, rispetto alle quali io dico che è qui. Il “qui” non significa il “dove” di una semplice-presenza, ma il “presso-che” di un dis-allontanante esser-presso… unitamente a questo dis-allontanamento stesso. Il qui, torna a dire, è determinato dall’interesse che io ho nel fare qualcosa di questa cosa, è questa la spazialità dell’Esserci, cioè, il modo di pensare l’Esserci come un qualche cosa che, sì, occupa uno spazio anche lui, certo, ma si occupa delle cose il cui spazio non è determinato da una misurabilità ma è misurato, dicendola con Nietzsche, dalla volontà di potenza. In conformità con la sua spazialità, l’Esserci non è mai innanzi tutto “qui”, bensì in quel “là” a partire dal quale esso ritorna al suo “qui”, e ciò, di nuovo, soltanto in quanto esso interpreta il suo esser-prendente-cura di… a partire da ciò che “là” è utilizzabile. (pagg. 136-137) Come dire che io posso dire che questa cosa è “qui” perché è presa nel mondo, cioè, in un “là” che fa esistere questo “qui”, perché, se io sono il mondo di cui sono fatto, ovviamente anche tutto ciò con cui io ho a che fare, con cui commercio, direbbe Heidegger, con cui ho familiarità, fa parte del mondo, che io sono, non è un’altra cosa, come se ci fosse un oggetto e un soggetto. L’Esserci, in quanto essere-nel-mondo, si mantiene essenzialmente in un dis-allontanamento. Questo è quello che fa l’Esserci, cioè, quello che faccio: mi occupo continuamente di cose all’interno di un progetto. Questo dis-allontanamento, la lontananza dell’utilizzabile da se stesso, non può mai essere incrociato dall’Esserci stesso. Certamente l’esser lontano di un utilizzabile dall’Esserci può esser visto come distanza quando sia determinato in relazione a una cosa pensata come semplicemente-presente nel posto che l’Esserci occupava precedentemente. Questo “fra” della distanza può essere successivamente percorso dall’Esserci, solo però alla condizione che la distanza stessa venga disallontanata. L’Esserci non ha però incrociato il suo dis-allontanamento, ma se l’è piuttosto portato e se lo porta costantemente seco, perché esso è per essenza dis-allontanato, cioè è spaziale. Cosa vuol dire che l’Esserci non incrocia mai il dis-allontanamento? Vuol dire che non si incontrano, semplicemente. Non è che l’Esserci e il dis-allontanamento siano due cose, cioè, l’Esserci sta qui e il dis-allontanamento sta là, non è che si incrociano a un certo punto per cui, ecco che la cosa si avvicina. No, il dis-allontanamento è, lo diceva prima, ciò di cui è fatto l’Esserci, cioè, è il prendersi cura delle cose. L’Esserci è spaziale nel modo dello scoprimento ambientale preveggente dello spazio, e ciò in quanto si rapporta costantemente all’ente che si incontra in questa spazialità disallontanandolo. Cioè, l’Esserci è spaziale nel modo esattamente dell’ἀλήθεια, cioè del portare in luce ciò che è nascosto. Lo porta in luce, perché? Per utilizzarlo, quindi, per controllarlo, dominarlo, ecc. A pag. 139. L’orientamento secondo la destra e la sinistra è fondato nell’orientamento-direttivo dell’Esserci in generale, che, a sua volta, è condeterminato dall’essere-nel-mondo. Kant non si propone tuttavia una interpretazione tematica dell’orientamento. Egli vuole semplicemente mostrare che ogni orientamento richiede un “principio soggettivo”. “Soggettivo”, qui, significa a priori. Se una certa cosa è soggettiva comporta il fatto che sia predeterminata dal soggetto. L’a priori dell’orientamento a destra e a sinistra si fonda in realtà sull’a priori “soggettivo” dell’essere-nel-mondo, il quale, però, non ha nulla a che fare con le determinazioni preventivamente limitate a un soggetto senza mondo. Però, questo essere-nel-mondo ci dice che, se noi parliamo di soggetto, stiamo parlando di qualcosa che è fuori del mondo, perché si contrappone alla cosa. Soggettivo qui significa il tentativo di portare qualcosa fuori dal linguaggio, è soggettivo in quanto è relativo al soggetto, il quale soggetto è un ente e posto