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25 novembre 2020

 

L’attualismo di G. Gentile

 

Siamo al Capitolo IV, La dialettica del valore. § 1. L’unità di realtà e idea, propria del valore, non è presupposto del pensiero in atto. Il valore, si è detto, appartiene alla verità in quanto la verità è certezza; e certezza è in quanto essa è l’essere del pensiero, che è unità di realtà e idea; quel processo di produzione di sé, in cui il pensiero consiste. Il concetto del valore compie, anzi realizza il concetto della verità, perché esso si concepisce come la negazione di ogni immediatezza. In queste poche righe ha detto delle cose essenziali, vale a dire, la verità non è un’immediatezza, ma è sempre e comunque una relazione, e la verità è tale perché ha un valore, o, come dicevamo la volta scorsa, il suo valore è l’essere utile alla volontà di potenza. § 2. Immediatezza dell’essere che è puro essere. L’unità, di cui si tratta, non è presupposto di pensiero… Come dice sempre Gentile, nulla è presupponibile al pensiero, qualunque presupposizione è già di fatto un altro pensiero. …cioè non è realtà realizzata, soltanto quando sia l’atto del pensiero nel suo svolgimento. Solo in questo svolgimento avviene quell’unificazione di essere e non-essere (idea e materia), che Platone cercò sempre invano, e lasciò dopo di sé come il segreto della filosofia. Quale sarebbe il segreto della filosofia? Che il pensiero è in atto, sempre e soltanto in atto, in qualunque occasione e comunque in qualunque modo lo si voglia concepire. L’immediatezza è infatti dell’essere puro, tutto essere:… Questa sarebbe l’immediatezza, che non ha a che fare con il pensiero. …categoria universalissima, onde noi pensiamo ogni pensabile. Posto il pensabile, esso è. Esso è Dio, esse quo maius cogitari nequit, e che non potrebbe definire se stesso (se potesse) altrimenti che dicendo: Sum qui sum. Né è possibile che alcuna determinazione estrinseca acceda all’essere, come essenza universalissima della realtà oggetto del pensiero; perché ogni determinazione è bensì negazione di altre possibili determinazioni (delle contrarie, che sono non dell’essere, sì del pensiero che all’essere si contrappone); ma in se stessa, in quanto determinazione dell’essere, è posizione di essere. Questa impossibilità, pel pensiero che chiuda la realtà nel suo opposto, di uscire dal concetto dell’essere, è la immutabilità dell’essere, illustrata dalla filosofia parmenidea: ossia la negazione di ogni processo, che, restando nei confini della stessa realtà, importi a grado a grado una realtà nuova, una forma nuova di essa, una distinzione di essa tra sé e sé. La distinzione infatti implica una differenza, e l’essere è essere, identico con se stesso, immutabile. Questa è una delle critiche che Gentile muove al concetto di immediatezza, ricordandoci che l’atto di pensiero è sempre, comunque e necessariamente mediato, cioè, è una relazione in atto. § 4. La mediazione del pensiero come unità di essere e di non-essere. Vedremo a suo luogo che questo preteso essere, così, immediato, esterno al pensiero, è impensabile; e se si è presunto e si continua e continuerà sempre a presumere, non è stato mai, né sarà mai pensato. Il pensiero è mediazione. Appunto, come dicevo, è relazione. Platone, non risolve dunque il problema; ma il bisogno, che nei suoi dialoghi dialettici ha sentito, si introdurre il non-essere nel seno stesso del suo contrario, per renderlo pensabile, è l’indicazione della via di uscita dal chiuso concetto dell’essere immediato. Nell’essere, che è immediato se non è pensiero, la mediazione può venire soltanto dal non-essere. Cioè l’essere che è pensabile, e non immediato, è l’essere che è sì essere, ma è anche non-essere. Questa è una cosa difficile, della quale tuttavia sarebbe sempre opportuno tenere conto in ciascun atto di pensiero, dunque, in ciascun atto di parola. § 5. Il pensiero negazione dell’essere nella dialettica e nella vita. Codesto infatti è il pensare, che ci addita Platone: l’essere che non è soltanto, ma anche non è, e non è, per essere quel che è. Concetto che si fa chiaro ed evidente se si approfondisce assai più che non fosse possibile a Platone, impigliato nell’opposizione da cui era partito, tra l’essere, che è puro ente, e il pensare, che è divenire. Il pensare infatti che non presupponga il suo essere (guai a chi presupponga quale vuol essere, e non lavori ad essere tale!), è quel che non è. Si ricordi la sapienza di Socrate riposta nella coscienza della propria ignoranza: che, tradotta in altro linguaggio, è pure la bontà somma di chi rabbrividisce della coscienza della propria miseria morale; ed è ogni alto valore o realtà