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26 marzo 2025

 

Werner Beierwaltes Platonismo e idealismo

 

Beierwaltes sta dicendo moltissime cose, di grandissimo interesse, spesso tra le righe, indirettamente; talvolta, lui stesso non osa andare oltre un certo punto. Beierwaltes ci dice che tutto il pensiero, da Platone in poi, è neoplatonico, quindi, religioso, quindi, fondato sulla fede nell’assoluto, nell’ineffabile, nella verità epistemica. Tutto il pensiero - abbiamo visto anche Hegel, Nietzsche, Heidegger, Wittgenstein, sono tutti neoplatonici, e cioè tutti, indistintamente - si fondano sull’ineffabile. Wittgenstein lo dice apertamente: “ciò di cui non si può palare occorre tacere”, nella presupposizione che vi sia qualcosa di cui non si può parlare. Questa presupposizione è interessante perché, in effetti, se io dico che A è B, potrei arrivare a pensare di non potere dire la A se non dicendo B e, quindi, la A non la dirò mai. Ma non è così, questa è la posizione religiosa. Invece, dico che cosa è A, e cioè dico che è B; quindi, ho detto che cosa è A, la A non è ineffabile. Se ci pensate bene, è esattamente ciò che diceva Aristotele rispetto alla sostanza, sostanza che poi è diventata effettivamente l’ineffabile, Dio, ciò che non può dirsi; per Aristotele no, la sostanza è ciò che se ne dice, quindi, si può dire, anzi, si dice inesorabilmente, non può non dirsi. Quindi, potremmo dire, sempre seguendo Aristotele, non solo che non c’è l’ineffabile, ma che ciascuna cosa non può non dirsi. La questione dell’ineffabile, che è sempre presente nella filosofia, pone una questione: l’ineffabile dice che c’è una verità che, però, non è visibile, non si può toccare, ecc., ma c’è ed è quella che consente di pensare che le proprie idee, le proprie opinioni, siano vere. Ora, lo dicevamo tempo fa, il linguaggio è religione. La religione, la filosofia, il pensiero in generale, a questo punto appaiono come una sorta di rimedio al linguaggio. Il pensiero religioso è un rimedio al pensiero teoretico. Il pensiero religioso è quello che offre il conforto, il conforto di un acquietarsi nella certezza di avere unificato e, quindi, di avere tolto i molti. Questo acquietarsi nell’Uno è ciò di cui parla anche Plotino: c’è l’acquietarsi perché a questo punto la ricerca è finita, si è arrivati all’Uno, all’ineffabile, alla verità epistemica, a qualcosa che è necessariamente quello che è. Il pensiero teoretico invece non può acquietarsi, il pensiero teoretico inserisce continuamente il movimento. Il pensiero teoretico non offre spiegazioni, il pensiero teoretico è quella cosa che pone la problematicità di qualunque spiegazione. Problema qui nell’accezione heideggeriana del termine, cioè, come qualcosa che è sempre da pensare.

Intervento: Che non ha una fine né un fine.

Un fine nel senso del télos, cioè, non è mai compiuto o, potremmo dirla anche così, si compie nel suo continuo divenire. Il divenire è quella cosa che Severino negava, dicendo che era la follia. Il divenire si può intendere o dialetticamente, alla Hegel, e cioè: l’in sé diviene propriamente l’in sé quando integra il per sé, cioè quando elimina i molti e allora diviene veramente ciò che è, ciò che è sempre stato e che deve tornare a essere (l’Uno di Plotino); oppure, seguendo invece il pensiero teoretico, cioè seguendo Aristotele, il divenire non è altro che il porsi di un qualche cosa che ponendosi dilegua. Ma questo dileguare non è un ritornare all’in sé, per riprendere i termini di Hegel, e, quindi, puntare direttamente a un pensiero assoluto, all’Uno, che sarebbe il risultato dell’integrazione, alla fine di tutto il processo storico il pensiero assoluto, quello che ha eliminato per sempre i molti. No, in questo caso invece è il porsi di qualche cosa, come diceva Eraclito, che ponendosi dilegua, oppure il πάντα ε, tutto scorre, tutto diviene e, divenendo mentre si pone, scompare, ma scompare nel senso che diviene altro; o, ancora, ἒν πάντα εἰναι, l’uno è tutte le cose, quindi, è sempre in movimento. Quindi, il pensiero teoretico instaura il movimento ineluttabile.

