Questa sera parliamo di una figura retorica: il controesempio, che sembra una banalità, ma non lo è. Abbiamo già accennato varie volte che il controesempio è uno dei modi, per esempio, per confutare una tesi avversaria: una persona afferma una certa cosa e vi fa un esempio a conferma della sua tesi, il controesempio non è altro che un altro racconto che muove dalle stesse premesse e che, utilizzando le stesse premesse, giunge a una conclusione contraria. I proverbi sono emblematici a questo riguardo, vi sono alcuni proverbi che possono funzionare come esempio rispetto ad una certa cosa e altri proverbi che funzionano come controesempio rispetto a una stessa cosa. Per esempio: “Tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino”, controesempio: “Chi non risica non rosica”. Ma, aldilà di queste amenità, il controesempio ha una funzione particolare in quanto è ciò che consente molto rapidamente di mostrare che ciò che si va sostenendo non è necessario, perché se ciò che si va sostenendo è corroborato, confortato e supportato da un esempio, come molto spesso accade, la possibilità di costruire un controesempio la demolisce, cioè la rende non più sostenibile. In effetti, è uno dei metodi retorici più efficaci per annullare completamente un’argomentazione contraria. Come andiamo dicendo spesso qui, l’aspetto più interessante di queste operazioni è considerare tutto questo per quanto riguarda il proprio discorso. Quando ciascuno giunge ad una conclusione nel suo discorso che ritiene vera, incrollabile, necessaria, il discorso che fa per sostenere la sua tesi può essere posto come una sorta di esempio, cioè “faccio bene a fare così perché anche gli altri hanno fatto questo”. Potrebbe dirsi, “ perché per esempio tutti quanti fanno la stessa cosa” e si fa un esempio. L’esempio ha questa funzione: dimostrare che la situazione particolare è ascrivibile ad una serie di situazioni molto più generali, cioè rientra nell’ambito di una serie di situazioni generali e quindi, rientrando in questa serie di situazioni generali, ne condivide per esempio le giustificazioni o comunque le prerogative. Ed è l’esempio uno dei modi più forti per confortare una tesi, anche in un discorso fra sé e sé, detto anche soliloquio, perché muovendo da una situazione particolare ed avvalorandola con un’altra generale funziona come se trovassi in questo generale qualcosa di necessario. E in molti casi, in effetti, per esempio in ambito etico, avviene questo: “se tutti fanno così, allora è necessario fare così”, cioè, detto altrimenti, “è bene fare così se tutti fanno così, se solo io faccio il contrario allora è male”. Da Aristotele in poi è invalsa l’abitudine di considerare che è giusto, vero, caro agli dei, ciò che i più condividono, ciò che i più credono vero, vale a dire, il luogo comune. Ma l’esempio ha anche un’altra portata, come sapete “essere di esempio a qualcuno”; qui l’esempio mostra qual è la retta via, è in definitiva un indicatore, un indicatore generalmente di ciò che è bene e ciò che è male, di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato. Per questo ha una portata non indifferente nel discorso occidentale ed è utilizzato ininterrottamente in qualunque discorso, in qualunque conversazione. Laddove si ritiene che il proprio discorso non abbia la forza necessaria per persuadere o convincere l’interlocutore, cosa che avviene spessissimo, si ricorre immediatamente all’esempio e l’esempio è immediatamente persuasivo perché andare contro l’esempio, se l’esempio è calzante, quindi ben fatto, significa andare contro la vox populi: “vox populi, vox dei”. L’esempio indica la generalizzazione delle cose: ciò che occorre fare per lo più, ciò che i più fanno, ciò che in definitiva occorre fare. Ed è sempre interessante, laddove accade di fare un esempio, per prima cosa interrogarlo, come seconda costruire immediatamente un controesempio, cioè un altro discorso