spirituale, in quanto coscienza di non aver nulla fatto, e dover tutto fare. Questa è una delle implicazioni de pensiero di Gentile, e cioè che non c’è nulla di fatto, ma è sempre tutto da fare o, più propriamente, è sempre tutto in fieri, cioè, si sta facendo. Quel che siamo già – se qualcosa già siamo – costituisce la nostra natura (prima o seconda natura, temperamento naturale o abito acquisito, ma già meccanizzato), che non ha valore, né la possiamo far valere come quella nostra personalità, in cui riponiamo più propriamente il nostro essere. La scienza stessa non è quel “ritenere”, dopo aver inteso, di cui parla Dante, se non in quanto la conservazione del già inteso si dimostra un nuovo intendere, rispetto al quale il già inteso è nulla. Così è che tutti sentiamo il nostro essere nel nostro farci quel che si è: dico “nostro essere” in relazione a quel “noi”, che si afferma e dice “Noi”; ed è insomma l’autocoscienza, il principio attivo e sostanziale dello spirito. Anche qui, questa questione è notevole. Ci sta dicendo che tutto ciò che la scienza costruisce, determina, ecc., nel momento in cui è stato determinato diventa nulla, perché non è altro che un punto da cui partire per fare altro, ma ciò che è stato fatto non ha più nessun interesse. Ed è esattamente ciò che dice Nietzsche rispetto al superpotenziamento e al depotenziamento nel momento in cui il superpotenziamento si arresta: se si arresta il superpotenziamento non c’è che il depotenziamento. § 6. Né essere, né non-essere. Né essere, né non-essere, il pensiero non può dire di non essere senza essere: il suo dubbio è certezza, la sua negazione è affermazione. L’astrazione, che esso tentasse di fare da sé, sarebbe sempre posizione di sé. Questo si intende bene rispetto alla parola. Se io cerco di astrarre una parola per individuarla, questa individuazione, questa determinazione, sarà sempre e necessariamente fatta di altre parole, che io sto ponendo in quel momento. Il pensiero da cui si può fare astrazione, e che si può ben dire non sia, non è già il pensiero che astrae e nega, ma un altro pensiero che, rispetto al pensiero astraente e negante, viene a trovarsi come un presupposto; perciò non pensiero, ma fatto, natura, realtà immediata, non avente nulla di quel valore che è proprietà del pensiero. Quando il pensiero si prenda come tale, nel suo valore, com’è possibile solo quando si consideri non dall’esterno, come pensiero diverso da quello che pensa, allora non c’è modo di negarlo, perché è quello appunto che dovrebbe negare, con un atto che sarebbe sempre la sua affermazione. Ecco, quindi, l’impossibilità della negazione del principio di non contraddizione. Qui lo ha espresso in modo molto preciso. § 7. Unità di essere e di non-essere, come svolgimento, spirito. Il divenire è la categoria della realtà universale, ma solo se questa realtà nella sua universalità s’intende come pensiero. Perché, secondo già abbiamo osservato, una realtà, che non sia pensiero, è perciò immediata, senza divenire; e quel divenire che a una tale realtà si può attribuire è l’essere del divenire, ossia il divenuto, astrattamente considerato, fuori del processo dello stesso divenire. Come dire che non c’è nulla al di fuori del divenire, che significa ancora che non c’è nulla fuori dal linguaggio, ché il linguaggio è divenire, cioè, è relazione. § 8. Risposta a chi neghi il concetto del divenire come atto dello spirito. Per superare il fatto, l’essere, l’immediato, ancora una volta, non c’è se non un modo: rientrare nel pensiero, rivolgersi all’atto in funzione del quale l’essere è, e il fatto è già in essere. Ci sta dicendo che per andare oltre il fatto non c’è altro da fare che pensare al fatto: pensando al fatto stiamo già pensando altri fatti: siamo già quindi nel divenire, in una relazione, nel mediato, e abbiamo dunque abbandonato l’immediato. Da qui la difficoltà singolare e insieme l’estrema facilità del concetto del divenire. Il quale, se si vuol fissare con quello stesso pensiero con cui si pensa l’essere, che è la categoria fatta per pensare tutto ciò che il pensiero oppone a se stesso (cioè tutto, tranne se stesso),… Posso opporre al pensiero tutto quello che mi pare, ma non posso opporre al pensiero il pensiero, perché non sarebbe altro che un altro pensiero; come dire che affermo ciò che sto negando. …è troppo chiaro che non potrà parere mai altro che un’idea confusa, e ogni sua esposizione un semplice esercizio verbalistico. Ma, quando si sia capito che tal concetto può essere pensato soltanto come pensiero del pensiero, come quell’autocoscienza, che salta fuori vigorosa anche dall’avversario e ironista della categoria del divenire, allora nulla più