Intervento: …

Nei presocratici non esisteva il concetto di assoluto, non era neanche pensabile che qualcosa permanesse sempre così com’è, ciò che sempre è. “Ciò che sempre è” che cosa sarebbe? Già Zenone l’aveva messo in discussione: posso pensare il movimento solo bloccandolo, sennò non posso fare niente, e, quindi, ecco che il movimento scompare a vantaggio dell’assoluto, quindi dell’eterno, quindi dell’inamovibile. Perché, se si muove, allora va in un altro luogo e l’assoluto non è più assoluto ma relativo perché comprende qualche altra cosa oltre a sé e, pertanto, non è il tutto, non è l’intero. Reinserire il movimento è ciò che, invece, fa il pensiero teoretico: in questa immobilità (apparente) inserisce il movimento; quindi, toglie in fondo la quiete, perché a quel punto il pensiero teoretico non si acquieta nella stasi, nell’immobilità, quindi nella certezza, nella verità epistemica, ma problematizza ogni cosa che incontra, la pone come un problema, cioè, la interroga. Così facendo, si pone però in una posizione di inferiorità rispetto al pensiero religioso, perché il pensiero religioso, come dicevo, acquieta nella certezza. Questa certezza ciascuno poi la ritrova, sì, certo, nei grandi sistemi filosofici, nelle religioni, ma, ed è la cosa più interessante, soprattutto nel quotidiano, nel domestico, nel familiare. È lì che trova le certezze, cioè, qualcosa che non ha da essere ulteriormente interrogato, perché è così; è lì che si trova il pensiero religioso. Sì, lo si ritrova anche nella teologia medioevale, certo, ma soprattutto in questo modo di pensare, che viene dall’idea che ci sono delle certezze, che ci sono cose che non meritano di essere interrogate, perché sono così e basta. Ecco il pensiero religioso, ecco l’acquietarsi nella certezza, che in un certo senso dà sicurezza, dà forza, perché io so come stanno le cose. Da qui la fortuna del pensiero religioso e, direi quasi, la sua inevitabilità. Come dicevamo forse la volta scorsa, il mercoledì sera ci occupiamo del linguaggio, poi, durante la settimana, di tutto il resto. Questa è una formulazione religiosa, cioè, finché ci occupiamo del linguaggio interviene il movimento, questo divenire continuo, ma poi ci sono le certezze, gli impegni quotidiani, settimanali, ecc., tutto ciò con cui ho a che fare quotidianamente. Sta lì il pensiero religioso perché tutti questi elementi che intervengono vengono automaticamente pensati fuori dal linguaggio e, quindi, non interrogabili, sono quello che sono, per cui non c’è niente da dire, è così e basta. Sono cose banali, ma sono quelle che sono: questo è il pensiero religioso. È anche il motivo per cui l’interesse per il pensiero teoretico, quando c’è naturalmente, è sempre limitato dal pensiero religioso. Limitato nel senso che intervengo quelle cose che non sono da interrogare, perché sono così, sono le cose ovvie fuori del linguaggio. Beierwaltes continua a dirci quanto il pensiero, in questo caso dell’idealismo, ma potremmo estenderlo al pensiero in generale, debba al neoplatonismo. A pag. 152. a) Il concetto di natura di Schelling è già stato delineato a proposito di Goethe e di Novalis. È comprensibile che proprio la filosofia della natura idealistico-romantica offra sempre l’occasione di rimandare a Platone o a Plotino come ai prototipi o ai filosofi congeniali del proprio pensiero: Windischmann traduce – dedicandolo a Schelling come il “restauratore della più antica ed autentica fisica” – il Timeo di Platone, “un documento genuino di autentica fisica, e riconduce a Plotino il concetto schellinghiano di natura ”; Novalis trova proprio in Plotino l’intellettualizzatore della materia, le fondamenta di una “fisica sacra”; Creuzer traduce per primo l’Enneade III 8 “Della natura, della contemplazione e dell’Uno”; afferma, a ragione, che il pensiero di