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26 febbraio 2020

 

Scienza della logica di G.W.F. Hegel

 

Proseguiamo nella lettura. A pag. 116 c’è una nota di Arturo Moni, il traduttore italiano della Wissenschaft der Logik: La difficoltà di tradurre luoghi come questo era già stata riconosciuta da Stirling. Per di più Hegel si appoggia qui anche su talune locuzioni proprie della lingua tedesca, che solo imperfettamente si possono rendere in un’altra lingua. A portare un po' di luce sia su ciò che precede, sia su ciò che sta per venire possono ad ogni modo giovare le seguenti determinazioni. Essere in sé ed essere per altro sono i momenti del qualcosa, dapprima astratti e tenuti di fronte. Ma ciò che qualcosa è per altro non è già fuori del qualcosa, ma anzi (appunto come un essere per altro) nel qualcosa stesso. Tendenzialmente si cerca di tenere separate le due cose, che è poi la struttura della religione: due figure che si contrappongono. Abbiamo così l’unità dei due momenti antecedenti. Questa unità, l’essere o stare in esso, in lui, cioè nel qualcosa, non è se non lo stesso esser per altro del qualcosa, in quanto ripiegato, cotesto esser per altro, nell’essere in sé, o, che è lo stesso, è l’essere in sé del qualcosa, in quanto però non esclude l’esser per altro, ma anzi lo comprende. È l’esser per altro guardato, come chi dicesse, dal punto di vista dell’altro, l’esser per altro come rispecchiantesi dall’altro nel qualcosa, e, quindi, insieme, l’essere in sé in quanto ritornato dal proprio opposto (l’esser per altro) a sé. È il movimento che abbiamo visto tante volte. Qualcosa è per altro; ora questo appunto, che qualcosa è per altro, per l’altro è nel qualcosa. Quindi l’essere nel qualcosa è ciò che dal qualcosa si aspetta, e anche quello a cui il qualcosa stesso è determinato, o va, un essere in sé non più statico, come il primo, ma dinamico, - la destinazione del qualcosa. La destinazione è il volgersi verso qualcosa. Potremmo anche intendere la destinazione come il rinviare a qualcosa. Tale è la nuova categoria che qui si affaccia. L’oscurità da cui l’esposizione hegeliana in tutto questo luogo (che del resto è realmente uno die più complicati e difficili dell’intera logica) sembra avviluppata, nasce poi in parte anche da ciò che Hegel vi prende l’essere in esso … qualche volta come semplice sinonimo di esser per altro … qualche volta invece come l’unità dell’essere in sé coll’esser per altro (poiché è appunto quel ripiegarsi, ossia riflettersi in sé della determinazione, un divenire che ha per lati cotesti due momenti). Ma fissato il vero concetto, che è quello di questa unità, è facile vedere dove l’espressione si riferisce all’altro significato. Stirling non aveva tutti i torti, nel senso che non è semplicissimo destreggiarsi in queste pagine, però, se le intenderemo per quanto riguarda la struttura e il funzionamento del linguaggio, tutto questo ci renderà le cose molto più semplici. A pag. 117. Si può notare che ci si mostra qui il significato della cosa in sé,… Vi leggo questo non tanto perché ci interessi particolarmente in ambito teoretico, ma perché è l’obiezione precisa che Hegel fa a Kant rispetto alla cosa in sé. Come sapete, per Kant la cosa in sé è irraggiungibile e inconoscibile… la quale è un’astrazione molto semplice, ma per un certo tempo fu una determinazione importantissima, quasi un che di venerabile, a quel modo che la proposizione, non saper noi che cosa siano le cose in sé, era una sentenza di gran valore. Le cose si dicono in sé, in quanto si astrae da ogni esser per altro… Già qui c’è la soluzione di Hegel. …il che in generale significa, in quanto esse vengon pensate senza nessuna determinazione, o come dei nulla. In questo senso non si può certamente sapere che cosa sia la cosa in sé. Poiché la domanda: che cosa? chiede che si assegnino delle determinazioni; ma in quanto le cose, circa le quali si chiede di assegnarle, debbon essere in pari tempo cose in