evidente di quell’essere che non è e di quel non-essere che è, in cui questa categoria consiste. Se l’avversario di Zenone poteva contentarsi di passeggiate per credere di opporre il più valido argomento contro la negazione del movimento, noi possiamo contentarci anche di molto meno contro chi ci contesti la realtà del nostro concetto del divenire; basta lasciarlo parlare (esprimersi, affermarsi). Se qualcuno dovesse opporsi a questo concetto del divenire, cioè del fatto che l’atto di parola non è altro che relazione, ci dice Gentile, basta lasciarlo parlare; parlando non farà niente altro che porre in atto delle relazioni, una dopo l’altra, senza fine. § 10. Conciliazione dell’antitesi. Il divenire, con cui si ragguaglia la verità, che è il vero divenire, non quello del molteplice /…/che è quel divenire apparente e reale essere, che abbiamo visto. Il divenire è soltanto quell’unità; e dell’unità che è vera unità e non elemento della molteplicità e partecipe quindi dell’essenza dei molteplici. E l’unità è eterna. È eterna sempre nell’accezione che avevamo indicata, cioè, è eterna in quanto è lei che determina il tempo, che lo stabilisce e lo definisce. La verità pertanto, chi intenda a rigore il significato dei termini, è assoluto eterno valore appunto perché divenire; né risplende infatti mai sull’orizzonte, che è suo, della coscienza, senza sottrarsi nell’atto stesso del suo sorgere al flusso del tempo, e sublimarsi nell’idea che in sé accoglie e risolve ogni tempo. Come vi dicevo, nel momento in cui si parla, il tempo si, si produce nel momento in cui si parla; del tempo non si produce altro che come simultaneità, Gentile direbbe, di realtà e idea, la realtà del concetto, direbbe invece Hegel. Direi io, invece, la simultaneità del pensiero pensante e del pensiero pensato. Siamo al Capitolo V. Il valore come libertà. § 1. Il principio originario o trascendentale dell’autocoscienza, e la distinzione. Il valore della verità immanente nel conoscere in atto è insieme suprema necessità e suprema libertà, poiché, come quell’unità ch’esso e di realtà e di idea, ha due facce distinte. E da nessuna di queste può il nostro sguardo distrarsi senza perdere di vista quella stessa faccia che rimarrebbe da pensare. Il pensiero non conosce, se non realizzando se stesso; e quel che conosce non è altro che questa stessa realtà che realizza: non guardata nell’astrattezza, si torni ad avvertire, onde la vecchia filosofia intellettualistica opponeva l’idea, termine del conoscere, alla realtà limite dell’idea, in cui il pensiero, ibera attività creatrice di idee, urta mediante l‘esperienza. Questo è essenziale. Dice che il pensiero non conosce se non realizzando se stesso, cioè, pensando realizza se stesso e realizzandosi conosce in quanto costruisce ciò stesso che sta pensando; ciò che sta pensando appare nel momento in cui si pensa e pensando diventa quella cosa che noi chiamiamo realtà. …l’essere della realtà che non è, ma diviene idea (di se stessa: autocoscienza), è l’essere che nega la propria immediatezza: un essere autonegativo, la cui realtà è nell’autocoscienza di cui è principio, ma da cui l’autocoscienza stessa non può prescindere senza divenire anche lei quell’essere immediato, che è il suo opposto. Sta continuando a ripetere il funzionamento del linguaggio, e cioè: dicendo qualche cosa, questo qualche cosa dilegua in altro; questo altro poi ci appare come la condizione a posteriori di ciò che stiamo dicendo, per cui dico qualche cosa a condizione che questo qualche cosa che dico non sia quello che dico, ma entrambe le cose sono simultanee e non può darsi l’una senza l’altra; come diceva prima, se tolgo lo sguardo dall’una, scompare anche l’altra. § 4. Unità e assolutezza dello spirito libero. La libertà, dunque, non è concepibile se non come attributo dello spirito assolutamente incondizionato, qual è lo spirito inteso come autoctisi, ossia in funzione della sola realtà risultante dalla sua attività. Qui c’è tutto Gentile. La libertà non è altro che l’autoctisi, cioè l’autoprodursi del pensiero, quindi, del linguaggio. L’autoctisi, cioè la sola realtà risultante dalla sua attività, dall’attività di pensiero, dall’attività di parola. Lo spirito infatti non conosce altra realtà fuori di sé: non già che quello spirito che ci si rappresenta comunemente in modo puramente intellettualistico, e quindi in mezzo ad altri reali, anzi di fronte a tutti i reali, debba chiudersi in sé e rinunziare asceticamente al mondo. Ma egli, in quanto non rinunzia a nulla, se tutto quello che abbraccia lo abbraccia davvero, come può soltanto non presumendolo, anzi facendolo essere con l’energia del proprio atto, lo ha tutto in sé; e perciò