Plotino rivela, proprio intorno a questa tematica, determinate affinità con la filosofia contemporanea. Questa affermazione è verificabile sulla base di numerosi elementi di pensiero costitutivi del concetto di natura proprio a Plotino: Natura e Spirito non sono nettamente separati, come contrari impossibili da mediare, così da sfociare necessariamente in un dualismo “gnostico” che identificherebbe la natura col male puro e semplice. Natura è piuttosto per Plotino un tipo di ϑεώρία, il mondo sensibile poi è il prodotto di questa contemplazione o visione (ϑεώρημα). Θεώρία è da intendersi dunque come πρᾶξις, come attività intelligibile o azione: il pensiero contemplativo non permane in sé, ma è al contrario produttivo, creativo. Questo per Plotino, fino poi al cristianesimo: pensandosi, autoriflettendosi, produce le cose, perché, pensandosi, produce il pensiero, il pensiero produce l’anima, e l’anima produce, anima tutte le cose. La natura ha perciò il suo fondamento in principi formali razionali, e, attraverso la mediazione di questi, nello Spirito stesso; essa diventa la sua base di manifestazione. Con ciò si esclude radicalmente che la natura e il mondo sensibile, anche se sono soltanto immagine e specchio dell’intelligibile, possono venire spiegati con ‘aiuto di un modello meccanicistico, o considerati cattivi, malvagi, o brutti. Sono prodotti delle idee, né più né meno. Qui c’è l’impronta potente di Platone. A pag. 155. Come il “nulla”, così anche la materia è da sempre la croce dell’intelletto – e non lo è meno nella concezione idealistica della natura. La materia si rivela particolarmente resistente al pensiero: alla fin fine altrettanto insolubile razionalmente – sebbene in opposto riguardo – quanto l’Assoluto stesso. La materia rimane insolubile. Ancora negli anni novanta Verdiglione parlava della materia non semiotizzabile, cioè non significabile, cioè, fuori del linguaggio. La materia è quel qualche cosa che non è comprensibile, è il nulla. Infatti, Plotino parla dell’Uno anche come nulla; in effetti, la teologia apofatica, a forza di togliere cose, si ritrova nulla. Rimane sempre, nonostante lo spirito che, nella materia in quanto natura, “comprende”, un “resto” incompreso. C’è sempre questo resto incompreso, la materia, l’ineffabile, ciò che non può dirsi. Senza tenere conto di ciò che diceva ancora Aristotele, e cioè che non esiste la materia senza la forma; materia e forma formano un tutt’uno, il sinolo, σύν-ολον, tutto insieme. La materia, staccata dalla forma, non esiste, è come il dire separato da ciò che il dire dice, è la stessa cosa; non c’è, è un’invenzione, così come l’uno separato dai molti è un’invenzione, non esiste; sarebbe l’uno senza determinazioni, ma se non ha determinazioni non è determinato neanche come uno, quindi, è nulla. Nel processo delle “età del mondo” schellinghiane, la materia quale principio che dominò dapprima, nel passato, viene ridotta nel “presente” a pura potenzialità e alla forza formante dello spirito. Da forza” essa si fa così “passività”, rimane tuttavia fondamento o presupposto del presente quale “faccia passiva, ancor rivolta verso il presente, della forza originaria posta come passata”. La sua essenza “mistica” si rivela nel fatto che essa, portata al presente, e cioè determinata per mezzo della forma e della qualità, “appare come qualcosa che non è essente”, e tuttavia è essente. È come la materia senza la forma: è essente perché ne sto parlando, quindi, in qualche modo ci sarà, ma allo stesso tempo non è essente perché non la posso determinare, non la posso cogliere senza la forma. È la stessa cosa dell’uno e dei molti: l’uno sarebbe l’essenza che non posso determinare senza i molti. Il chiaro riconoscimento di questa ambivalenza nel concetto di materia, Schelling lo ritrova – citandolo espressamente