che nega il primo. Non è difficile ed è interessante perché dimostra molto rapidamente come quell’elemento che serve a consolidare, a rafforzare, in alcuni casi a definire un certo discorso, possa essere ribaltato molto facilmente e molto rapidamente. Il controesempio applicato al proprio discorso è propriamente ciò che tempo fa si indicava come quell’esercizio di confutare se stessi, uno dei modi forti per confutare le proprie argomentazioni è il controesempio. Cioè, torno a ripetere, la costruzione di una proposizione che si mostra essere altrettanto credibile, altrettanto sostenibile e legittima dell’esempio. Ed è il fatto di essere altrettanto credibile, altrettanto legittima che rende il controesempio così forte e così efficace, al punto che gli oratori lo usano come un’arma; perché una volta fatto un controesempio l’esempio, che veniva fatto precedentemente a scopo di rafforzare il discorso e rendere l’affermazione necessaria, si dissolve immediatamente, si vanifica nel nulla. Se voi prendete un qualunque saggio, di qualunque argomento tratti, troverete moltissimi esempi e proposizioni che magari non sono esplicitamente esposte con esempi ma che funzionano come esempi. Potrete trovare una generalizzazione per esempio: se io affermo che muovo una teoria dall’esperienza, se cioè attribuisco all’esperienza un carattere di necessità per cui costruisco la mia teoria sull’esperienza, allora l’utilizzo in questo caso dell’esperienza funziona come esempio e sicuramente troverete direttamente o indirettamente un esempio in cui si afferma che l’esperienza non può essere negata perché, per esempio, ciascun umano ne fa ricorso in qualunque momento della sua esistenza, ne fa ricorso anche per l’acquisizione di nuovi elementi ecc., ecc. Ecco, lì è possibile costruire un controesempio che nega questa affermazione e la nega in un modo che logicamente non avrebbe nessun senso né alcuna portata. Il controesempio non è né più vero né meno vero dell’esempio che nego naturalmente, il controesempio non significa assolutamente niente, esattamente come l’esempio. Ma retoricamente, la potenza del controesempio è tale perché impedisce all’interlocutore di proseguire e cioè di potere utilizzare quell’esempio che avvalorava il suo discorso e dal suo discorso avrebbe dovuto trarre tutta la forza che lui voleva che avesse; se noi gliela togliamo di sotto rimane un’affermazione assolutamente arbitraria. La retorica, come sapete, è stata studiata e riflettuta allo scopo di utilizzare un discorso contro altri discorsi, non è questo che ci interessa fare se non appunto laddove questo andare contro un discorso è andare contro il proprio discorso, contro le proprie affermazioni, le proprie credenze, superstizioni. Mettersi il bastone tra le ruote in un certo senso è una cosa che pochi hanno voglia di fare perché è una cosa seccante, seccante il rilevare da sé di non avere ragione, seccante perché comporta il dovere riconsiderare la questione. L’esempio ha fra le altre funzioni che abbiamo indicate anche questa, cioè quella di chiudere il discorso. Indicando una generalizzazione assoluta a cui fa riferimento è come se uno dicesse “perché devo fare così?” e l’altro rispondesse “perché lo fanno tutti” o “perché sì”. L’esempio ha questa funzione, è “un perché sì” un po’ più articolato, un po’ più soddisfacente, generalmente il perché sì non soddisfa, l’esempio sì, ha la stessa funzione. Dunque, l’esempio serve a chiudere il discorso, a renderlo vero in modo tale da evitare di tornarci sopra, evitare quindi di doverlo riconsiderare e evitare di lasciare la questione aperta e cioè lasciare un interrogativo aperto: l’esempio toglie la domanda. La domanda sospesa ha una funzione inquietante, perché una cosa che rimane in sospeso continua a domandare. Si tratta di considerare il perché ad esempio un qualcosa che continua a domandare non consente di stare tranquilli: perché