cartesianamente, come per Kant, come un oggetto metafisico, cioè, qualcosa che esiste di per sé e non nel mondo. A pag. 141. Né lo spazio è nel soggetto, né il mondo è nello spazio. È piuttosto lo spazio a essere “nel” mondo… come dire che è lo spazio ad essere nel linguaggio, non è che il linguaggio sia in qualche modo nello spazio, ma è lo spazio che esiste perché c’è linguaggio. …perché l’essere-nel-mondo, costitutivo dell’Esserci, ha già sempre dischiuso lo spazio. Potremmo dire più semplicemente, perché il linguaggio ha già da sempre dischiuso lo spazio, ha posto le condizioni perché io possa pensare lo spazio. Lo spazio non si trova nel soggetto, né il soggetto considera il mondo “come se” fosse in uno spazio, ma il “soggetto”, autenticamente inteso nella sua ontologicità, l’Esserci, è spaziale. Nel senso che, però, diceva prima: l’Esserci è spaziale nel senso che si pone come un continuo dis-allontanamento, cioè, avvicinamento degli enti, per prendersene cura, per farci delle cose, quindi, per dominarle. Ed è appunto perché l’Esserci è spaziale nel modo descritto che lo spazio si manifesta a priori. “A priori” non significa qui l’appartenenza preliminare dello spazio a un soggetto che, dapprima senza mondo, proietterebbe poi fuori di sé lo spazio. Questo è Kant. Qui apriorità significa: preliminarità dell’incontro dello spazio (come prossimità) nel rispettivo incontro intramondano dell’utilizzabile. Che cos’è per Heidegger “a priori”? E’ il fatto che io mi trovo nel mondo, questo è a priori, mi trovo nel mondo perché non posso essere nel mondo se sono quello che sono, per cui questo a priori, dice lui, è questa preliminarità dell’incontro dello spazio(come prossimità) nel rispettivo incontro intramondano dell’utilizzabile. È a priori il fatto che io sono quello che sono in quanto ho un progetto rispetto a ciò che mi circonda, cioè, al mio intramondano, al mio essere nel mondo, rispetto a tutto ciò che è utilizzabile. Heidegger insiste molto sull’utilizzabile, il dis-allontanamento è sempre nei confronti dell’utilizzabile, cioè, di qualche cosa che, per dirla ancora con Nietzsche, favorisce il superpotenziamento. A pag. 142. La scoperta dello spazio semplicemente teorica… quello della fisica … svincolata dalla visione ambientale preveggente… è la visione che ho essendo io stesso il mondo che vedo, in questo senso è preveggente, non nel senso che preveda fatti futuri, ma che è già da sempre pre-visto, perché già da sempre sono nel linguaggio …neutralizza la prossimità in dimensioni pure. La prossimità è il mio essere vicino, è il mio dis-allontanare ciò che è utilizzabile, il prendermi cura di ciò che è utilizzabile, di ciò che mi serve per fare delle cose. Tolgo via tutto questo e mi rimane la prossimità come una pura dimensione, un qualcosa di calcolabile, come fa la fisica. I posti e la totalità dei posti dei mezzi utilizzabili, stabiliti in base alla visione ambientale preveggente, si risolvono in una molteplicità di luoghi indifferentemente adatti a qualsiasi cosa. Se io tolgo le cose dal mondo, che io stesso sono, allora è indifferente che una cosa sia qui oppure sia là, rimane sempre la stessa; mentre per Heidegger non è così, che questa cosa sia qui oppure sia là non è la stessa cosa, perché, se io sono tutte queste cose, anche il fatto che questo aggeggio sia qui anziché là sono anche questo. Il mondo si spoglia della sua ambientalità specifica e il mondo-ambiente diviene mondo-naturale. Cioè, il mondo della pura osservazione delle cose, che sono quelle che sono naturalmente. Il “mondo”, come totalità di mezzi utilizzabili, viene spazializzato in un insieme di cose ormai semplicemente-presenti ed estese. È il mondo della fisica. Lo spazio omogeneo naturale si manifesta solo per effetto di una maniera di scoprire l’ente che si incontra, la quale ha il carattere di una demondificazione specifica della conformità al mondo propria dell’utilizzabile. Questo mondo omogeneo naturale si può