come conferma del suo proprio punto di vista – in Plotino:… Qui c’è una citazione di Schelling che parla di Plotino. Quanto spesso ci siamo sentiti attratti dalle descrizioni che i Platonici, e principalmente Plotino, abbozzano di questa essenza enigmatica della materia, senza peraltro arrivare a chiarirla completamente. A questo spirito profondo, infatti, poiché aveva già respinto l’idea della preesistenza platonica di un’essenza senza regola e resistente all’ordine, avviandosi nella direzione in cui si presuppone che tutto sia cominciato dall’essere più puro e più perfetto, non rimaneva altra spiegazione per l’esistenza della materia che l’indebolimento graduale di quell’essere perfetto. Egli descrive peraltro questa essenza del non-ente in modo inimitabilmente profondo; ad esempio quando dice che la materia fugge chi vuole afferrarla, ma quando non la si afferra è in qualche modo presente; che l’intelletto diventa come un altro e quasi non-intelletto quando la contempla, come quando l’occhio si toglie dalla luce per vedere la tenebra, e invece poi non la vede, in quanto la tenebra è altrettanto poco visibile con la luce che senza la luce; che essa non è nient’altro che la mancanza di ogni qualità, che è assenza di misura se paragonata alla misura, assenza di forma se paragonata alla forma; che è insaziabile e, in una parola, privazione estrema, così che la mancanza non le è accidentale, ma pare anzi esserle essenziale. Che è per questo che è stata anche rappresentata sotto le spoglie di Penìa in quella solennità in onore di Giove di cui parla il mito di Diotima. Non si riesce in nessun modo a determinare la materia perché è stata separata, in questo caso, dall’Uno. La materia, senza la forma, cioè, senza l’Uno, è niente, Aristotele lo dice. Il problema è esattamente quello dell’uno e dei molti: togliere la forma dalla materia è togliere anche la materia. Di questo nessuno si è mai accorto e, quindi, ecco il tentativo disperato di trovare una materia che non abbia forma: non c’è perché è un’invenzione, non esiste da nessuna parte. Mentre si parte sempre dall’idea che sia un ente di natura e che, quindi, sia possibile reperirlo, determinarlo, vederlo, interrogarlo, ecc. A pag. 157. Come il movimento circolare dell’Anima del mondo, che ne fa il principio organizzativo e ordinante, il principio che garantisce l’armonia del cosmo, anche il termine schellinghiano “legame” (Band) coglie un elemento essenziale nel concetto platonico e plotiniano, di Anima del mondo. “Legame” è un concetto mediatore. Col suo aiuto Schelling cerca di indicare che il rapporto tra infinito e finito non è un rapporto dualistico di opposti: anzi, la necessità che unisce l’infinito al finito costituisce appunto questo legame assoluto o eterno. Il legame si rivela essere uno dei modi in cui funziona il Dio stesso, o l’Assoluto. Il suo effetto è l’unità nella molteplicità delle forme fenomeniche, ovvero la totalità dei singoli, così che anche nei singoli è presente il tutto (o l’intero): la sua essenza è “identità nella totalità, e totalità nell’identità”. Qui la cosa è ben chiara. Dice identità nella totalità, e totalità nell’identità. Questa è l’integrazione di cui parlerà poi Hegel, perché, se, sempre aristotelicamente, ponessimo l’identità e la totalità come la stessa cosa, allora l’identità non può essere nella totalità, perché sono lo stesso, non li posso separare. Soltanto separandoli posso affermare che è identità nella totalità, ma, se sono lo stesso, non c’è nessuna identità perché l’identità è la totalità e la totalità è identità, necessariamente. Come l’uno è i molti, non c’è l’identità senza la totalità, cioè senza i tutti. ἒν πάντα εἰναι, l’uno è tutte le cose. Eraclito non dice che l’uno è in tutte le cose, sarebbe stato molto diverso, ma dice che l’uno è tutte le cose. Il