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26 gennaio 2022

 

Il sofista di Platone di M. Heidegger

 

Siamo al Capitolo IV de Il sofista di Platone di M. Heidegger. Platone, ci dice Heidegger, continua a inseguire il sofista, vuole bloccarlo, fermarlo, vuole determinarlo, dire che cos’è. Ma il sofista si nasconde perché è una fiera, una belva, ma si nasconde dove? Nel με ν, nel non-ente, lì si nasconde secondo Platone. Il non-ente è ciò che non è, quindi, l’indeterminato, l’πείρων, diceva Anassimandro. La questione interessante, che tratterà più avanti, è questa, e cioè che il non-ente non è tanto ciò che non c’è – questo è un effetto collaterale – ma è ciò che non può determinarsi: finché non lo determino non c’è. È il problema vecchissimo dell’infinito: perché ci sia devo determinarlo, cioè devo porlo come finito, ma se lo pongo come finito l’infinito non c’è più. E, allora, di che cosa sto parlando? Senza l’infinito come so che questo è finito? Ecco, queste sono le questioni da duemilacinquecento anni. Lui va avanti con le sue definizioni del sofista allo scopo di fermarlo, di bloccarlo: finalmente, sappiamo che cos’è il sofista. Qui viene ricordato ancora una volta giustamente questo θηρον (belva, fiera). È stato visto come un multiforme e variegato, quindi, qualcosa che non si può afferrare con una mano sola, come di primo acchito, servono entrambe. E possibilmente dobbiamo cogliere, afferrare il sofista seguendone e ripercorrendone le tracce. Il fatto che qui si parli di tracce sta appunto a indicare che il sofista stesso, vale a dire il contenuto reale fin qui evidenziato, che costituisce il nostro oggetto, lascia dietro di sé qualcosa che consente, come diciamo noi, di seguirne le orme, cioè di vederlo e di perseguirlo per quello che è. Quindi, questo è l’intendimento di Platone: bloccare il sofista, determinandolo una volta per tutte. Il modo è quello di incominciare a differenziare per arrivare alla sostanza. Era questa l’idea di Platone, come se alla fine si arrivasse alla cosa. Διακρίνειν, cioè differenziare, è un’espressione rafforzata rispetto a διαίρεσθαι. Significa non soltanto dissociare in generale qualcosa ma nell’atto di dissociare anche differenziare l’uno rispetto all’altro quanto si è dissociato, distinguere nettamente. Sussiste, dunque, la differenza fenomenica tra il semplice accontentarsi di scindere e il conferire alla scissione l’aspetto per cui essa mette in risalto ed evidenzia la differenza dell’uno di contro all’altro. Noi sappiamo che questa differenza che Platone cerca è quella tra l‘ente e il non-ente. È importante stabilire con precisione le strutture della διαίρεσις (divisione) perché lo stesso oggetto, che poi risulterà essere il tema specifico di una ben precisa διαίρεσις o κάθαρσιςAnche la catarsi è una divisione, un togliere il male. Ora, non so esattamente cosa i Greci intendessero allora con la parola “catarsi”. Sì, certo, una purificazione, quindi, un togliere comunque qualcosa che non va. In questa operazione che fa Platone c’è un aspetto importante, cioè, la presupposizione che ci sia qualcosa che non va e che questo qualcosa è da togliere perché è il male. I molti, lo ha detto in modo esplicito, sono il male, l’Uno è il bene. Questo χερον, che è l’oggetto vero e proprio di tale κάθαρσις, non è nient’altro se non qualcosa che in quanto è e al tempo stesso anche non è, sicché in questa peculiare concrezione si presenta un qualcosa che è necessario vedere come tale, come alcunché di originario. Questo vuol dire, però, che non bisogna tenere conto di dogmi fondamentali che dominavano la filosofia di quel tempo. Infatti, una συμπλοκ (insieme) di enti e non-enti era qualcosa di inaudito, in quanto appunto soltanto l’ente è mentre il non-ente non è, non vi sono altre possibilità. Ci imbatteremo in questo oggetto peculiare quanto più capiremo in che cosa consiste il tema della κάθαρσις, a seconda che questa sia praticata dal sofista oppure dal filosofo autentico. La catarsi, quindi, la fanno tanto il sofista quanto il filosofo, il dialettico. Abbiamo visto la differenza fondamentale, la παιδεία, l’insegnamento: il dialettico, il filosofo autentico, vuole condurre alla verità, alla cosa così com’è, mentre il sofista no, non ha