pensare soltanto in questo processo di demondificazione, ma pensando il mondo nel modo in cui lo pensa Heidegger, cioè, togliendolo dal linguaggio. Soltanto togliendo le cose dal linguaggio possono diventare naturali. Siamo al Capitolo Quarto, paragrafo 25, pag. 145. Ricordate che aveva posto una domanda in precedenza, chi è questo Esserci, questo Chi? La risposta alla domanda intorno al Chi sia questo ente (l’Esserci) fu già data apparentemente con l’indicazione formale delle determinazioni fondamentali dell’Esserci. Una prima risposta, dice, l’abbiamo già data grosso modo su come funziona l’Esserci ma, dice, L’Esserci è l’ente che io stesso sempre sono, l’essere è sempre mio. Il mio essere è sempre mio, non può essere di un’altra cosa. Questa determinazione mostra una costituzione ontologica, ma nulla più. La costituzione ontologica, cioè, una determinazione dell’essere, ci dice che l’essere è mio. Qual è la sua prima determinazione? Il mio essere è mio. Il che sembra una stupidaggine ma a lui serve per dire altre cose. Essa contiene anche il riconoscimento ontico, ancora grezzo, che questo ente è sempre un io e non altri. Oltre al fatto della costituzione ontologica, cioè, il fatto che l’essere è mio, c’è anche un aspetto ontico, cioè, che riguarda l’ente, che è questo io. Quando dico “io” mi riferisco a un ente, una cosa fra le cose. Alla domanda intorno al Chi risponde sempre l’io stesso, il “soggetto”, il “se Stesso”. Il Chi è ciò che si mantiene identico nel mutare dei comportamenti e delle esperienze vissute, e che si riferisce a questa molteplicità. Cioè, io posso vestirmi in questo modo, essere qui oppure là, essere antipatico oppure simpatico, ma quando mi chiedo “chi sono?” risponderò sempre “sono io”. Ontologicamente noi lo intendiamo come ciò che, in una regione chiusa e per essa, è già sempre e costantemente presente, come ciò che sta sotto in un senso preminente, come il subjectum. Tale subjectum, permanendo lo stesso nelle molteplici modificazioni, ha il carattere del se-Stesso. Quello che permane. Infatti, nell’accezione comune il soggetto sarebbe ciò che permane. Anche quando si rifiuta la sostanza-anima, l’esser-cosa della coscienza e il carattere di oggetto della persona, si può tuttavia continuare a porre ontologicamente il soggetto come qualcosa il cui essere, lo si dica o no, conserva il significato della semplice-presenza. Io, di fatto, sono semplicemente presente, sono qui, sto parlando. Infatti, dice La sostanzialità è il modello ontologico per la definizione dell’ente che risponde al problema del Chi. La sostanza, ciò che rimane, ciò che permane sotto, sempre. L’Esserci è implicitamente concepito fin dall’inizio come qualcosa di semplicemente-presente. In ogni caso l’indeterminatezza del suo essere implica sempre questo senso-d’essere. Per quanto sia indeterminato, per quanto non riesca a coglierlo, ecc., in ogni caso mantiene comunque questo senso di essere, che io sono. Ma la semplice-presenza è il modo di essere dell’ente non conforme all’Esserci. L’Esserci non è una semplice presenza, non è una cosa che è lì, è qualcosa di più; infatti, lui distingueva, se ricordate, tra categoriale e esistenziale. Categoriale comportava quell’insieme di proprietà attribuibili a qualche cosa; l’esistenzialità comporta, invece, il fatto che qualcosa esiste, come l’Esserci, ma esiste all’interno di un mondo, e queste proprietà, che io potrei attribuirgli, non gli sono attribuite, ma sono quella cosa lì, è questa la differenza fondamentale. L’evidenza ontica dell’affermazione che sono io che sono sempre l’Esserci non deve indurre erroneamente a ritenere che con ciò si sia già tracciata in modo inequivocabile la via per una interpretazione ontologica dell’ente così “dato”. Rimane infatti problematico perfino il fatto se il contenuto ontico dell’affermazione in esame … Cioè, io. … renda in maniera adeguata la realtà fenomenica dell’Esserci quotidiano. Potrebbe anche darsi che io stesso non