motivo del suo agire (dell’Anima del mondo) è l’infinito amore che porta a se stesso, e che è identico al volere-se-stesso. Il mondo diventa specchio o impronta di questo amare e volere se stesso. L’effetto unificante e totalizzante del legame è inteso da Schelling anche nel senso di una animazione della natura che le conferisce l’unità di quiete e movimento. Qui parliamo di effetto unificante e totalizzante del legame, dell’Anima del mondo, di ciò che tiene insieme. L’effetto unificante è esattamente ciò che indicavo prima come pensiero religioso. Perché il pensiero religioso si acquieta nella certezza? Perché è unificante, unifica. E quando si è acquietato? Quando pensa, crede di avere eliminato i molti, perché solo così ha raggiunto l’Assoluto, la verità epistemica, il τέλος, nel senso del compimento, cioè, non c’è più altro all’infuori. A pag. 161. Nel tentativo energico di mantenere la filosofia di Plotino al livello del concetto – “per lui tutta la verità è soltanto nella ragione e nel concepire” – Hegel interpreta persino l’estasi mistica come atto razionale, come un uscire dai contenuti della coscienza sensibile, come “puro pensiero che è presso di sé, che ha se stesso come oggetto”. Puro pensiero che ha se stesso per “oggetto” potrebbe essere tutt’al più una caratterizzazione del νούς plotiniano, ma non certo della struttura dell’atto di unione con l’Uno. L’atto di unione con l’Uno elimina i molti; il pensiero che hegelianamente pensa se stesso è un pensiero che torna su se stesso, è l’in sé che diventa in sé nel momento in cui si integra con il per sé, che però è altro dall’in sé. Poiché non può immaginarsi una realtà che non sia determinata attivamente dalla ragione, Hegel dà forma all’Uno di Plotino seguendo rigorosamente il proprio modello di soggetto. Di conseguenza, per Hegel l’Uno pensa, benché Plotino, almeno nei suoi scritti più tardi, ce lo presenti rigorosamente come non-pensante. È vero, Hegel dice che l’Uno pensa, ma pensa che cosa? Pensando se stesso torna a essere effettivamente l’Uno. A pag. 162. Ora se l’Uno in quanto Dio è essere puro, e l’essenza di Dio è poi il pensiero stesso, ne deriva che l’Uno divino si attua come l’identità di pensiero ed essere. Qui l’identità di pensiero ed essere compongono l’Uno. Una distanza immensa da Parmenide, per il quale pensiero ed essere non compongono nessun Uno, ma il pensiero è l’essere e, quindi, è qualcosa che è in continuo movimento. Hegel ha cioè proiettato il proprio pensiero fondamentale – che l’essere può essere concretamente soltanto in questo pensiero che concepisce se stesso e che soltanto questo concepire se stesso del concetto è in grado di divenire idea assoluta – nel principio primo di Plotino, ovvero ha ritrovato il proprio pensiero in Plotino come un’idea che getta la sua luce del futuro. A colui che ricerca l’estraneo si manifesta e si chiarisce il proprio:… L’in sé, che cerca l’estraneo, il per sé, chiarisce se stesso, l’in sé, e diventa pensiero assoluto. …Hegel è evidentemente, nel suo essere interprete, prigioniero di se stesso, proprio come lo era quell’“apprendista di Sais”: “Uno ci riuscì, sollevò il velo della dea a Sais. Ma cosa vide, vide, miracolo dei miracoli, se stesso”. È quello che diceva Gentile: quando io penso qualcosa, di fatto penso soltanto il mio pensiero. In fondo, sono sempre gli stessi concetti che si ripropongono in vario modo. A pag. 163. “Idealismo perfetto” è inoltre per Hegel un idealismo dialettico. Per dialettica – a differenza di una relazione bipolare, intesa in senso statico, di ente-in-sé – si intende qui lo sviluppo processuale dell’essere nel pensiero o quale pensiero. Lo sviluppo dall’in sé al per sé e ritorno all’in sé; quindi, per Hegel non è una situazione statica ma sempre processuale; un processuale che deve concludere, come τέλος, come