esso è unità, moltiplicabile bensì interiormente, ma persistendo sempre come unità, e non moltiplicandosi punto esteriormente quasi per una sorta di scissiparità. Cioè: l’atto di parola è il tutto, non deve nulla ad altro, non attende nulla dall’altro, non ha presupposti, ma è tutto in sé. Come diceva qui Gentile, non rinunzia a nulla, non è che si rinunci a un qualche cosa, a una realtà che è presupposta all’atto di parola; no, perché quella realtà presupposta all’atto di parola è già nell’atto di parola. § 5. Elemento negativo ed elemento positivo della libertà. Orbene, lo spirito che nulla presuppone e che pone se stesso, nell’atto di porre, come soggetto, è assoluta libertà. Qui precisa quello che ha detto prima, cioè, l’assoluta libertà non è altro che autoctisi, l’autoprodursi del pensiero, della parola. Per illustrare meglio questo concetto, Gentile scrive al § 6. La libertà attributo del pensiero trascendentale dell’atto spirituale. E chi ha innanzi, p. es., la Metafisica di Aristotele, ma non la intende, non la fa del suo, non vede in essa se stesso, non l’ha innanzi come valore spirituale. Quello che si risolve nella personalità del soggetto, soltanto quello s’intende e si pregia. Il soggetto quindi, nella sua attualità, questa causa sui, in quanto causalità, questa radice più intima dell’autocoscienza, è libera: è la stessa libertà, intesa non come attributo statico d’una sostanza già in essere, ma come quella libertà che è conquista, e perciò valore dell’essere nel suo farsi quel che è. Cioè, atto di parola. § 7. Medesimezza della libertà col suo opposto. Ma la libertà del soggetto è un’astrazione, ove non s’immedesimi col suo opposto; poiché già la sua natura consiste nel suo immedesimarsi con questo. Il soggetto del conoscere si fa tale conoscendo:… È soltanto conoscendo, soltanto operando nell’atto che qualcosa si conosce e il soggetto si produce. Il soggetto del conoscere si fa tale conoscendo: e in quanto conosce, non è soggetto si sé, ma soggetto oggettivatosi a se medesimo: realtà idealizzatasi. Come dire che il soggetto si oggettiva a se stesso, cioè si pone di fronte a se stesso. Questa realtà del soggetto, che pensa se stesso, è la realtà idealizzata, cioè la realtà in quanto idea. La libertà, pertanto, quando non sia una vuota parola accennante a un’astratta individualità, si attua nell’oggettivazione del soggetto, e si risolve perciò nell’oggetto, che, determinando il soggetto, ne limita la libertà e gli si oppone, infatti, come il suo contrario. Ed ecco la necessità del δεσμός (legame) platonico, in cui pare venga meno la libertà, mentre essa tocca, si può dire, il solido terreno del reale: la necessità del vero, come determinazione, e cioè la posizione reale della libertà del soggetto. La necessità è la posizione dell’oggetto come realtà del soggetto, di fronte al soggetto stesso. Questa è la necessità: il soggetto che ha di fronte a sé il suo opposto, l’oggetto, oggetto che però si fa di nuovo soggetto. È esattamente il movimento dialettico di cui parlava Hegel, tra l’in sé e il per sé: il per sé che torna sull’in sé, per cui l’in sé, per usare i termini di Gentile, diventa soggetto. Quindi la suprema necessità del soggetto in quanto oggetto a se stesso, sub specie obiecti, a riscontro della suprema libertà del medesimo sub specie subiecti. E veramente la sola necessità che sia, ben più ferrata di quella che il poeta attribuisce alla morte, è questa che compie e realizza la suprema e sola libertà che speculativamente sia concepibile. La libertà del soggetto e dell’oggetto di essere lo stesso, una libertà che è necessità. Come dire che è il linguaggio che ha questa prerogativa, di essere necessità e libertà. È necessità in quanto non c’è uscita dal linguaggio, ed è libertà in quanto si autoproduce continuamente, senza alcun presupposto. § 9. Scelta ed errore. L’errore è non-essere della cognizione, ma non-essere, dicevano gli antichi, in quanto privazione: non-essere di quel che deve essere /…/ Così l’errore non è ignoranza, semplice lacuna esistente di fatto nel sapere; a ignoranza che si dà per sapere, ossia propriamente, il non-essere del sapere in luogo del suo essere: un sapere che non è sapere. Il sapere è nel divenire. L’errore consiste nel non tenere conto che il sapere è divenire. /…/ la verità, come atto di libertà, è sempre un distinguersi dall’errore e un trionfare di questo suo contrario; è un sapere che si conquista uscendo dal non sapere… Che cosa non so? Non so che questo sapere è un divenire, cioè è una relazione in atto. § 10. Immanenza dell’errore nella verità. Sicché una cognizione che non fosse suscettibile d’ulteriore perfezionamento, ed escludesse la