una domanda esige una risposta? Questa è una bella questione, al punto che è invalsa l’abitudine che se uno rivolge a qualcun altro una domanda, è come se l’altro fosse obbligato a rispondere, non può non rispondere, anzi da taluni è considerato segno di maleducazione. Ma mentre può avvalersi della facoltà di non rispondere di fronte ad un tribunale, sembra che non possa avvalersene in una conversazione pubblica, salvo essere preso per un maleducato. Come se appunto una domanda esigesse una risposta. Ma perché avviene un fenomeno del genere, perché una domanda esige una risposta? Se voi pensate ad una qualunque cosa che vi interroghi, immediatamente vi rendete conto che questa interrogazione vi inquieta, in qualunque modo sia, può inquietare in modo divertente, piacevole, fino ad arrivare al drammatico. Ma è come se voi stessi avvertiste che questa domanda esige una risposta, non la attende, ma la esige, tant’è che gli umani da sempre si sono dati un gran da fare per togliere tutte le risposte rimaste non soddisfacenti e sostituirle con qualcosa di chiuso, di definitivo, senza riuscire naturalmente. Vi è sempre stato però l’intento: Dio ha costituito e costituisce a tutt’oggi una di queste risposte, messe lì perché non ci sia più nulla a domandare (anche se poi si innescano un’infinità di altre questioni ovviamente). Ma che cos’è una domanda? Proviamo a riflettere in modo più radicale rispetto a questo, tenendo conto anche delle cose che abbiamo dette da qualche anno a questa parte. Cosa non possiamo dire di una domanda? Intanto ovviamente è un atto linguistico, ma è un atto linguistico particolare, tant’è che lo distinguiamo, per esempio, dalla risposta. Che cos’ha dunque di particolare una domanda, visto che esige un altro atto linguistico; alcuni atti linguistici sembra che non lo esigano necessariamente un altro atto linguistico: la domanda sì, lo esige. Ma che lo esiga lo abbiamo preso per scontato? Lo abbiamo preso per scontato muovendo dal luogo comune, come sempre facciamo, e cioè che di fronte ad una domanda si pretende una risposta. Finora sappiamo che generalmente avviene così, però possiamo riflettere meglio sulla particolarità di questo atto linguistico che chiamiamo domanda o domandare. Che cosa avviene esattamente in una domanda? Ci si attende qualcosa, “potremmo dire di una domanda che non si attende nulla?” Questa è la questione che vogliamo risolvere; una domanda retorica non si attende una risposta, ma non la attende perché la da già come implicita, come già scontata. Può una domanda esistere senza una risposta o senza la possibilità di una risposta? incominciamo a porci una serie di questioni intanto: che cos’è una domanda della quale non esiste risposta possibile? è possibile a questo punto una domanda ? Ora, naturalmente nel modo in cui ci stiamo ponendo la questione è un modo così, legato al luogo comune; da qui comunque partiamo per intendere un aspetto retorico che può tornarci utile. Ma torniamo alla questione di prima, che cosa non possiamo non dire della domanda, attenendoci al luogo comune ovviamente? Che è l’attesa di qualcosa, necessariamente. Potremmo dire che una domanda che non attende nulla cessa di essere tale cessa di essere una domanda. Wittgenstein si chiederebbe qual è l’uso di questo significante domanda: l’attendersi qualcosa da qualcuno, da qualcosa. Direi che questo possiamo dire: che è l’attendere qualche cosa. Per il momento non andiamo oltre: ci siamo domandati “potrebbe non essere questo?” No, se non lo fosse la domanda cesserebbe di esistere. Ma perché? Perché è nell’uso stesso del significante domanda essere l’attesa di qualche cosa. In questo caso porremmo definire l’uso di un termine in questo modo: ciò che quel termine è necessariamente o meglio il senso che necessariamente un termine ha se deve continuare ad essere se stesso cioè, in altri termini, per potere continuare ad usarlo. Ma c’è