compimento, l’Uno, il pensiero assoluto. L’Assoluto, implicito fin dall’inizio di questo processo,… La dice grossa qui Beierwaltes, senza accorgersene: L’Assoluto, implicito fin dall’inizio, cioè, è presupposto. Ciò che per Hegel è il risultato è una presupposizione. L’Assoluto, implicito fin dall’inizio di questo processo, “diventa se stesso” appunto per mezzo del superamento di quanto vi è di “altro” o di negativo nella negazione. Tutto ciò che vi è di negativo nella negazione deve essere eliminato a vantaggio di questo Assoluto che è presupposto, non è il risultato. Questa cosa sfugge a Beierwaltes, non si rende conto della gravità di quello che sta dicendo: se l’Assoluto è implicito fin dall’inizio, allora questo processo hegeliano, questa dialettica, non è un processo che alla fine reperisce un qualche cos’altro, reperisce ciò che ha già stabilito fin dall’inizio, cioè, l’esistenza dell’Assoluto, al quale dovrebbe ritornare, a questo punto senza sapere bene perché… “Esistenze particolari”, quali Plotino le pone nell’intelligibile e nel sensibile, non possono essere. Tutto deve essere universale, le esistenze particolari, i molti, non possono essere. Se Plotino fosse in questo senso “dialettico”, e ciò significa autenticamente “filosofico”, la processione dell’Assoluto da se stesso dovrebbe essere pensabile come autonegazione produttiva; l’“unità semplice” dell’Uno non sarebbe “negatività assoluta” per il motivo che di lei nulla si può predicare affermativamente – ma è precisamente su questo modo di negatività che insiste Plotino -, bensì per la ragione che nel superare se stessa, cioè nel procedere fuori da se stessa, essa negherebbe se stessa e potrebbe così pervenire all’essere compiuto del concetto: “l’uscir fuori è appunto quella negatività in sé”. L’uscir fuori mantiene una negatività in sé: qui, per Plotino, non doveva esserci in nessun modo. A pag. 164. Il motivo per cui Hegel razionalizza l’estasi plotiniana, ne fa il luogo in cui l’iniziato prende coscienza “dei concetti e delle idee speculative”, ci si mostra dunque ancor più chiaramente a partire dal principio della connaturalità di conoscente e conosciuto: se l’Uno è essere puro e in quanto tale pensa se stesso, è impossibile che l’estasi sia – come vuole Plotino – uno stato in cui non si pensa; essa diventa anzi il supremo atto intellettuale dell’uomo. Per Hegel l’estasi, questo uscire fuori, non è altro che la processualità della dialettica: l’in sé che esce fuori di sé verso il per sé e che poi torna sull’in sé. Se la prospettiva “intellettualistica” o “idealistica” in cui Hegel vede Plotino snatura l’essenza dell’Uno, essa è invece strumento di interpretazione illuminante per quanto riguarda lo Spirito. In lui Hegel riconosce infatti, realizzata nella forma dell’autoriflessione, l’identità nella differenza. La differenza scompare e rimane l’identità. Lo Spirito è pensiero soltanto come pensiero di pensiero, come il trovare-se-stesso di se stesso. È un tornare all’Uno, né più né meno. Pensando se stesso, il pensiero distingue in sé il da-pensare… Se penso me stesso, pongo me e il me stesso come due. …e al tempo stesso annulla nuovamente le distinzioni. Si pone come due e torna come uno. Lo Spirito è dunque da una parte unità negativa, in quanto contiene in sé il “principio dell’individualità”, cioè dell’essere proprio delle idee; dall’altra è però anche unità positiva, in quanto riflette nell’identità ciò che vi è in lui di differente ed è così essenzialmente anche il “permanere presso di sé della contemplazione”. Tutto viene ridotto all’Uno. La dialettica a questo punto è, sì, il pensiero in generale, ma è il pensiero posto come rimedio al linguaggio, come rimedio all’uno e i molti, rimedio a ciò che diceva Eraclito: ciò che si pone ponendosi dilegua. È la stessa cosa di quando dice