questa velleità di dire come stanno le cose. Si è così indicato, se volgiamo lo sguardo a ciò che può essere oggetto di questa διαίρεσις nel senso della κάθαρσις, che si tratta di qualcosa che possiede il carattere di χερον e pure di βελτων (di brutto e di bello) e precisamente in modo tale che entrambi sono dati inizialmente insieme, determinando in maniera unitaria un ente. Dalla comprensione più completa della διαίρεσις, quale si evince dall’insegnamento sofistico, risulterà poi che l’oggetto della κάθαρσις in senso proprio è l’γνοια (ignoranza) e che con questo oggetto, per offrire un’anticipazione in tal senso, la κάθαρσις si rivelerà infine come λεγχος. λεγχος significa mettere alla berlina, rendere manifesto. Generalmente, λεγχος viene tradotto con confutazione. Gli Elenchi sofistici di Aristotele sono tradotti con Confutazioni sofistiche. Questa sottolineatura che fa Heidegger rispetto a un significato particolare di λεγχος non è del tutto casuale. Come avviene questa confutazione? Attraverso la messa alla berlina. E questo rendere manifesto è in sé un κβολ, un gettare via il χερον, il male. Un po’ come quando si separa il grano dal loglio: si separa quello che non serve dal buono …svincolando in tal modo il βελτων (il buono). Più precisamente, la sua (del sofista) τέχνη μαθηματοπωλικ, il suo atteggiamento è un’offerta, vendita di μαθηματα Μθημα sono gli insegnamenti, cioè λόγοι, discorsi e, quindi, vende discorsi …e il suo modo di trattare con coloro cui vende i propri tesori è l’ντιλογικ o l’ριστική. L’ντιλογικ è l’antilogia, il discorso contrario, l’eristica è lo stesso. Infatti, lui, usando le antilogie, i discorsi contrari, mette in difficoltà il suo interlocutore in modo da fargli abbandonare le sue opinioni, tutte le sue credenze, le cose che lui crede vere. Il sofista gliele fa abbandonare senza dargli in cambio il vero, anzi, è lui che chiede i famosi denari, mentre il dialettico fa la stessa operazione ma in cambio pretende di dargli la verità. Più precisamente, trattandosi qui dell’elaborazione della παιδεία, della vendita di μθηματα, dell’ντιλέγειν (insegnamenti attraverso confutazioni), questo atteggiamento ha di mira la ψυχή, nella misura in cui essa implica il νόηινΝόηιν, conoscenza, la conoscenza è tipica della νόηιν, cioè, dell’uomo. Qui Heidegger intende ψυχή, non come è generalmente tradotta, e cioè con anima, soffio, spirito, ecc., ma semplicemente come l’uomo, quello che lui altrove indica come il Dasein, l’esserci, l’uomo, colui che c’è nel mondo. Perciò la distinzione che ora viene operata quanto all’oggetto del καθαρμς (catarsi, purificazione) non è esteriore e scolastica, bensì è già prefigurata nell’idea stessa del sofista, cioè nell’oggetto della sua attività. Lui ha di mira l’uomo per purificarlo delle cose in cui crede. Pertanto, le κατάρθεις vengono a loro volta distinte in quelle che sono περί τό σμα e in quelle περί τήν ψυχν (quelle che riguardano il corpo e quelle che riguardano l’uomo, inteso come essere vivente, come esserci). E, allora, che cosa fa Platone? Fa la solita analogia: è come il corpo che si ammala, che quindi contiene qualcosa di errato, che non funziona, e questa cosa che non funziona, che non va bene, deve essere eliminata a vantaggio della salute. È un discorso che oggi va molto di moda. Allo stesso modo la ψυχή, cioè il pensiero dell’uomo, deve essere purificato da ciò che non va bene, cioè dalla γνοια, dalla ignoranza. Una determinazione più approfondita della κάθαρσις dovrà considerare che cosa sia in sé questa κακακακα è letteralmente bruttezza, ma qui è inteso come errore, come qualcosa di sbagliato, ecc.; è il contrario di καλός, che significa “bello”. In che senso vi sia una κακα nell’anima… Una bruttezza nell’anima, così come c’è per esempio nel corpo, qualcosa che non va, anche nell’anima c’è qualcosa che non va che, quindi, deve essere estirpato. Il sofista rappresenta questa cosa qui, gli eleati e i sofisti sono stati questa cosa qui per il pensiero: qualcosa che doveva essere estirpato. Come l’hanno estirpato? Con la tecnica che perdura ancora oggi: siccome non era possibile confutare la loro posizione – questo già da Zenone – cosa si è fatto? Li si è semplicemente ignorati, li si è cancellati dai libri di