l’eventualità che questa attesa instaurata dalla domanda sia tale per una questione grammaticale, linguistica. Potremmo dire questo, che se faccio intervenire un elemento che viene utilizzato in quanto domanda, allora proprio in quanto domanda, grammaticalmente, per il suo uso, richiede una risposta. Non è che la domanda lo richieda per volontà divina, ma perché questo è il suo uso. Ora, occorre anche aggiungere, tuttavia, che il cosiddetto luogo comune compie un’operazione in più rispetto a quanto andiamo dicendo, e cioè: attribuisce alla domanda che abbiamo indicato come atto linguistico con una particolarità grammaticale, attribuisce una sorta di esistenza naturale come se le cose domandassero, come se la domanda fosse insita nelle cose; le cose interrogano e sta all’uomo rispondere, trovare il modo di rispondere, la natura interroga, le cose che ci circondano interrogano. Né la natura né le cose che ci circondano interrogano alcunché né nessuno; la domanda non esiste ovviamente fuori dal linguaggio, fuori dall’uso che il linguaggio ne determina. Ma considerare la questione in questi termini impone una sorta di ribaltamento: non sono le cose che interrogano, ma sono io che ponendo una questione come interrogazione, mi aspetto una risposta, proprio perché me la pongo come una interrogazione, altrimenti non mi aspetterei nessuna risposta. Quindi, la risposta che incontro è grammaticalmente determinata dalla domanda; a questo molti già sono arrivati e cioè che è il modo in cui pongo la domanda che determinerà il modo della risposta. Addirittura Heisenberg ha riscontrato una cosa del genere in termini abbastanza precisi, individuando come il ricercatore influenzi il ricercato, rispetto alle particelle nucleari, cioè come il modo del ricercatore determini, ma sicuramente influenzi ciò che trova. Potremmo aggiungere e forse rincarando la dose, che ciò che trova lo produce; lo produce la domanda, sempre fermo tenendo che la domanda è un atto linguistico e tutto ciò che questo comporta. Allora che cos’è il domandarsi? Porsi delle domande per trovare delle risposte: grammaticalmente abbiamo detto che la domanda esige risposta, così come il prima esige il dopo, per una questione grammaticale. Dunque dicevo, che cos’è il domandare? Parafrasando Heidegger, è porsi nella disposizione di attendersi un rinvio dalla proposizione che domanda. è in effetti una disposizione in cui ci si attende un rinvio, un rilancio, e una risposta non è altro che un rinvio, un rilancio ad un'altra proposizione. Con questo siamo giunti a considerare che, intanto la necessità che alla domanda segue una risposta è una necessità grammaticale, esattamente al pari di quella che esige che al prima segua un dopo; dopodiché possiamo dire che, ciò che la domanda produce è una risposta, ma è una sua produzione, cioè la risposta è una produzione della domanda. Allora torniamo alla questione dell’esempio e del controesempio. L’esempio, dicevamo, è quell’elemento che interviene nel discorso e toglie la domanda, toglie il domandare, perché la domanda, il domandare inquieta. A questo punto possiamo anche considerare meglio la cosa, che siano le cose a domandare e finché io non rispondo le cose mi pressano, mi pongono sotto esame, non mi lasciano tranquillo, mentre se fossi meglio consapevole di essere io il produttore, tanto della domanda quanto della risposta, ecco che questa esigenza, questa necessità, assumerebbe un’altra connotazione: sarebbe una semplice curiosità intellettuale, né più né meno cioè sapere che cosa il discorso sta per produrre. La stessa curiosità che può intervenire durante la proiezione di un film d’avventura o quando si legge un romanzo giallo e si vuole sapere chi è l’assassino. Ecco, quindi che la funzione dell’esempio è soprattutto di togliere la domanda cioè fornire la risposta e la risposta la fornisce attraverso una generalizzazione. La potenza dell’esempio