sia sempre il Chi dell’Esserci quotidiano. Questo per dire che l’Io non si sovrappone per nulla all’Esserci, anche se dice che io sono l’Esserci, ma questo Io, se lo pongo come ente, e cioè come qualche cosa che non ha a che fare con l’Esserci, allora, dice, siamo completamente fuori strada. A pag. 146. Nel presente quadro di un’analitica esistenziale dell’Esserci effettivo sorge il problema se il suddetto modo di darsi dell’io dischiuda l’Esserci nella sua quotidianità, ammesso che lo dischiuda. È sempre il problema di stabilire se io e l’Esserci sono la stessa cosa oppure no. Per Heidegger non lo sono, ma lui ci arriva, sapete come fa lui, attraverso le prossime settanta pagine… Incomincia con delle domande. È davvero evidente a priori che l’accesso all’Esserci debba essere una riflessione puramente percettiva sull’io degli atti? E se questo modo di “darsi a se stesso” dell’Esserci fosse uno sviamento dell’analitica esistenziale radicato nello stesso essere dell’Esserci? Questo accesso che ho all’Esserci è davvero che sia così evidente quando io mi rivolgo a me stesso, dicendo io e che, quindi, l’Esserci è questa cosa cui mi riferisco quando dico io, cosa che per Heidegger non è, perché ciò cui mi riferisco, dicendo io, è un ente, un ente che però non è quell’ente che esiste in quanto mondo, ma dicendo io determino un ente preciso fra tutti gli altri. L’Esserci, invece, non è un ente determinato fra tutti gli altri, è quell’ente che si chiede di sé e che, chiedendosi di sé, si accorge di essere mondo, cioè, di essere questa domanda, di essere le cose alle quali si riferisce, di essere le cose che gli interessano, di essere tutte quelle cose lì. Forse l’Esserci nel più immediato rivolgersi a se stesso si chiama sempre in questo modo: “Io sono questo”, e con voce tanto più alta quanto più “non” è questo ente? Continua a ripetere che l’Esserci non è questo ente che io chiamo “io”. E se la costituzione dell’Esserci, che è sempre mio, fosse il fondamento del fatto che l’Esserci innanzi tutto e per lo più non è se stesso? È possibile, dopo tutto come possiamo dire che l’Esserci è se stesso, visto che l’Esserci non è altro che il progetto in cui mi trovo continuamente, che muta continuamente? Come dicevamo prima, io sono tutte queste cose che ci sono qui, perché tutte queste cose mi costituiscono per quello che sono in questo momento, quindi anche questa variazione comporta già una modificazione, e pertanto come faccio a dire che sono lo stesso? Questo lo diceva già Freud e anche molti altri: Io è un altro, diceva Rimbaud. Si ha un bel ripetere (con diritto, sul piano ontico) che questo ente sono “io”. Ma se l’analitica ontologica vuol fare uso di affermazioni come questa, deve assumerle con riserve di fondo. L’“io” può essere compreso solo nel senso di una indicazione formale non vincolante di qualcosa che, nel rispettivo contesto d’esser fenomenico, può rivelarsi come l’“opposto” di ciò che sembrava. Questo “io” può essere compreso solo nel senso di una di una indicazione ma, dice, non vincolante rispetto a qualche cosa che, di fatto, può rivelarsi essere l’opposto. Se io mi definisco in un certo modo, se io continuo a definirmi può accadere, per esempio, che lungo queste definizioni a un certo punto una definizione ne contraddica un’altra, per via del fatto che io cambio. Di conseguenza, “non io” non significa affatto qualcosa come un ente privo della “egoità”, ma indica invece un determinato modo di essere dell’“io” stesso, quale può essere la perdita di sé. (pagg. 146-147) se l’Esserci è se stesso soltanto esistendo… Lui sottolinea “esistendo”, perché l’Esserci è se stesso esistendo nel mondo, trovandosi continuamente preso in qualche cosa, nel commercio con gli enti, nel continuo prendersi cura degli enti, in questo esiste, cioè, la sua esistenza è questa, non ce n’è un’altra. A pag. 148 dice L’esigenza di concepire il se-Stesso “soltanto” come un modo di essere di questo ente può far credere che