possibilità d’imparare altro, tutta essere e niente non-essere, perderebbe con ciò ogni libertà, ogni valore, ogni verità, né sarebbe più cognizione o soggetto, ma puro oggetto, presupposto intellettualistico del soggetto. Se il sapere non è possibile di perfezionamento, cioè esclude la possibilità di imparare altro, evidentemente questo sapere si pone come un tutto già fissato, stabile, cioè come un presupposto intellettualistico. L’errore, dunque, è immanente alla verità come il non-essere dell’essere che diventa. C’è un essere che diventa, che è sempre in atto, sempre in fieri, ed è questo ciò con cui ha a che fare la verità. E come la verità concepita come logo trascendente è un assurdo, non meno assurdo sarebbe un errore in sé, che non fosse come errore conosciuto. Anche la conoscenza dell’errore infatti è verità; è quasi la dimostrazione ad oculus (sotto gli occhi) della immanenza dell’errore alla verità. si può dire che il concetto dell’errore trascendente, - ossia dell’errore che sarebbe errore indipendentemente dal giudizio per cui è errore, - non sia se non un altro aspetto del concetto della verità trascendente /…/ § 12. Identità di verità ed errore nella loro astratta opposizione. La verità senza errore è infatti un pensiero immediato: cioè, a dir proprio, una mera realtà, oggetto di pensiero anzi che pensiero. E poiché la verità è del sapere mediato, quella verità che è immediata, è negazione della verità, e quindi errore. È sempre interessante tenere conto che tutte queste considerazioni di Gentile, logicamente precise, sono sempre e inesorabilmente sillogismi formali, cioè, infondati. Ma andiamo avanti. Capitolo VI. Unità dei valori. § 1. Carattere pratico della logica. Il nostro modo di dedurre il valore della verità spettante al conoscere dal concetto della libertà genera un problema, che non si può trascurare senza lasciare nell’ombra uno degli aspetti essenziali dell’atto del conoscere come puro conoscere il problema è: se lo stesso conoscere è libero, e non è l’oggetto d’un atto di libertà, anzi il suo valore consiste nella sua libertà, è questo valore teoretico o pratico? Deve dirsi verità, o bene? Questo è un problema che si è posto e che adesso articola. § 4. La realtà spirituale come bene. Il bene, infatti, o valore morale, non è altro che la realtà spirituale nella sua idealità, come produzione di se stessa, o libertà. Ecco, ha risposto alla sua domanda. Cioè, non è altro che la realtà che produce se stessa. Questa è la sua libertà e questo il suo bene. La verità di tutta la nostra ricerca è uscita parimenti splendida di questa universalità, di questa libertà, che è l’essenza dello spirito come autoctisi, realtà che pone se stessa idealizzandosi. Che è ciò che s’intende per volontà speculativamente concepita, sottratta alla empiriche rappresentazioni fantastiche, in cui essa può apparirci quasi incorporata;… § 5. Unità dei distinti (spirito teoretico e pratico). Qui si riferisce alla distinzione tra spirito teoretico e spirito pratico. Distinguere, dunque, sta bene: ma a condizione che oltre a distinguere si unifichi. Si parli pure di verità che è sulla nostra testa; ma a patto di riconoscere per vera anche l’idea che ne abbiamo nella testa. E così oppongasi pure il fare al conoscere, ma a patto di sentire che è fare in quanto conoscere, e conoscere in quanto fare, questo stesso opporre l’azione alla cognizione. La distinzione insomma, sempre, riguarda la realtà, che è oggetto del pensiero (anche se chiamiamo soggetto); e l’unità invece la realtà che è soggetto, o autocoscienza, che è realtà idealizzata, fuori della quale l’altra è un’astrazione. § 6. La molteplicità. Ora noi possiamo mirare tanto all’unità quanto alla distinzione, purché badiamo a non lasciarci sfuggire né la distinzione che germoglia dall’unità, né l’unità che dà vita alla distinzione. La quale non è soltanto quella di conoscere e volere, ma una distinzione assai più ricca, e che si deve concepire piuttosto come infinita. È qui che Gentile si trova di fronte alla sua questione, che non coglie esattamente, riferendosi alla distinzione tra pensiero pensante e pensiero pensato, perché lui stesso ci dice che non può darsi l’uno senza l’altro, eppure li separa. Ma questa separazione non può darsi: sono sì distinti, ma non separati. § 9. La monotriade dello spirito. La monotriade sarebbe la trinità. Ponendo mente a questa proposizione, che la molteplicità come tale è dell’oggetto astratto… Occorre ricordare che la molteplicità fa parte dell’oggetto pensato come astratto, perché se l’oggetto è pensato come concreto allora è l’unità. /…/ come l’unità è del soggetto, che risolve in sé ogni molteplicità oggettiva, ove il