storia della filosofia e, infatti, vengono citati in quattro righe, per fare in modo che ciò che dicevano non se ne discuta. Certo, qualunque manuale di filosofia li annovera, ma giusto questo, li annovera, ma non c’è nessuna discussione, nessuna problematizzazione del loro pensiero. Le κακαι del corpo animato, malattia e bruttezza, στσις, μετρα (senza misura), δυσειδές (mal disposizione). Sono tutti termini che lui utilizza. La ψυχή è una disposizione psichica che è caratterizzata come qualcosa che reca in sé κίνησις (movimento) ovvero una disposizione psichica che ha in sé il carattere del da verso, la quale è quindi nel suo essere in cammino verso qualcosa: questo è il significato del κινήσεως μετασχόντα. Qui c’è una cosa interessante perché, in effetti, tutta la questione centrale nel testo importante di Heidegger, Essere e tempo, verte proprio su questo, e cioè la psiche… Lui non parla di psiche ma di esserci, non dice uomo perché secondo lui questo termine è malinteso e inflazionato e, allora, ne inventa uno suo, l’esserci, Dasein. Esserci vuol dire essere nel mondo, ma dice anche essere un progetto gettato. Ecco allora questa disposizione psichica che ha in sé il carattere del “da, verso”, quindi, un cammino verso qualcosa, che è l’essere gettato nel mondo. In questo suo essere in cammino verso pone ciò verso cui è incamminata come uno σκοπς. Di solito si traduce σκοπς come meta, rettamente interpretata questa traduzione ha senso. Infatti, il ciò verso cui di una κίνησις è anche il punto in cui essa, per il suo stesso senso, perviene alla fine, τέλος.  Ma σκοπς è τέλος siffatto da essere avvistato, σκοπιν. In questo movimento c’è la sua stessa fine, che viene scorta in anticipo dal movimento stesso. Questo è il senso specifico della meta. Ora arriva alla questione, dice dell’μετρα nella ψυχή. L’μετρα è la sproporzione. L’μετρα nella ψυχή, cioè l’γνοια, l’ignoranza. La questione concreta è, dunque, dove nella ψυχή e in che modo è dato un tale fenomeno della κίνησις, che reca in sé una ρμ (direzione) e che ha la possibilità della παραφορ (mancare l’obiettivo). Nella ψυχή questo fenomeno è il νόηιν nell’accezione più concreta del φρονεν, la φρόνησις che in Platone non è ancora separata dalla σοφία e dall’πιστήμη. Il termine più generale è qui il νόηιν. Il τέλος di questa κίνησις in quanto νόηιν è l’ληθήςA che cosa punta l’intelletto se non al vero, a ciò che è? …ciò in cui il vedere giunge al fine e l’avvistato... L’avvistato è ciò che potremmo mostrare come il fine del vedere. …vale a dire, l’ente così come esso c’è, disoccultato in esso stesso. Pertanto, ciò che costituisce la deformità di questo νόηιν relativamente a se stesso è la παραφροσύνη. È difficile tradurre questo termine soprattutto se cerchiamo una bella traduzione nel senso comunemente inteso. Il senso proprio è: sbagliare mira, che non è cecità e nemmeno un semplice non vedere ma una malformazione assai più radicale, e cioè appunto uno sbagliare mira. Potremmo dirla così: per natura ciascun umano è dotato di due braccia e di due gambe; se nasce senza braccia e senza gambe la natura ha sbagliato mira, non ha raggiunto il suo τέλος, il suo obiettivo. Tutto questo per anticipare il discorso sulla γνοια, sull’ignoranza come malattia dell’intelletto, cioè come qualcosa che non va e che è da togliere, da sradicare come il male. L’orientamento e la struttura originaria dell’esistere come in-essere, essere-in-un-mondo. La scoperta dell’in-essere presso i Greci. La lettura rilucente dell’esistenza a partire dal mondo presso i Greci. La struttura dell’essere, in cammino dell’esistere verso ciò che è disoccultato… Anche qui è interessante notare che parla sempre di disoccultamento, facendo come se Eraclito non fosse mi esistito. Era lui che diceva che la natura ama nascondersi. Quindi, è inutile pensare al disoccultamento. Certo, possiamo disoccultare per occultare di nuovo. Mentre in Platone, e anche in Aristotele, il disoccultamento deve essere il fine, l’obiettivo, cioè, non ci deve più essere l’occultamento. Che cos’è che occulta l’essere? Il non-essere. E, dicendo che il sofista va a nascondersi lì, sta dicendo che il sofista si nasconde proprio là dove non è possibile determinare niente, perché il non-ente non è