sé, vale a dire appunto senza determinazione, nella domanda vien messa impensatamente l’impossibilità della risposta, o non si dà che una risposta assurda. Se per dire che cos’è la cosa in sé devo richiamare altre cose in sé, è chiaro che non andiamo da nessuna parte. La cosa in sé è lo stesso di quell’assoluto, di cui non si sa se non che in lui tutto è uno. Si sa quindi benissimo (stoccata a Kant), che cosa v’è in queste cose in sé; non sono altro, in quanto tali, che delle astrazioni vuote di verità. Ma quel che la cosa in sé è verità, quel che veramente è in sé, l’esposizione di cotesto consiste nella logica, dove però per in sé s’intende qualcosa di meglio che l’astrazione, quello cioè che qualcosa è nel suo concetto. Ora questo concetto è concretamente comprensibile in sé, come concetto in generale, e come determinato e come nesso delle sue determinazioni è in sé conoscibile. L’essere in sé ha anzitutto per suo momento contrapposto l’esser per altro. Gli si contrappone però anche l‘esser contrapposto. Io lo pongo questo essere in sé. In questa espressione sta certamente anche l’esser per altro, se non che l’espressione contiene determinatamente il già avvenuto ripiegamento di quello che non è in sé, in quello ch’è il suo essere in sé, nel che esso è positivo. Quando io pongo questa cosa, ponendola, già il suo per sé è tornato nell’in sé; quindi, si è già in qualche modo determinato in quanto non essere ciò che non è. Il principio (ragion d’essere) pone quello che per esso è principiato. Più ancora, la causa produce un effetto, un esserci, di cui è immediatamente negato il sussister per sé, e che ha in sé il senso di aver la sua sostanza, il suo essere, in un altro. Dice un esserci, di cui è immediatamente negato il sussister per sé, perché sussiste per un altro. Non c’è una parola che sussista per sé, ciascuna parola sussiste sempre per un’altra parola. Nella sfera dell’essere l’esser determinato sorge, soltanto, dal divenire: col qualcosa è posto un altro, col finito l’infinito, ma il finito non produce l’infinito, non lo pone. Per il momento; poi, vedremo che la cosa è un po' più complessa. Anche il determinarsi, di per sé, del concetto nella sfera dell’essere è soltanto in sé… Il concetto, un’idea, un pensiero, si determina come qualcosa in sé. …e si chiama così un passare. Così anche le determinazioni riflessive dell’essere, come qualcosa ed altro, oppure il finito e l’infinito, benché accennino essenzialmente l’una all’altra, cioè siano come esser per altro, valgono però come qualitative e sussistenti per sé; l’altro è, il finito ha anch’esso il valore di ciò che è immediatamente, che stia fermo per sé, come l’infinito; il significato di coteste determinazioni sembra compiuto anche senza il loro altro. Qui sta incominciando a porre la questione del finito e dell’infinito, di cui parlerà tra qualche pagina. A Hegel interessa mostrare che il finito di per sé non c’è senza l’infinito, da cui trae la propria essenza, per cui il finito si trasforma in infinito. Per noi, invece, ha un interesse maggiore nel senso che ci mostra come il finito, l’immanente, il qualcosa, il significante, di per sé non sia nulla finché non si aggancia al significato, cioè all’infinito, e da questo, tornando indietro, trasforma il significante in infinito. Vale a dire, non più il significante come qualcosa di chiuso, di determinato, come appare, e cioè l’immanente che è quello che è; ma il significante diventa significato soltanto nel momento in cui il significato ritorna sul significante, cioè, l’infinito torna sul finito trasformando il finito, cioè il significante, in infinito. Questo è ciò che interessa a noi. A pag. 119. b) Destinazione, costituzione e limite. La destinazione è il rinviare a qualche cosa; la costituzione è ciò di cui qualcosa è fatto; il limite è ciò che determina il finito, se è finito è perché ha un limite. A pag. 120. La destinazione dell’uomo… L’essere destinato; semioticamente, potremmo dire il suo