πάντα ῥεῖ, tutto scorre, tutto si trasforma, tutto diviene, e tutto diviene come dicevamo all’inizio, per via del fatto che ciascuna cosa è la sua negazione; non è che contiene in sé, da qualche parte, la sua negazione, ma è la sua negazione. A pag. 166. Quando il pensiero “pensa, fa di se stesso due… Io che penso e quello che io penso. …o piuttosto, dal momento che pensa, è due (=oggettivazione), e, dal momento che contemporaneamente pensa se stesso, è Uno”. Quando pensa se stesso diventa Uno, cioè, compie quel processo dialettico che vuole Hegel. Dal momento che il “pensiero di pensiero” aristotelico, quale entelechia del pensiero, costituisce per Hegel l’anticipazione più adeguata al proprio concetto di pensiero assoluto, e dal momento che Plotino si è “sollevato”, grazie precisamente al suo concetto di Spirito, “a questa regione suprema” – cioè appunto al pensiero di pensiero aristotelico, non avrebbe in fondo affatto bisogno, sempre secondo Hegel, dell’Uno, o, in altri termini, principio primo dovrebbe essere lo Spirito; dal momento però che non si può far sparire dal sistema l’Uno plotiniano, bisogna almeno farlo pensare singolare rovesciamento della critica mossa dallo stesso Plotino ad Aristotele, di avere cioè indebitamente elevato il pensiero a principio primo…Questa è l’accusa che Plotino rivolge ad Aristotele: ha elevato il pensiero a principio primo. …al tempo stesso però un ripetersi – ricco di implicazioni per quel che riguarda il rapporto di Hegel con la tradizione – della ricezione cristiana del neoplatonismo, che si era vista costretta a ridurre ad un’unica realtà l’Uno non-pensante e il Dio che pensa se stesso, ed è tuttavia fondamento assoluto. Questo è il problema teologico di Dio che pensa se stesso, perché si sdoppia: come gestiamo questo sdoppiamento? Qui è però interessante ciò che Beierwaltes dice: il “pensiero di pensiero” aristotelico, quale entelechia del pensiero. Per Hegel costituisce, come dice qui, l’anticipazione più adeguata al proprio concetto di pensiero assoluto. Ma è così per Aristotele? Rispetto all’entelechia, ricordate la scomposizione che fa Heidegger della parola entelechia? ἒν-τέλος-ἕκειν, l’avere il proprio compimento, cioè, la potenza e l’atto trovano il loro compimento nel momento in cui sono la stessa cosa. Ma questo non ha nulla a che fare con l’Assoluto, perché l’Assoluto è necessariamente l’identico, mentre nell’entelechia non c’è l’identico, ci sono questi due elementi, potenza e atto, che permangono, cioè, l’uno e i molti permangono; l’entelechia, il compimento di questi due elementi, consiste proprio in questo, nel rimanere due di questi due elementi, senza che nessuno dei due possa essere eliminato senza eliminare anche l’altro. Quindi, è un’idea che è lontanissima dall’Assoluto, che invece pone l’entelechia come se unificasse potenza e atto in un tutto; che è esattamente ciò che fa Diels quando traduce ἒν πάντα εἰναι di Eraclito con “Uno è il tutto”; no, dice Heidegger, non è “uno è il tutto” ma “uno è tutte le cose”, è i molti, non l’intero, è il contrario.

Intervento: Ci siamo chiesti altre volte perché Heidegger non ha fatto un passo in più? Alla fine, Heidegger, nonostante avesse corretto Diels, partiva dall’idea che il fine ci fosse…

Questo Heidegger ce lo dice nella sua differenza ontologica, quando separa l’essere dall’ente. Il fine è tornare all’essere, in fondo. Quindi, si passa dall’uno, certo, ma l’uno, l’ente, è sempre provvisorio, caduco, occorre arrivare all’essere. Lì incontra la maledizione perché non può parlare dell’essere se non come ente. Heidegger avrebbe voluto compiere questa entelechia tra l’essere e l’ente a vantaggio dell’essere, quindi, del significato, ma, naturalmente, questo è impossibile perché non c’è un significato senza un significante, non c’è l’uno senza i molti.