viene attraverso la sua potenzialità, l’esempio punta sempre anche se non direttamente all’universale ed è quasi per definizione immediatamente credibile, anzi è fatto per essere tale: nessuno fa un esempio perché non venga creduto altrimenti sarebbe un comportamento bizzarro. Tutto ciò che il discorso o buona parte che il discorso produce, se voi lo considerate con attenzione, è sorretto da esempi. E’ curiosa questa questione, ma qualunque discorso, di qualunque genere, è supportato da generalizzazioni come se il discorso non fosse mai in condizioni di sostenere se stesso, ma dovesse sempre necessariamente ricorrere a una qualche altra cosa. Da qui molte considerazioni circa l’inaffidabilità del linguaggio, l’impossibilità quindi di appoggiarsi al linguaggio come una sorta di garanzia, il linguaggio è inaffidabile perché ha sempre bisogno di qualcos’altro, mentre dice una cosa deve richiamarne un’altra che sostenga la prima e poi una terza che sostenga la seconda e così via. L’esempio invece sarebbe quella generalizzazione che non ha più bisogno di essere sostenuta perché è sostenuta da tutti. Il controesempio funziona esattamente come l’esempio, per questo è così efficace quando voi di fronte a un esempio, che sostiene il vostro discorso, trovate un controesempio, perché rilevate immediatamente la stessa potenza persuasiva, la stessa efficacia, la stessa impossibilità a sbarazzarvene. Di fronte ad un esempio se non si trova un controesempio se ne è generalmente piegati, il che retoricamente è noto: cioè se io faccio un esempio e tu non hai sottomano un controesempio hai perso. Un bravo oratore non è altri che colui che ha a disposizione, il più rapidamente, tutti i luoghi comuni e i contro-luoghi comuni. Dunque, l’efficacia del controesempio è nota da sempre: se non c’è un controesempio, l’esempio ha questa funzione di blocco, quindi non si riesce più a proseguire. Proprio per questa funzione di generalizzazione per cui è come se l’altro, facendo un esempio, mostrasse come necessariamente le cose devono essere, come sono sempre state, come devono essere, perché allude ad un’altra situazione, per esempio un’analogia. La stessa analogia può essere difficile da controbattere perché è fondata sull’esempio. Retoricamente è composta da due parti: il foro e il tema, ed è una proporzione cioè a:b=c:d, dove la prima parte è il foro, la seconda è il tema. Il foro ha quindi sempre un richiamo all’esempio generalizzante che tutti ammettono e tutti sanno, come per esempio tutti sanno che in primavera tutte le rondini tornano, cioè si fonda, ad esempio, su qualche cosa che è dato come acquisito da tutti, che tutti sanno e che nessuno avrebbe l’ardire di mettere in discussione e quindi non lo può fare e, non potendolo fare, deve necessariamente accogliere l’esempio e tutto quello che l’esempio veicola e quindi la ragione della tesi avversaria. Abbiamo preso le mosse dal luogo comune rispetto al discorso comune, che un bravo retore non si accontenta di un esempio né è persuaso dall’esempio, soprattutto un sofista non lo è, l’esempio non gli fa assolutamente niente, lo prende per quello che è, e cioè una proposizione che è un non senso e quindi non prova, non dimostra assolutamente nulla. Un controesempio non è vero o falso, è nulla, è soltanto una costruzione che si oppone a quell’altra e la vanifica. Di fronte per esempio all’analogia, allora sì, il modo più rapido per sbarazzarsene è non accoglierla, questo è il sistema più rapido, il sistema meno rapido ma molto più potente retoricamente, se si hanno gli strumenti per farlo, è invece quello di accogliere l’analogia e rovesciarla su quell’altro: se l’altro non è un bravissimo retore allora resterà schiacciato, se è un sofista anche quell’altro allora andranno avanti all’infinito. La potenza dell’esempio di cui dicevo è ascrivibile qui alla potenza del proverbio che trae dalla necessità di reperire