rinvio. …è la ragione pensante: il pensare in generale è la sua semplice determinatezza, per cui l’uomo si distingue dall’animale; l’uomo è pensiero in sé, in quanto cotesto è distinto anche dal suo esser per altro, dalla sua propria naturalezza e sensibilità, per cui egli è immediatamente connesso con altro. L’uomo è tale perché è connesso con altro. Potremmo dire con Peirce che l’uomo non è che un rinviare, un essere continuamente rinviato, lui stesso è questo rinvio, non è altro. Il che è come dire che è fatto di linguaggio, in definitiva. Ma il pensiero sta anche in lui; l’uomo stesso è pensiero, è come pensante;… Non è in un altro modo. E in quanto pensante, ci ha appena detto, è essere per altro, cioè sempre preso in un rinvio. …il pensiero è la sua esistenza e realtà; ed inoltre in quanto è nel suo esserci, e il suo esserci è nel pensiero, è concreto, è da prendersi con contenuto e riempimento, è ragione pensante, e così è destinazione dell’uomo. Ma questa destinazione stessa è a sua volta soltanto in sé come un dover essere,… Qui c’è una questione importante. …vale a dire che, col riempimento,… Cioè: con l’acquisizione di significato. …che è incorporato nel suo in sé, nella forma dell’in sé in generale, contro l’esserci non incorporato in lei, esserci che in pari tempo è ancora come sensibilità e natura esteriormente contrapposta e immediata. Questa natura contrapposta e immediata deve essere integrata. Ci sta dicendo niente altro che nel linguaggio ciascun significante deve essere in relazione con un altro, deve essere altro, deve essere un rinvio. Anche Heidegger ha ripreso questo concetto: l’essere gettato, l’uomo è un progetto continuamente gettato e, quindi, è continuamente destinato ad altro. Altra nota del Moni: Importa fissar bene il concetto della destinazione. L’essere in sé, in sulle prime (cioè in quanto semplicemente tale) era essenzialmente indeterminato, poiché ogni determinazione stava in quell’esser per altro, di cui esso era la negazione. L’essere in sé dapprima è indeterminato, nel senso che ogni determinazione sta in quell’altro che deve diventare. Il cominciamento, l’inizio, il primo, che sappiamo essere nulla in sé perché non ha ancora nessuna determinazione, è niente fino a quando non riceve dal suo opposto, dal suo contrario, il suo significato, cioè: è ciò che è in quanto non è ciò che non è. Ma posto ora come quello che faceva cotesta sua essenziale indeterminatezza, posto cioè appunto come negazione dell’esser per altro, lo stesso essere in sé, cui in tal caso spetta meglio la denominazione di essere in lui, è un ritorno a sé dall’esser per altro. Di nuovo lo stesso movimento. E così esso non è più indeterminato; anzi è determinato, avendo portata seco la determinazione inerente al suo opposto. Cioè: si porta appresso il fatto che è quello che è in quanto non è ciò che non è. Ciò nondimeno la determinazione, di cui l’essere in sé si trova così arricchito,… Si è arricchito perché appunto non è più solo A, è non non-A, ci sono delle cose in più. …non è la determinazione quale stava nell’esser per altro. Infatti, non è ciò che stava nell’esser per altro, perché è tornata all’in sé, e, quindi, ha fatto quel giro in più tale per cui, tornando sull’in sé ma passando attraverso l’essere per altro; così come il significante, che passa attraverso il significato e torna al significante: quando torna al significante, ovviamente non è più il significato, è un significante. Nell’esser per altro la determinazione stava appunto come determinazione, era un certo essere particolare. In quanto invece l’esser per altro è ora negato nell’essere in sé, anche la determinazione vi è negata. Quando viene tolto l’essere per altro non c’è neanche l’in sé; non è che si porta appresso continuamente il fatto di non essere ciò che non è, ma questo gli è servito per stabilire l’in sé, cioè la certezza di essere sé, viene integrato nell’essere in sé. Se rimanesse quello che è, ecco che allora ci