soggetto si consideri nell’atto concreto in cui si oggettiva; è chiaro che, quando si afferma la necessità della distinzione per l’unità, che è la necessità da noi illustrata nella dimostrazione della dialettica del valore, bisogna distinguere, ci si perdoni il bisticcio, tra distinzione e distinzione. C’è una distinzione che ci dà il molteplice, in numero, in cui l’unità vien meno, perché, secondo che s’è già osservato, quell’elemento stesso che si ripete nella molteplicità, è qualitativamente molteplice. E c’è un’altra distinzione che ci dà appunto l’unità nel suo interno svolgimento i cui momenti sono tre, se astrattamente presi (ma non più di tre): e se intesi nella loro concretezza, non sono né tre, né due, ma costituiscono una monotriade. Cioè: questi tre momenti in realtà sono il concreto. Questi tre momenti sono in fondo l’in sé, il per sé e il concetto di Hegel. Questi momenti non possono essere che tre: la relazione che esiste fra due comporta che la relazione sia il terzo, ma tutti questi tre elementi costituiscono il concreto, e quindi l’unità. Capitolo VII. Verità astratta e verità concreta. Qui incomincia a parlare dell’astratto e anticipa alcune cose che riprenderà tra breve a proposito del logo dell’astratto. § 5 Soggetto tra soggetti, e soggetto come puro conoscere. E il soggetto nuovo è tutta l’esperienza come costituirsi del soggetto: quello che abbiamo ripetutamente designato col termine di puro conoscere. Il puro conoscere non è nient’altro che l’atto del conoscere, in cui il soggetto costruisce se stesso e costruisce ciò che pensa. § 6. Il puro conoscere. Il conoscere puro insomma è quello che non ha fuori di sé il conosciuto, ma il cui conosciuto è l’atto stesso del conoscere: soggetto che è soggetto in quanto oggetto a se medesimo. Qui c’è la sintesi di tutto il suo pensiero: il conoscere puro è quello che non ha fuori di sé il conosciuto – non c’è un presupposto, non c’è qualcosa dal di fuori – ma il cui conosciuto è l’atto stesso del conoscere. Come dire che questo solo possiamo conoscere: il fatto che stiamo conoscendo, e conoscendo di fatto ci troviamo nell’atto di parola, nell’atto di pensiero, che costruisce sé costruendo quindi una realtà. § 7. Dualità immanente nel soggetto. Il soggetto, insomma, del puro conoscere è soggetto ed oggetto in uno: è quel medesimo che il soggetto era all’empirismo e alla metafisica in quanto esso connettevasi coll’oggetto e insieme con questo formava tutta la realtà… Quindi, il soggetto è soggetto e oggetto in uno. In conclusione, una somma, accozzamento di termini irrelativi, è inconcepibile, poiché il pensiero è essenzialmente relazione. E qui la dice tutta. Il pensiero è relazione, la parola, il linguaggio è relazione, non è altro che questo. § 8. L’unità della dualità. L’unità pertanto, da cui bisogna rifarsi e non prescindere mai, non esclude, anzi include la dualità: dualità non intesa essa stessa astrattamente, ma concepita nella dialettica della sua vita concreta. E in questa dualità, in cui l’unità si pone, ecco risorgere, come ragion d’essere dell’altro termine, insieme col quale esso realizza l’unità del conoscere, l’oggetto: l’oggetto, assoluto opposto del soggetto, a cui pure è identico. Assoluto opposto; ma non meno identico che opposto. Questo punto conviene bene fermare, se si vuol riconoscere l’importanza di tutte le ricerche filosofiche intorno alla logica, che non raggiunsero, in passato, il punto di vista del puro conoscere. Quindi, ciò che conviene tenere bene a mente, sta dicendo, è che il soggetto e l’oggetto sono opposti eppure identici. Ora, questo potrebbe portarci a una considerazione interessante, che p. es. il vero e il falso sono opposti eppure identici. L’oggetto immediatamente è, verso il soggetto di cui è oggetto, opposto, e nient’altro che opposto. Io che penso, il teorema di Pitagora, penso immediatamente questo teorema, ma non penso me pensante il teorema di Pitagora: nell’oggetto non c’è altro che l’oggetto, e non ci sono io. Narciso che s’innamora della sua immagine, non vede se stesso amante nell’immagine amata. Questa la posizione immediata dell’oggetto di fronte al soggetto. Il soggetto immagina l’oggetto come qualcosa che non gli appartiene, ma come altro da sé. Ma se questa posizione esclude affatto l’oggetto dalla sfera del soggetto, essa, in quanto immediata, non è posizione di pensiero, perché pensiero è negazione d’ogni immediatezza. Ce l’ha detto continuamente: il pensiero non è altro che mediazione. E quindi la posizione dell’oggetto di contro al soggetto è opposizione reale nel pensiero in quanto esce dalla propria immediatezza, ed è essa stessa contenuto di pensiero, atto di coscienza. Cioè