determinabile come qualcosa. Il Dasein, l’esistere, l’esserci, termine usato sempre qui come titolo indicante l’essere umano, è caratterizzato dal fenomeno fondamentale dell’in-essere ovvero, espresso in forma compiuta, essere-in-un-mondo. Questa è frase tipica di Heidegger. /…/ Questo in-essere è anzitutto dominato dall’γνοια, cioè da una conoscenza del mondo immediatamente dato. Ad essa è insieme un’insipienza, un determinato traviamento nella parvenza immediata in base alla quale viene letto, interrogato e spiegato ciò che si fa incontro nel mondo. È la conoscenza della chiacchiera, quella conoscenza che non arriva alla verità, alle cose così come sono. La conoscenza che ne deriva può diventare scienza ed essere coltivata ed apprezzata come tale. Al tempo stesso appare evidente che questo γνοεν (non sapere) implica in positivo la direzione di un ληθεειν, di qualcosa che ha la possibilità di spezzare l’insipienza in tale senso appunto positivo. Ho sottolineato che i Greci, nell’intero indirizzo del loro interrogare scientifico, non erano primariamente orientati alle interconnessioni antropologiche, bensì il loro interesse era rivolto a chiarire l’essere del mondo in cui vive l’uomo. In termini assolutamente ingenui e ovvi, con gli stessi mezzi adoperati per questo ente nel suo essere, essi spiegarono nel contempo l’esistenza, l’essere dell’anima. È una tendenza già prefigurata nell’esistere naturale in quanto anch’essa attinge i mezzi dalla sua autointerpretazione al mondo esperito immediatamente. Ciascuno esperisce immediatamente delle cose e in base a queste cose costruisce una teoria, dalla teoria più banale fino alla teoria dei quanti. L’indagine dei Greci non fa che seguire questa tendenza, affatto elementare ma in sé legittima, di interpretare se stessa a partire dal dato immediato… D’altra parte, sennò da che si parte? …ma per riuscire a vedere la struttura antropologica, entro cui l’uomo era collocato nell’indagine dei Greci, è necessario fare ritorno ai fenomeni dell’ληθεειν, ovvero del dischiudere che scopre il mondo. Certo, questa è soltanto una direzione, lungo la quale possiamo reperire tali interconnessioni. Un uomo, come Dilthey, ha dedicato tutta la sua lunga vita a rendere perspicua questa realtà, rimanendo tuttavia sospeso a mezzo del cammino, come egli stesso ammise nel discorso tenuto per il suo settantesimo compleanno. Non solo noi non disponiamo delle interconnessioni fattuali concrete dell’antropologia greca ma nemmeno di quelle dell’antropologia greco-cristiana e tanto meno conosciamo il nesso tra l’antropologia di Lutero e quella che l’ha preceduta. Stando così le cose non possiamo pensare di affermare alcunché di determinato su tali fenomeni, tanto più che la vera e propria preparazione reale per l’indagine di essi si trova ancora in cattive acque. /…/ La determinazione della κάθαρσις dell’γνοια, cioè, della purificazione, potremmo dire, dall’ignoranza. Se γνοια è una mal disposizione allora essa contiene nella sua struttura un δυς- (oppositore) e un χερον. Sorge la domanda: c’è una τέχνη grazie alla quale questo δυς-, questa malformità, possa essere eliminato mettendo a nudo il βελτων (bene), l’ληθεεινe e il νόηιν? Nella misura in cui si tratta di una τέχνη, orientata al sapere e al non sapere, essa avrà il carattere generale di una διδασκαλική (insegnamento). L’insegnamento determina la scomparsa dell’insipienza comunicando il sapere. Bisogna però chiedere se questa διδασκαλική, che comunica essa stessa il sapere, allo stesso modo cioè in cui il sofista vende λόγοι, sia in grado di eliminare tale mal disposizione nell’anima. Nasce così il problema della διδασκαλική rivolta all’γνοια. Tali considerazioni mirano a elaborare di contro alla διδασκαλική, così come data immediatamente una διδασκαλική di tipo affatto peculiare che miri unicamente e solo all’eliminazione dell’γνοια. γνοια come presunto sapere e traviamento, vera e propria κακα della ψυχή. Dunque, qui considera l’γνοια come il traviamento, il presunto sapere e, quindi, la vera e propria malattia dell’anima. La presunta confidenza con qualcosa è la vera e propria origine dell’inganno e dell’errore. Essenziale non è la semplice insipienza, il mero non sapere, bensì positivamente il ritenere di