si perda così il “nocciolo” autentico dell’Esserci. Se io pongo il se-Stesso soltanto come un modo di esserci, soltanto come una delle varie determinazioni possibili, anziché qualcosa di stabile, di fermo, dice che c’è il rischio che si perda il nocciolo della questione, e cioè che il se-Stesso deve essere qualche cosa su cui si fonda l’Esserci, che deve essere se stesso. Ma questi timori nascono dal pregiudizio sbagliato che l’ente in questione abbia in fondo il modo di essere di una semplice-presenza, anche quando ci si astiene dall’interpretare grossolanamente l’Esserci come cosa corporea sussistente. Sennonché, la “sostanza” dell’uomo non è lo spirito come sintesi di anima e corpo, ma l’esistenza. È l’esistenza. Che è esattamente ciò che diceva prima quando diceva che l’Esserci è se stesso soltanto esistendo. Ma cosa vuol dire “esistendo”, cosa vuol dire che la sostanza dell’uomo è la sua esistenza? È il suo essere nel mondo, semplicemente questo. Questa è la sostanza, essere nel mondo, essere in una relazione, anzi, essere queste relazioni. La “descrizione” del mondo-ambiente immediato… quella che può fare chiunque … ad esempio del mondo dell’operare di un artigiano, ha mostrato che, unitamente ai mezzi impiegati nel lavoro, sono “con-incontrati” gli altri Esserci a cui l’“opera” è destinata. Nel fare dell’artigiano non c’è soltanto l’attrezzo, lo strumento, il materiale, ecc., ci sono anche le altre persone, per esempio chi gli ha commissionato il lavoro da fare. Nel modo di essere dell’opera come utilizzabile, cioè nella sua appagatività, è implicito un rimando essenziale a utilizzatori possibili, rispetto ai quali essa deve essere fatta “su misura”. Anche nel materiale impiegato, il fabbricante o il “fornitore” si annunciano come gente che “serve” bene o male i propri clienti. Ad esempio, il campo su cui “là fuori” camminiamo appartiene a qualcuno e appare più o meo ben tenuto dal suo coltivatore; il libro che leggo è stato comprato presso… donato da… e così via. … Gli altri che si “incontrano” entro il complesso dei mezzi utilizzabili intramondani non sono pensati come se si aggiungessero alle cose innanzi tutto semplicemente-presenti. Torniamo alla questione di sempre di Heidegger: questi altri, come colui che dà il lavoro da fare al falegname, ecc., non è un elemento che si aggiunge come semplice-presenza; no, modifica il mondo. Al contrario, queste “cose” si incontrano a partire da un mondo in cui sono utilizzabili per gli altri; mondo, questo, che è anche fin da principio il mio. (pagg. 148-149) Tutte queste altre persone che si incontrano sono il mio mondo, perché fanno parte del mondo in cui io mi trovo e, quindi, mi modificano e io modifico loro, continuamente. Il mondo dell’Esserci rilascia dunque un ente che non solo è, in generale, diverso dai mezzi e dalle cose, ma che, conformemente al suo modo di essere dell’essere-nel-mondo e come tale è incontrato nel mondo. È il circolo ermeneutico. Badate bene, il mondo dell’Esserci rilascia un ente, che è l’Esserci stesso, perché, come abbiamo sempre detto, è un ente, non è l’essere. Questo Esserci, questa cosa che rilascia, anche questa è nel mondo, ovviamente. È rilasciato nel mondo in un certo modo e questo modo è il modo in cui io lo incontro nel mondo, in cui l’Esserci lo incontra nel mondo, cioè, l’Esserci è nel mondo. Questo essere nel mondo comporta che si rilascia un ente, cioè, il mondo, di cui l’Esserci è fatto, modifica l’Esserci continuamente, per cui ogni cosa che incontro nel mondo, che l’Esserci incontra nel mondo, modifica l’Esserci, perché modifica il modo in cui questa cosa è nel mondo, perché, se io mi riferisco a questa cosa, questa cosa non è più quella di prima, il mio interesse per questa cosa la modifica. Questa cosa, come abbiamo detto mille volte, non è quella che è per virtù propria. Questo ente non né un utilizzabile né una semplice-presenza, ma è così come l’Esserci stesso che lo rilascia; anch’esso ci è con. Questo