l’opposizione è reale nel pensiero in quanto coscienza dell’opposizione. Questa opposizione è reale in quanto so che c’è questa opposizione, che cioè io non sono quell’altra cosa. Giacché se io pensassi il teorema di Pitagora, senza avere coscienza del pensiero onde lo penso, potrei, tutt’al più, dir di avere innanzi a me questo teorema, ut pictura in tabula (tr. come un’immagine), non di vederlo e pensarlo. Ora, questa coscienza importa che, oltre il soggetto che si oppone all’oggetto e a cui è opposto l’oggetto, c’è un soggetto a cui è presente sì l’oggetto e sì il soggetto nella loro opposizione: un soggetto, nel quale quell’opposizione vien meno. Come dire: ci sono soggetto e oggetto, ma perché ci siano questo soggetto e questo oggetto occorre che ci sia il soggetto che è la sintesi della loro opposizione, e cioè che si accorge della loro opposizione. Se dico “io non sono il teorema di Pitagora”, è perché mi rendo conto che c’è questa opposizione tra me e il teorema di Pitagora, ma nel fatto di rendermene conto, cioè di esserne consapevole, io mi trovo in una unità. Diremo, dunque, che l’opposizione di soggetto e oggetto sia, a sua volta, oggetto di un ulteriore e più profondo soggetto? In questo modo è evidente che si rinnoverebbe quell’opposizione, che nella sua immediatezza sarebbe ancora al di qua del pensiero, e richiederebbe tuttavia l’intervento del pensiero; e quand’anche per questa via si volesse procedere all’infinito, come pur qualcuno ha pensato, non si giungerebbe mai ad avere quel pensiero, in cui soltanto è possibile l’opposizione reale. Qui incomincia a chiarire quale sarà la soluzione del problema, e cioè che, sì, io mi rendo conto di non essere il teorema di Pitagora, ma posso affermare questo in quanto in questo momento, questo oggetto che è il teorema di Pitagora, fa parte del soggetto, è compreso nel soggetto. Il difetto di questo modo di concepire l’autocoscienza, o unità della coscienza di soggetto e oggetto, è nel presupporre e staccare la dualità dell’opposizione dall’unità di quella medesimezza, in cui l’opposizione si libera dalla propria immediatezza. Se noi diciamo che la pura opposizione di oggetto e soggetto ci dà la pictura in tabula, e non ci dà il pensiero, non vogliamo dire che infatti ci sia già la pictura in tabula e debba tuttavia venire l’uomo, il pittore, a contemplarla. Il vero è il contrario: la pittura suppone già il pittore: e l’opposizione c’è, in quanto attraverso la stessa opposizione si attua l’energia dell’unità. Nell’atto che penso il teorema di Pitagora, io non ho bensì altro dinanzi a me se non questo oggetto del mio pensiero; ma l’ho come oggetto del mio pensiero, cioè come pensiero mio, che s’annullerebbe appena venisse meno il mio pensiero; quel pensiero appunto con cui, pensando questo teorema, lo distinguo da me, e pongo perciò pure un me, soggetto, di contro all’oggetto. Vi ho letto questo lungo § perché qui, in pratica, è concentrato e condensato tutto il pensiero di Gentile. Dice che nell’atto in cui penso il teorema di Pitagora non ho dinanzi a me questo oggetto in quanto tale, ma ho questo oggetto in quanto oggetto del mio pensiero, come pensiero mio. L’opposizione dunque c’è come identità. Il soggetto che pone sé e pone il suo opposto, non si differenzia in modo da smarrire nella dualità il suo essere unico, anzi allora soltanto, come unico, lo realizza, quando lo distingue attraverso la dualità dell’opposizione. Qui occorrerebbe riflettere bene, perché si tratta della cosa essenziale, non soltanto nel pensiero di Gentile ma direi in generale, e cioè tenere conto che ciò a cui mi riferisco è, sì, oggetto ma oggetto del mio pensiero. Sta tutta qui la questione: è oggetto ma in quanto oggetto del mio pensiero, non è oggetto per sé stante. Oggetto del mio pensiero vuol dire che è questo oggetto di cui parlo in quanto lo sto pensando, in quanto è mio pensiero. Se fosse oggetto per sé, sarebbe la condizione del mio pensiero; questo oggetto sarebbe per sé immediato, sarebbe irrelato, che abbiamo visto prima che non è possibile. Dicendo che questo oggetto è oggetto nel mio pensiero, sto dicendo che qualunque cosa con cui io abbia a che fare è qualcosa che procede dall’autoctisi, cioè dall’autoprodursi del mio pensiero. Il mio pensiero si autoproduce e, autoproducendosi, produce quell’oggetto che è nel mio pensiero; non potrebbe non essere nel pensiero che lo pensa. Ecco il perché della priorità in Gentile del pensiero pensante: perché è il pensiero pensante, nel momento in cui pensa, che produce se stesso e che, producendo se stesso, produce anche qualunque altra cosa. Affinché si attui la concretezza del pensiero, che è negazione dell’immediatezza