sapere. Questo per Platone è il male peggiore: il credere di sapere. Che è curioso se si considera che è esattamente quello che fa lui. In fondo, quando lui dice che quella è la cosa in sé crede di sapere. Questa γνοια viene denominata μαθα (imperizia, incapacità). Il fenomeno positivo rispetto all’μαθα è la παιδεία. Si può tradurre παιδεία con il tedesco Bildung, formazione, cultura, e μαθα con Unbildung, ignoranza, incultura. Quindi, questo è ciò che è da togliere. Ma per il modo in cui intendiamo questo termine nella nostra lingua ne risulta un fraintendimento: cultura, essere colti, ci fa pensare a uno che sa moltissime cose, le più disparate in tutti i campi della scienza, delle arti e altro ancora. Ora, chi possiede questo genere di cultura non è detto che debba possedere ciò che i Greci chiamano παιδεία; per lo più non è capace di porre un’autentica questione reale, non ha propriamente la disposizione del ricercatore, il che peraltro non significa che ogni ricercatore debba essere allora un incolto, ma al giorno d’oggi la filosofia si compone in gran parte di questo genere di cultura. Non necessariamente si tratta di cultura storica, c’è anche una cultura sistematica e anche in altre discipline, ecc. È una cosa assolutamente inutile. È come se un matematico volesse dire a un collega, al termine di una conferenza, che quest’ultima è stata affatto carente sul piano del metodo, anzi, persino maldestra e, tuttavia, noi matematici siamo tutti concordi nell’esprimere gratitudine al relatore, per avere ribadito con forza che A+B è uguale a B+A. È così che una miseria deprimente sfocia nel ridicolo. La παιδεία non è cultura in questo senso, essa è piuttosto una πραγματεα, un compito, tutt’altro dunque che un possesso scontato, un compito che non può essere affrontato da chicchessia. Per capire, in definitiva, la vera finalità dell’intero dialogo è importante vedere che l’γνοια è una κακα che di per sé, essendo una determinata disposizione o meglio mal diposizione dell’anima, ha il significato di svilire l’essere dell’uomo quanto alle sue possibilità e che, quindi, questa γνοια non ha necessità di stare in relazione con determinati oggetti che essa non conosce. Non c’è un ambito specifico di realtà che sia costituito dall’γνοια. Per caratterizzarla come κακα è già sufficiente che essa sia così com’è. Dal peculiare modo di essere di questo κακν (male) risulta la necessità di una corrispondente τέχνη, che deve avere il senso di una κάθαρσις, di una purificazione /…/ La mal disposizione dell’anima svilisce l’uomo quanto alle sue possibilità. Potremmo dire sì e no. Sì, certo, nel senso che va bene combattere contro le credenze, ma tra queste credenze da combattere è compresa anche quella di Platone? È una domanda che qualcuno potrebbe anche porsi. Qui ripete che nessuno vuole imparare qualcosa su ciò in cui si ritiene esperto e competente. Quindi, parla della difficoltà di demolire le credenze altrui: se uno si crede competente immagina di non avere nessun necessità di essere addestrato ad alcunché. La κάθαρσις dell’γνοια mediante l’λεγχος (confutazione). La procedura dell’λεγχος: mettere in gioco le δόξαι (credenze, opinioni), le une contro le altre per mezzo dei σιναγειν ες ν (mettere insieme e arrivare all’unità). Solo in questo modo, per es., si può vedere che due opinioni sono contrastanti; finché rimangono distinte non c’è problema. Ebbene, dice Platone, coloro che sanno come stanno le cose a proposito di questa γνοια, il suo essere fondata sul fatto che ogni imperizia è quel che è senza una vera e propria decisione, possiedono già una via per la κβολ (uscita). Essi interrogano un tale, lo interrogano a fondo, vuol dire interrogandolo scuoterlo a fondo, porgli le domande in modo tale che egli ne sia sconvolto nel suo ειδέναι (nella sua immagine, nei suoi pensieri), stanarlo fuori dalla sua presunta dimestichezza con le cose. Questo è quello che facevano i sofisti ed è quello che Platone vuole che faccia il dialettico, ma è l’obiettivo, come sappiamo, che è differente. Il fatto essenziale è che coloro lo attuano si rivolgono alle opinioni, cioè ai punti di vista di colui che è sottoposto a interrogatorio e per mezzo di discussione approfondita, radunano insieme i punti di vista