sarebbero sempre gli opposti, mentre per Hegel questi non ci sono più, ma si trasformano nell’intero. Vale a dire che nell’essere in sé come ritorno a sé dall’essere per altro la determinazione è ricondotta all’indeterminatezza. Viene ricondotta a ciò che era indeterminato. Guardando la cosa dal lato opposto, potremmo dire che anche la indeterminatezza dell’essere in sé è qui non più come semplice indeterminatezza, cioè come l‘indeterminatezza del primitivo essere in sé (il cominciamento), ma anzi come una indeterminatezza che è sul punto di schiudersi alla determinazione, o in cui la determinazione è virtualmente. Questo indeterminato, il cominciamento, incomincia a non essere più indeterminato, ma si determina. È chiaro che si determinerà nel momento in cui ci sarà l’integrazione, l’Aufhebung. I tutti i due modi abbiamo insomma che ‘unità dei due momenti, essere in sé ed esser per altro, riveste qui la forma generale dell’essere in sé, appunto perché nasce essenzialmente dalla negazione dell’esser per altro, e conserva quindi questa negazione come base. Essere in sé e esser per altro: nego l’esser per altro, nego cioè ciò che questa cosa non è, quindi, ho la certezza che è quella cosa lì; però, rimane la base, cioè rimane ciò che ha consentito di essere quello che è. Ora l’essere in sé così determinato… A questo punto si è determinato. …che la determinazione sua non sia essa stessa se non un essere in sé (una semplice virtualità), è la destinazione,… la destinazione come un rinvio che consente al significante di rinviare al significato e da lì tornare al significante in quanto determinato. Dapprima il significante è indeterminato, è niente; poi, attraverso il significato torna al significante e lo determina. Se io non so cosa vuole dire la parola “pane” e dico “pane”, questo è un significante che non dice niente finché non raggiunge il significato; raggiunto il significato allora torna al significante e solo a questo punto questo significante significa qualcosa. La destinazione è virtualità … se non che non è la virtualità in genere … ma una certa virtualità; nondimeno poiché questa certa virtualità, questa virtualità determinata, è ancora virtualità, la destinazione stessa è ancora un che d’indeterminato. Così il diamante essendo duro, la sua destinazione è di servire a quegli usi per i quali occorre qualcosa di duro; ma intanto il diamante come diamante non è ancora adoprato a nessuno di cotesti usi; è in lui la sua particolare destinazione, ma questa destinazione stessa non è ancora che una semplice destinazione, epperò, pur essendo una determinazione, appunto come determinazione rimane affatto indeterminata. Solo quando il diamante servirà effettivamente, per es. a incidere questo vetro, la sua destinazione riceverà una determinazione, ossia si troverà adempiuta. La destinazione o il vero essere in sé – dice Weisseborn – è l’essere in sé comprendente in sé dinamicamente la determinazione, e manifestantesi e realizzantesi come questa epperò come essere per un altro. La questione che qui interessa è il fatto che qualche cosa è quello che è in quanto è per un altro, cioè, come direbbe Heidegger, in quanto è un utilizzabile: è soltanto in quanto è utilizzabile è quello che è, cioè, diventa quello che è in quanto riceve la sua destinazione. Esattamente come una parola: una parola è tale solo in quanto è utilizzabile; se non fosse utilizzabile sarebbe fuori dal linguaggio e, quindi, non sarebbe niente. La destinazione della parola è di essere qualche cosa per un’altra parola. A pag. 122 c’è un’altra nota che ci avvicina alla questione del finito e dell’infinito. Il campo del qualitativo… La qualità è il determinato, è il finito. …è il campo dell’essere, dell’esistenza, della realtà, come fuori del pensiero. Le differenze, o se si vuole, i differenti sono ora l’essere in sé e l’essere per altro. Come tolti, cioè fusi in uno, essi danno l’essere in lui o la destinazione. È chiaro che la destinazione di ciascun