una generalizzazione a cui appoggiarsi e dalla quale trarre una sorta di sicurezza. Ovvio che nei discorsi più sofisticati questo non può avvenire; per discorsi sofisticati intendo i discorsi che riflettono su se stessi, per esempio molti discorsi anche ritenuti sofisticati, elaborati, articolati, come quelli intorno alla filosofia della scienza, muovono invece una quantità enorme di esempi, generalizzazioni, in molti casi ingenue, visibili, per cui sì, è vero, di fronte ad un sofista non si può usare un esempio, perché non gli significa assolutamente niente, nulla, né l’esempio né il controesempio, lo lasciano del tutto indifferente. E’ invece da verificare laddove un discorso comune, come può avvenire per esempio lungo un’analisi, dove una propria cosa che viene creduta, una propria superstizione, una propria fantasia, allora sì che è sorretta da degli esempi, perché è come se non potesse essere messa in gioco e allora effettivamente un modo di intervenire può essere quello di produrre dei controesempi che non significano assolutamente nulla (così come gli esempi) ma semplicemente consentono di sbloccare una situazione che, finché l’esempio rimane non incrinato, sono inamovibili perché sono credute. Una domanda posta in modo paradossale, non ha nessun utilizzo e quindi come tale non è una domanda. Se un oratore è abile in questi casi tiene conto dell’uditorio e allora dice non come dice il popolo ma come hanno detto i più grandi: Aristotele, Platone, Parmenide e giù, giù fino ad arrivare a Heidegger, come hanno detto loro anche noi diciamo, e a quel punto ti stronca, non hai esempi migliori. Quindi dipende dall’abilità dell’oratore, il quale tiene conto dell’uditorio che ha di fronte: se ha di fronte delle persone che non hanno nessuna cultura, è inutile che vada a citare Gorgia o Protagora, non sortirà nessun effetto. Dovremmo a questo punto provare a leggere alcuni brani, i più significativi, dove è più evidente l’abilità oratoria di Cicerone, che conosceva i controesempi in numero tale da mettere in difficoltà la più parte; ad esempio leggere Le Catilinarie, rimaste celebri per i suoi artifici retorici, e vedere come muovendo dalle stesse premesse sarebbe stato possibile sostenere esattamente il contrario. Ma se io voglio dimostrare una certa tesi posso porre una domanda sapendo già che cosa le altre persone possono rispondermi, cioè sapere che gli altri non possono rispondermi in altro modo da come io so che loro devono rispondermi; in altri termini, posso fare delle domande pilotate? Ad esempio, si potrebbe affermare che il male è più auspicabile del bene? No, certo, ma questa è una domanda pilotata. è un po’ la falsa riga dei dialoghi platonici, il sistema che utilizza Socrate in questi dialoghi è abbastanza simile, è un sistema binario, cioè lui pone due alternative di cui una è quasi scartata da sé, quindi non rimane che l’altra. La domanda pilotata suppone che la risposta avvenga nel luogo comune. Anche alcuni dialoghi platonici come il Gorgia o il Parmenide, possono essere presi e letti qui ed analizzati tecnicamente secondo la tecnica retorica che viene utilizzata. Può essere un esercizio molto interessante. Di fronte ad una domanda del genere “il male è più auspicabile del bene” si potrebbe rispondere: “domanda senza senso, un nonsenso”. Può esserci una domanda senza risposta ma può avere la funzione di sovvertire una risposta accettata in precedenza, cioè può non esserci una risposta, ma può essere messa in discussione una risposta generalmente accettata. Questo è nel campo della retorica? Certo, questa è proprio una questione retorica proprio come affermare un prima senza un dopo può farsi retoricamente, solo retoricamente ma non grammaticalmente perché non avrebbe senso. Può affermarsi che esiste una domanda senza risposta: è soltanto un’affermazione retorica che ha senso unicamente all’interno di una costruzione retorica.