su una certa cosa abbracciandoli da un’unica e medesima prospettiva. Essi compiono, cioè, quanto abbiamo già incontrato in precedenza, il συνορν (mettere insieme), quello che uno dice di una stessa cosa in modi affatto differenti lo vedono insieme. Solo così uno può vedere che si sta, per es., autocontraddicendo. Quando questo è accaduto fanno vedere che tali punti di vista si prendono, per così dire, reciprocamente a pugni in faccia, e cioè l’un punto di vista, quale pretende senz’altro di far vedere la cosa di cui parla, occulta ciò che l’altro mostra, e viceversa. È appunto questo che fanno vedere, questo peculiare εναντίον (contrario) fra le δόξαι (opinioni). Qui si tratta dunque di mettere in gioco δόξαι l’una contro l’altra per indurre in confusione con se stesso colui che le possiede, però non ne va in alcun modo della scoperta del principio di non contraddizione, di ciò non si parla affatto. Un principio di non contraddizione può essere scoperto soltanto qualora la proposizione sia riesaminata come tale. Platone non è mai arrivato a questo. Come vedremo, anche nella seconda parte del Sofista è pertanto assolutamente impossibile che egli abbia scoperto il principio di non contraddizione. Certamente ha comunque evidenziato ben precise interconnessioni strutturali della contraddizione, che senza dubbio furono elaborate da Aristotele nella trattazione Metafisica IV. È vero, Platone gli ha spianato la strada, ma Aristotele non lo cita mai. Tutt’al più si può affermare che in un certo senso il principio di non contraddizione c’è potenzialmente già qui /…/ Desidero soltanto sottolineare che il principio di non contraddizione è ancora oggi costantemente dibattuto e in realtà lo fu sempre nella storia, sempre dal punto vista della sua formulazione sia da quello della sua originarietà, se esso sia cioè derivato dal principio di identità, se si fondi su di esso oppure se è un principio a sé stante, e poi anche quanto al suo statuto di legge o di norma, se costituisca una regola dell’enunciazione o una legge della proposizione o se non sia una legge dell’essere che esprime un nesso ontologico o tutte e due le cose insieme, come pure è stato detto. Finché non si sarà fatta chiarezza in merito a questo stesso principio, cioè a una determinata modalità del λόγος, non sarà possibile cavarne fuori nulla di retto. Sì, certo, il fatto è che tutti hanno discusso il principio di non contraddizione senza tuttavia mai obiettare qualche cosa a questo principio. L’unica obiezione che è stata fatta è quella che poi è stata ripresa dal logico Łukasiewicz, e cioè che non è sostenuta da argomentazioni, ma gli si è fatto notare da tanti, compreso Severino, che per essere sostenuta da un’argomentazione questa argomentazione già prevede il principio di non contraddizione, il che retoricamente sarebbe una petizione di principio. Quindi, allora, questo sofista continua a sfuggire. A quanto pare la questione che cosa sia veramente il sofista risulta più oscura che mai. /…/ Siamo in un certo senso risospinti al punto iniziale, solo che adesso l’insipienza e la confusione sono rese esplicite e, per così dire, chiarite. Perciò, Teeteto afferma: “per il fatto che ora è emersa una tale pluralità (a proposito del sofista) non trovo più alcuna via d’uscita. Non so che cosa sia effettivamente il sofista e come in realtà debba essere definito. Non so che cosa devo dire dal momento che il mio parlare deve offrire la cosa stessa e invero con parole salde. Questo riassume tutto il problema, non del sofista in quanto tale ma della posizione nei confronti del sofista, e cioè il problema della determinazione: come faccio a determinare con una singola parola un qualche cosa in modo da poterlo vedere come se non ci fosse il linguaggio, come se si desse da sé? Questo era l’obiettivo: come determino qualche cosa? Senza tenere conto che la determinazione, già quella, è un fatto linguistico: per determinare devo costruire un’argomentazione. È, quindi, il momento di domandare: che cos’è propriamente ciò con cui tale τέχνη (del sofista), nella molteplicità delle sue competenze, ha dimestichezza? Cioè, di che cosa è bravo a fare il sofista? In altre parole, ciò con cui si ha dimestichezza viene cercato come Uno. Lo Straniero dice: “Una cosa mi è sembrata più di tutte tale da renderlo visibile: indicare alcunché di velato”. Indica qualcosa che è velato, qualcosa che è nascosto, celato. Il sofista fa questo: lo indica. Come dire: guarda che è velato, non stai vedendo la cosa, ma non perché dietro c’è la cosa, semplicemente perché le tue argomentazioni sono deboli. Vedete, per potere accorgersi che di fatto la cosa in quanto tale non la si vede, occorre molta conoscenza, occorre molto lavoro, occorre avere compiuto un lavoro tale che conduce ad affermare, quindi a prendere atto, del fatto che non si riesce a determinare la cosa in modo univoco e definitivo. Si tratta di quell’atteggiamento che era stato evidenziato nella quinta definizione, tale ντιλέγειν non è solo un’antilogia, un parlare il cui atteggiamento nei confronti degli altri è quello del contrasto e della polemica, bensì caratterizza proprio ciò che il sofista offre, vende, nient’altro che ντιλογική. Ciò che il sofista insegna e ciò in cui consiste il suo atteggiamento sono il medesimo. Come dire che il sofista è questa cosa qua. Certo, lui lo fa come mestiere, ma lui è questa cosa nel senso che, avendo colto che non c’è la cosa alla fine di tutto, quella che Platone insegue a tutti i costi, è questo percorso senza fine, un percorso senza illusioni, senza autoinganni, senza autoconvincersi che alla fine c’è la cosa. Alla fine non c’è niente, alla fine ci sono altre cose e, poi ancora, altre cose, ecc. Lui vive questo, è questo. Risulta così che con l’ντιλογικς (antilogia) abbiamo riunito in un’unica struttura fondamentale il dato di fatto fenomenico del sofista, così come è stato ricavato sino ad ora. Tuttavia, l’Uno stesso, poiché con esso intendiamo ciò a cui mira questa τέχνη ντιλογική, questo rimane ancora indeterminato… Cioè, questo puntare a un qualche cosa rimane indeterminato. Certo che rimane indeterminato, perché questo mirare a qualche cosa non ha di vista la cosa che è da raggiungere, si occupa semplicemente di fare procedere il discorso in modo tale che il discorso, lui, si accorga che non c’è la meta ultima. L’oggetto del λόγος sofistico. Τα παντα, il tutto. Qui naturalmente sorgono obiezioni da parte di Platone: il tutto è qualcosa che appartiene agli dei, solo loro sanno tutto. Sapere tutto è impossibile perché sarebbe come sapere l’infinito, perché come determino il tutto, quando lo faccio finire il tutto? Ecco, allora, la τέχνη del sofista diventa per Platone qualcosa di impossibile, quantomeno ravvede un’impossibilità. Il sofista ha a che fare con gli uomini, naturalmente, ma l’essere dell’uomo è determinato come ζον λγον χον (animale che ha il linguaggio). Pertanto, coloro con cui il sofista ha a che fare sono λγονχοντες (coloro che possiedono il linguaggio). Il come dell’approccio, la modalità del prendersi cura è l’ντιλγεσθαι o λέγειν. È il che cosa, il quid, dell’approccio, ciò di cui esso si prende cura, è la παιδεία, cioè una determinata δυναμις dell’ντιλγεσθαι. Cioè, una determinata potenzialità dell’antilogia, del discorso contrario. Assume così concretezza la struttura ontologica del sofista, che inizialmente era stata caratterizzata in termini affatto formali come τέχνη. Qui l’approccio si riferisce a coloro che vengono caratterizzati dal λέγειν, il come dell’approccio è il λέγειν; infine il che cosa, oggetto del prendersi cura nell’approccio, è nuovamente il λέγειν. Tutto rimane nel λέγειν, tutto rimane nel linguaggio. Pertanto, proprio qui nella τέχνη σοφιστικ si fa nel contempo visibile la multiformità della struttura del λόγος. È questo che crea problemi a Platone, naturalmente. Il fatto peculiare è che questo ντιλγεσθαι (contrapposizione), vale a dire la τέχνη del sofista, diventa una impossibilità per via di ciò a cui si riferisce. Essa si rivela dunque come una impossibilità, ovvero qualcosa che non può essere; infatti, παντα πιστσθαι (conoscenza certa del tutto) è una cosa di cui solo gli dei sarebbero capaci. Si tratta invero di una determinazione negativa, ma abbiamo già visto, trattando della sesta definizione, che in essa fra le righe, certo non senza intenzione, l’atteggiamento del dischiudere l’ente, dell’ληθεειν è stato caratterizzato come κίνησις (come movimento, come andare verso qualcosa). In altre