elemento è quello di essere per altro. E così la destinazione vale come essere in sé, mentre l’esser per altro è rappresentato dalla nuova categoria di cui qui si tratta. Questa, la costituzione (aptitudo, indoles sive natura, come traduce Rosenkranz il termine tedesco Beschaffenheit)… Quindi, questa nuova categoria sarebbe l’attitudine a qualche cosa, l’indole verso qualcosa, l’indole secondo natura. …è quindi un rapporto affatto estrinseco… Quindi, sembrerebbe al di fuori di questo movimento. …l’esser per altro in quanto cade fuori di quell’altro esser per altro che è già compreso nella destinazione. Andiamo a pag. 123. Ma lo stare in qualcosa si mostrò anzi come quello che si spezzava in quei due estremi. L’essere per sé e l’esser per altro. Il semplice medio è la determinatezza come tale; alla sua identità appartiene tanto la destinazione quanto la costituzione. La costituzione è il che cos’è quella cosa lì, il diamante in quanto tale; in quanto tale, però, in quanto ha già una destinazione. Abbiamo visto che la costituzione è già un’attitudine, un’indole secondo natura, che, quindi, allude già a una destinazione, al fatto che qualche cosa è quello che è in quanto è utilizzabile per qualche cos’altro. Ma la destinazione trapassa per se stessa in costituzione e questa in quella. È quello che vi ho appena detto: ciascuna cosa trapassa nell’altra; sono due aspetti della stessa cosa. Il nesso è più specificatamente il seguente: in quanto quello che qualcosa è in sé, sta anche in lui, è affetto dall’esser per altro; quindi la destinazione è, come tale, aperta al rapporto ad altro. Anzi, potremmo dire che la destinazione, più che aperta al rapporto ad altro, è questo essere per altro. La determinazione è insieme momento, ma contiene insieme la differenza qualitativa, diversa dall’essere in sé, di essere il negativo del qualcosa, vale a dire un altro esserci. Badate bene, qui Hegel fa sempre queste distinzioni, come se mettesse sull’avviso dicendo, sì, queste cose ci appaiono come figure opposte fra loro, ma in realtà sono momenti di un intero, sono momenti di un processo. La determinatezza comprendente così in sé l’altro, unità coll’essere in sé, porta l’esser altro nell’essere in sé o nella destinazione, la quale si trova con ciò rabbassata a costituzione. … Il passare della destinazione e della costituzione una nell’altra è dapprima il togliere della loro differenza. Con ciò è posto in generale l’esser determinato o il qualcosa, e, in quanto esso risulta da quella differenza, comprendente in sé anche il qualitativo esser altro, son due qualcosa, non però soltanto altri in generale l’uno per l’altro, cosicché questa negazione sia ancora astratta e cada unicamente nel confronto, ma la negazione è ormai come immanente ai qualcosa. Di nuovo, come vi dicevo prima. Sta dicendo: badate, non si tratta più di due cose contrapposte; queste differenze vengono integrate. Come esserci che sono i qualcosa sono indifferenti l’uno verso l’altro, ma questa loro affermazione non è più immediata. È, invece, mediata dalla loro relazione. Ciascuno di essi si riferisce a se stesso mediante il togliersi dell’esser altro, che nella destinazione è riflesso nell’essere in sé. Questa è sempre la destinazione: riflettersi nell’essere in sé. Il qualcosa si riferisce così di per se stesso all’altro, perché l’esser altro è posto in lui come suo proprio momento; il suo esser dentro di sé comprende in sé la negazione mediante la quale esso ha ora in generale il suo affermativo esserci. Siamo sempre all’esempio di prima: quando il significato torna sul significante allora il significante ha il suo vero esserci, cioè è quello che è autenticamente, è qualcosa che significa. La negazione del suo altro è soltanto la qualità del qualcosa, poiché è appunto qualcosa in quanto è questo togliere il suo altro. Questa, dice, è semplicemente la qualità. Che cos’è la qualità di qualche cosa? È il fatto di non essere altro. Questa è la definizione