aggeggio non è così com’è per virtù propria ma è così per via dell’Esserci che lo rilascia, cioè, che lo fa essere quello che è, e l’Esserci sono io. Se mai si volesse identificare il mondo in generale con l’ente intramondano, si dovrebbe dire che il “mondo” e anche l’Esserci. L’Esserci è tutte queste cose che sono presenti nel mondo e con le quali ha a che fare. Avendo a che fare con queste cose, queste cose mutano e mutano perché non sono quello che sono per virtù propria ma sono quello che sono per via di me, cioè, dell’Esserci che le utilizza. Anche gli altri, dice, non è che siano delle semplici presenza. Dice poco dopo, infatti, Gli altri sono piuttosto quelli dai quali per lo più non ci si distingue a fra i quali, quindi, si è anche. Questo anche-esser-ci con essi non ha il carattere ontologico di un esser-semplicemente-presente “con” dentro un mondo. Il “con” è un “con” conforme all’Esserci e l’“anche” esprime l’identità di essere quale essere-nel-mondo prendente cura e preveggente ambientalmente. Cioè, anche il commercio con gli altri, l’interessamento nei confronti degli altri, è la stessa questione. Questi altri sono quello che sono, sì, certo, perché io li vedo per quello che sono, ma per come li vedo io, cioè, per come sono nel mondo che mi appartiene, che io sono. E conclude dicendo Su fondamento di questo essere-nel-mondo con il carattere di “con”, il mondo è già sempre quello che io con-divido con gli altri. Il mondo dell’Esserci è con-mondo. L’in-essere è un con-essere con gli altri. L’esser-in-sé intramondano degli altri è un con-Esserci. Qui non si parla più né è più possibile pensare gli altri, o me rispetto agli altri, come un incontro di soggetti, che sono quello che sono, perché io sono quello che sono in questo momento anche in relazione a Cesare e a Sandro, in relazione al mondo che mi circonda. Gli altri non si incontrano cogliendoli in base a una distinzione preliminare di sé, come soggetto innanzi tutto semplicemente-presente, dai restanti soggetti, essi pure semplicemente-presenti; non quindi guardando a se stesso quale fondamento della contrapposizione agli altri. (pagg. 149-150) Dopo tutto è sempre la stessa questione: soggetto e oggetto. L’Esserci trova “se stesso” innanzi tutto in ciò che sta facendo, in ciò di cui ha bisogno, in ciò che si aspetta, in ciò che evita, cioè nell’utilizzabile intramondano di cui innanzi tutto si prende cura. L’Esserci si trova in quello che fa, in quello che dice, è lì, non è da nessun’altra parte se non in ciò che fa, cioè, in ciò che dice. …abbiamo già osservato che l’“io-qui” non significa un punto speciale della cosa-io, … io sono qui, quindi, sono qui come cosa fra le cose; no, ma l’io-qui significa l’autocomprensione dell’Esserci come in-essere a partire dal “là” del mondo utilizzabile in cui l’Esserci si mantiene in quanto prendersi cura. Io posso dire io-qui, che non è una contrapposizione tra soggetti o tra soggetto e oggetto, ma posso dirlo perché mi riferisco a un “qui” che tiene conto e non può non tenerne conto di un “là”, che fa parte anche lui del mondo, non è una contrapposizione, questo Esserci è tutte queste cose, posso dire “qui” perché è anche quel “là” e questo gli consente di essere un “qui”. A pag. 154. La mondità fu interpretata come l’insieme di rimandi della significatività… la mondità, cioè, ciò che mi circonda. … Nella familiarità precomprendente con la significatività, l’Esserci fa sì che l’utilizzabile sia incontrato e scoperto nella sua appagatività. Qual è la condizione perché l’Esserci scopra, dis-allontani l’ente nella sua utilizzabilità? L’Esserci incontra l’ente nella mondità, nel mondo, e cioè in che cosa? Lo dice qui: La mondità fu interpretata come l’insieme di rimandi della significatività, cioè, all’interno di una relazione, è lì che incontra le cose; se non ci fossero rinvii, rimandi, cioè, se non ci fossero segni, non può trovare l’ente. Infatti, si relaziona attraverso relazioni continue.