parole, l’essere dell’uomo, essendo orientato al conoscere, è come tale in cammino. Questa idea che, per esempio, la verità sia qualcosa che è sempre in cammino è un’idea che a tutt’oggi alcuni filosofi sostengono, uno di questi è Carlo Sini. Nel suo scoprire l’ente, e cioè nell’πιστσθαι, non è e non perviene mai alla fine, perciò la pretesa di παντα πίστασθαι è di per è una impossibilità ontologica. Cioè: non puoi conoscere tutto, perché c’è sempre un più uno. Così, a partire dal suo andare verso, la τέχνη del sofista si rivela impossibile nel suo essere. Al tempo stesso, però, la precedente interpretazione ha dimostrato che questa τέχνη c’è di fatto con l’esistenza del sofista. Sicché nel caso del sofista ci troviamo di fronte un ente, che è lì presente e che però nel suo essere è impossibile e, quindi, anticipando quanto avverrà in seguito, l’essere del non-ente. Lo aveva già anticipato prima, e cioè là dove si va a nascondere il sofista, e cioè il non-ente, il non-essere; lì si nasconde perché c’è l’indeterminato, l’impossibilità di concludere qualcosa. E, infatti, se lui dice che si occupa del tutto, si occupa allora dell’infinito, di qualcosa che non può essere determinato. Però, dice Platone, c’è, lui lo dice e fa questo. Avrebbe avuto l’opportunità qui di accorgersi che c’è il determinato a condizione che ci sia l’indeterminato, e viceversa, che l’ente e il non-ente sono la stessa cosa, sono soltanto due momenti dello stesso. E, invece, no, lui li vuole separare. La domanda è: come si può spiegare una τέχνη come questa, la τέχνη σοφιστικ, che è appunto un non-ente? È mai possibile che si dia una simile cosa? È possibile spiegarsela con i mezzi della naturale autointerpretazione della τέχνη? Se essa, infatti, c’è, come τέχνη, deve avere una certa comprensibilità all’interno del nostro essere gli uni con gli altri, e ciò a maggior ragione per il fatto che essa, quanto al suo stesso senso, è riferita agli altri. In tal modo viene ribadita espressamente una volta di più che, di fatto, i sofisti hanno una clientela, che vengono pagati per il loro ντιλέγειν. E da ciò risulta che effettivamente ai loro allievi loro appaiono tali e vengono di fatto presi come παντα σοφοί coloro che hanno dimestichezza con tutto sebbene non lo siano. Perciò questa πιστήμη è una δοξαστική (un’opinione) tale da avere la possibilità di spacciarsi per qualcosa che essa non è. Si presenta allora il compito di indagare questo peculiare fenomeno: qualcosa che si spaccia per quello che non è, cercando intanto di capire in che senso questa τέχνη implichi tale fenomeno della parvenza, del mero sembrare in un certo modo. Platone non chiarisce il carattere di parvenza, il puro e semplice apparire così, chiamando direttamente in causa la τέχνη σοφιστικ. Egli afferma, invece: “Vogliamo dunque prendere un esempio con il quale chiarire con maggiore precisione in che senso una τέχνη possa implicare qualcosa come il δοξαστικόν”. Qui non è un caso che Platone ricorra a un esempio, senza mettere a tema dell’analisi la stessa ντιλογική. E, allora, a che cosa si aggrappa Platone? Platone riesce a scoprire la peculiare costituzione dello ψευδος (falso) all’interno della struttura del λόγος e a evidenziare la possibilità nel λέγειν. Vedere, cioè, come sia possibile il falso nel λέγειν, nel dire. Ciò dipende dal fatto che egli non vedeva ancora il λόγος nelle sue strutture principali e, di conseguenza, rimangono incerte anche le sue nozioni di fantasia e di doxa. E, tuttavia, proprio qui egli ci offre una curiosa indicazione per interpretare la τέχνη ντιλογική. In precedenza il λόγος è stato determinato come appropriazione dell’ente nel suo ληθής. Se intendiamo il λόγος in questa accezione, come appropriazione, presa di possesso dell’ente in quanto non occultato e facciamo chiarezza circa la pretesa insita nell’ντιλογική risulta questo: l’ντιλογική, nella propria ambizione di poter possedere tutto l’ente nel suo disoccultamento, è impossibile. Qui dice qualche cosa che i sofisti non hanno mai sostenuto, nemmeno gli eleati, quello di conoscere il tutto. Il tutto non ha misura, non è misurabile, e se non lo posso misurare, se non c’è una misura, come potrò mai sapere che è tutto? Ma se c’è una misura allora non è tutto.