di qualità più radicale. Cos’è il quale, il qualis? Il fatto di non essere altro da sé. Il problema è che, invece, è altro da sé, come vedremo fra poco. Solo con ciò si contrappone propriamente l’altro a un esser determinato. Solo con questo, dice, si contrappone l’altro a un essere determinato. Qui vedete già che c’è qualcosa che per Hegel non va; per Hegel questa contrapposizione deve essere risolta, perché finché rimane questa contrapposizione rimane il discorso religioso. Al primo qualcosa l’altro non sta contrapposto che in guisa estrinseca… Cioè: come se fosse al di fuori. …vale a dire che mentre nel fatto essi sono assolutamente (cioè secondo il loro concetto) connessi, la lor connessione è questa, che l’esser determinato è trapassato nell’esser altro, il qualcosa nell’altro, il qualcosa, non meno dell’altro, è un altro. Questa è la risoluzione della contrapposizione: il qualcosa, che è l’altro, si trasferisce nel qualcosa che, sì, certo, è qualcosa, rimane qualcosa, ma in quanto è altro. In quanto ora l’esser dentro di sé è il non essere dell’esser altro… Una volta che è dentro di sé non è più essere altro. …che è contenuto in esso, ma insieme in quanto essente, ne è anche distinto, il qualcosa stesso è la negazione, il cessare di un altro in lui;… Se viene integrato questa negazione cessa il lui. Questo ci servirà per intendere bene la questione del finito. …esso è posto come tale che si conduce negativamente verso di quello, e così appunto si conserva. Questo altro, l’esser dentro di sé del qualcosa come negazione della negazione è il suo essere in sé, e nello stesso tempo questo togliere è come semplice negazione in lui, cioè come sua negazione dell’altro qualcosa a lui esterno. È un’unica determinatezza loro, che è insieme identica coll’esser dentro di sé dei qualcosa, come negazione della negazione, ed anche, in quanto queste negazioni stan l’una contro l’altra come altri qualcosa, stringe questi assieme da loro stessi, e parimenti, ciascuno di essi negando l’altro, li separa l’uno dall’altro, - il limite. Qualcosa che sta dentro di sé, sta dentro il qualcosa come negazione della negazione, cioè, il qualcosa ha la sua negazione, il nulla, la negazione della negazione significa, quindi, togliere il nulla, e tornare nel qualcosa che a questo punto è un qualche cosa che ha tolto da sé il nulla, lo ha negato; solo a questa condizione il qualcosa è qualcosa. Dice: in quanto queste negazioni stan l’una contro l’altra come altri qualcosa, stringe questi assieme da loro stessi, e parimenti, ciascuno di essi negando l’altro, li separa l’uno dall’altro. Questo negare la negazione (la seconda negazione), dice Hegel, è vero che integra, fa “sparire” l’altro, ma fornisce al qualcosa il suo limite, cioè, quel qualcosa oltre il quale non può andare. Negando al qualcosa di non essere ciò che non è, è vero che lo determino in quanto qualcosa, ma determinandolo gli do un limite. Come vi dicevo, questo ci servirà per la questione del finito. A pag. 128, c) La finità. L’esserci è determinato. Se pensiamo a Heidegger, l’esserci è l’uomo e, quindi, è determinato. Il qualcosa ha una qualità, e in questa qualità non è soltanto determinato, ma ha un limite. Se ha una qualità, questa qualità indica che è determinato dal non essere un’altra cosa. La sua qualità è il suo limite, come affetto dal quale esso riman dapprima un esserci affermativo, quieto. Ma questa negazione sviluppata,… Nega cioè di essere altro. …per modo che l’opposizione dell’esserci e della negazione come limite immanente al qualcosa sia essa stessa, questa opposizione, l’esser dentro di sé del qualcosa, e questo non sia perciò in se stesso altro che un divenire, - questo fa la finità del qualcosa. Diciamola così, per renderla più semplice. E pensiamo al linguaggio, in effetti, la questione è abbastanza semplice. Sta dicendo che l’opposizione, ciò che viene negato nel qualcosa, rimane nel qualcosa, non è cancellato; rimanendo nel qualcosa comporta che questo qualcosa rimane delimitato dal negare di non essere quel qualcosa; e questa è la sua finità. quando delle cose diciamo che sono finite, con ciò s’intende che non solo hanno una determinatezza, che non solo hanno la qualità come realtà e determinazione che è in sé, non solo son limitate, così da avere poi un esserci fuor del loro limite, - ma che anzi la loro natura, il loro essere, è costituito dal non essere. Questa è la questione centrale perché intorno a questo si svolgerà tutto il prosieguo, e cioè che se qualcosa è finito allora non è. Esse sono, ma la verità di questo essere è la loro fine. Il finito non solo si muta, come il qualcosa in generale, ma perisce; e non è già soltanto possibile che perisca, quasi che potesse essere senza perire, ma l’essere delle cose finite, come tale, sta nell’avere per loro esser dentro di sé il germe del perire: l’ora della loro nascita è l’ora della lor morte. A pag. 129. Ma che il finito sia assoluto è una posizione di cui nessuna filosofia o opinione e nemmeno l’intelletto si lascerà certo incolpare. Il contrario si trova anzi espressamente nell’affermazione del finito: il finito è il limitato, il perituro; il finito è soltanto il finito, non l’imperituro. Ciò sta immediatamente nella sua determinazione ed espressione. Se non che tutto sta a vedere se in questo modo ci si ferma all’essere della finitezza, se la caducità, cioè, persiste, oppure se la caducità e il perire perisce. Qui c’è un’anticipazione di ciò che dirà alla fine, come fa sempre Hegel. Se il finito perisce vuol dire che termina, non c’è più, scompare; ma non può scomparire perché comunque c’è. Ma se perisce il perire, è come la seconda negazione, nega il perire in quanto lo integra. Ora che questo non avvenga, ciò si ha di fatto appunto in quella veduta del finito, la quale suppone che il finito abbia il perire per suo ultimo. Cioè: che le cose finiscano, vadano nel nulla. È affermazione espressa che il finito sia incompatibile e incongiungibile coll’infinito, che il finito sia assolutamente opposto all’infinito. All’infinito si attribuisce l’essere, l’assoluto essere. Di contro all’infinito si continua così a tener fermo il finito, come suo negativo. Posto come tale che non si possa unire coll’infinito, il finito rimane assoluto da parte sua. Esso otterrebbe l’affermazione dell’affermativo, cioè dall’infinito e così perirebbe;… Ci sarebbe soltanto l’infinito e il finito scomparirebbe. …ma un suo congiungimento coll’infinito è appunto quello che vien dichiarato impossibile. Non può essere simultaneamente finito e infinito. Se il finito non deve persistere di fronte all’infinito, ma perire, allora, come già fu detto, l’ultimo è appunto il suo perire, e non l’affermativo, che sarebbe solo il perire del perire. L’affermativo significa porre il finito come qualcosa che è, anche nell’infinito. Ché se il finito non dovesse perire nell’affermativo, ma si dovesse intendere la sua fine come il nulla, allora saremmo daccapo a quel primo, astratto nulla, che è esso stesso già perito da un pezzo. Se dobbiamo pensare il finito come il nulla allora siamo daccapo, perché il finito a questo punto è il nulla di cui non ci occupiamo. Ciò nondimeno in questo nulla, che ha da essere soltanto nulla… Sta facendo sempre una critica a questo concetto di nulla. …e a cui viene in pari tempo concessa una esistenza, si affaccia la stessa contraddizione che fu mostrata nel finito, se non che là non faceva che affacciarsi, nella finità invece è espressa. Se l’infinito è l’assoluto, è chiaro che il suo contrario, il finito, è nulla. β) Il termine e il dover essere. Dover essere possiamo intenderlo qui come destinazione. Certo questa contraddizione si trova astrattamente subito in ciò che il qualcosa è finito, ossia in ciò che il finito è. Se io pongo il finito e lo pongo in quei termini c’è immediatamente una contraddizione, perché se dico che il finito è allora non è più il contrario dell’infinito. Ma il qualcosa o l’essere, non è più posto astrattamente, ma è riflesso in sé, e sviluppato come un esser dentro di sé, il quale ha in lui una destinazione e una costituzione, e, più determinatamente ancora, di modo ch’esso ha in lui un limite che, come immanente al qualcosa e costituente la qualità del suo esser dentro di sé, è la finità. in questo concetto del qualcosa finito è da vedere quali momenti si contengano. Se il finito è, è qualcosa, allora questo finito ha in lui una destinazione e una costituzione, cioè, anche lui, questo finito, ha un limite, perché ha una costituzione, cioè ciò di cui è fatto è qualcosa, e una destinazione, cioè è rivolto ad altro. Questo limite, dice, è costituente la qualità del suo esser dentro di sé, e questa sarebbe la finità. A pag. 131. Ma in quanto l’esser altro è inoltre determinato come limite, determinato esso stesso come negazione della negazione, l’esser altro immanente al qualcosa è posto come relazione dei due lati, e l’unità con sé del qualcosa … è la relazione sua volta verso se stesso, la relazione, verso il limite, della destinazione sua che è in sé e che nega nel qualcosa cotesto suo limite immanente. Se io tolgo il limite al qualcosa, questo qualcosa non è più limitato, non è più finito; quindi, devo mantenere questo limite, lo devo mantenere come qualcosa che è costituente del qualcosa stesso; soltanto che questo qualcosa, di cui parliamo, è il finito, ma se tolgo il limite diventa illimitato. L’esser dentro di sé con sé identico si riferisce così a se stesso come il suo proprio non essere, ma come negazione della negazione, come negante quello stesso, che conserva in pari tempo il lui l’esserci,… Il limite è ciò che consente a questo qualcosa di essere. Se io lo tolgo, come negazione della negazione, tolgo anche ciò che gli consente di essere quello che è. Tutte queste disquisizioni che fa Hegel le fa per incominciare a porre un problema rispetto al finito, per giungere poi a dire che il finito in quanto tale è quello che è perché c’è un infinito che gli si oppone ma che viene integrato. Possiamo porre il finito, forse in modo più appropriato, come il primo, come il cominciamento. È chiaro che questo finito di per sé è niente, e questo suo limite non è altro che la connessione con l’essere altro; ma l’essere altro del finito è l’infinito. Quindi, ha già in sé necessariamente - essendo limitato ed essendo questo limite qualche cosa che lo connette con altro, con ciò che non è, perché se è altro da sé non è sé – allora questo limite è ciò che propriamente apre, è l’apertura verso l’altro, è ciò che consente a questo primo di essere primo, perché, essendo connesso con ciò che questo non è… Torniamo al significante e significato: possiamo porre la famosa barra di de Saussure come il limite, limite che tiene, sì, distinti il significante e il significato, ma li pone come non separabili; la barra è il limite che è connesso con entrambi – diciamo che lavora su entrambi i fronti.

Intervento: Connessione tra finito-infinito e significante-significato…

Hegel pone già l’infinito come essere assoluto. E che cos’è l’essere per Heidegger se non quel qualcosa che dà all’ente, cioè al significante, la sua enticità? L’essere, la radura, la Lichtung, l’illuminazione, il raggio di sole che illumina nella radura e mostra qualche cosa, che è come dire che senza il linguaggio non appare niente. Per cui, sì, il significante ha il suo limite nel significato perché lì cessa di essere significante, ma cessando di essere significante diventa anche ciò che lo fa essere significante. Senza questo limite il significante, senza questo tornare dal significato al significante, il significante sarebbe niente, sarebbe appunto il nulla, sarebbe il finito che perisce.

Intervento: Anche il significato non sarebbe utilizzabile…

Certo, perché il significato ha l’unica funzione di tornare al significante. È chiaro che senza il significante il significato non c’è: se non dico niente, che significato c’è?