di ogni posizione astratta, è necessario che l’astrattezza sia non solo negata ma anche affermata; a quel modo stesso che a mantenere acceso il fuoco che distrugge il combustibile, occorre prima di tutto ci sia sempre del combustibile, e poi che questo non sia sottratto alle fiamme, ma venga effettivamente bruciato. Occorre che l’astrattezza non sia solo negata ma che ci sia come affermata, e cioè che il pensiero pensato, non solo ci sia come negato, ma ci sia, ed è la condizione perché ci sia pensiero pensante. § 10. Posizione del problema della logica dell’astratto. La vera dialettica non è quella che nega l’oggetto, bensì quella che ha coscienza della sua astrattezza, e quindi della concretezza, da cui esso attinge i succhi della sua eterna vitalità. Cioè, sa che qualcosa è astratto perché c’è un concreto da cui è stato astratto. E se dialettica diciamo la logica del concreto, ossia del puro conoscere, unità del soggetto e dell’oggetto, oltre la dialettica bisogna pure ammettere, grado alla stessa dialettica, una logica dell’astratto, o del pensiero in quanto oggetto, nel momento dell’opposizione. Senza questo astratto non è attuabile l’unità in cui il concreto risiede. Qui ha risolto il suo problema, ma sembra che non se ne accorga. Dice bisogna pure ammettere /…/ una logica dell’astratto, o del pensiero in quanto oggetto, appunto il pensiero pensato. Il logo della logica è il puro conoscere, in cui l’oggetto è lo stesso soggetto, oggetto a se stesso. Il logo dunque è pure l’oggetto del soggetto; ma in quanto questo oggetto è il soggetto che si fa oggetto a se stesso, puro conoscere. Questo oggetto non è altro, in realtà, che il soggetto che attraverso l’autocoscienza sa di essere soggetto, ma sa di essere soggetto in quanto si considera soggetto e, considerandosi come soggetto, si pone come un oggetto, un oggetto del pensiero. Capitolo VIII. Forme storiche principali del logo astratto. È un percorso storico che fa Gentile intorno al modo con cui la filosofia greca ha affrontato la questione del logo astratto. È una questione che non interessa direttamente ciò che stiamo facendo e, quindi, leggeremo alcune cose. Naturalmente, incomincia con Parmenide. § 1. Il logo di Parmenide. Il fondatore, si può dire, della logica dell’astratto, quegli che primo cominciò a intendere in tutto il suo rigore il concetto del logo quale presupposto del pensiero, è Parmenide. Il quale, riducendo alla sua coerenza la ricerca della scuola ionica d’una sostanza assoluta, e quindi superando il dualismo pitagorico, concepì la realtà come essere. Essere, s’intende, naturale, immediato. Il quale non può mutare, perché il mutare importa non essere prima quel che si è dopo, e non essere dopo quel che si è prima: importa cioè un concetto della realtà come essere insieme e non-essere, laddove il reale è soltanto essere, e il non-essere non è. Similmente, esso è immobile. non essere dopo quel che si è prima: importa cioè un concetto della realtà come essere insieme e non-essere, laddove il reale è soltanto essere, e il non-essere non è. Similmente, esso è immobile. Quindi pure, non è nato, né morrà: è eterno. Non può essere in parte, e in parte no: è continuo. Uno, perché molteplicità importerebbe discontinuità. Né limitato da altro. Né quindi si oppone al pensiero, poiché se il pensiero è, non può essere altro che l’essere stesso. § 3. Il logo degli Atomisti. /…/ che l’essere parmenideo è travagliato soltanto da questa discordia intestina, tra sé indifferenziato (e quindi né diverso, né identico) e sé identico in quanto differenziato; laddove l’atomo di Democrito è combattuto e minato da dentro e da fuori. Da dentro, come l’Uno di Parmenide; e da fuori perché esso, a differenza di quell’Uno, si trova a dover affermare la propria unità e immediatezza o identità astratta anche contro gli altri Uni, che fan ressa attorno a lui e dai quali bisogna che egli, per essere, si distingua. E distinguersi è differenziarsi dagli altri, anche dentro di sé. Perché se A è A non essendo B (negando, escludendo da sé B), A non è soltanto A; ma è A e non-B. E poiché oltre B, c’è B, B, B, e insomma infiniti B, A non può essere se stesso, senza contenere in sé infiniti rapporti (di esclusione reciproca) con gli infiniti B, concorrenti nel sistema a cui A appartiene. E in conclusione, se l’identico essere di Parmenide è costretto, almeno una volta, a contraddirsi, differenziandosi, l’essere egualmente identico di Democrito è costretto a differenziarsi e a negare se stesso, o la propria identità, infinite volte. Questa è l’obiezione di Gentile a Parmenide e a Democrito. § 4. Dissoluzione del logo degli Atomisti. Si potrebbe dire che per opera di Socrate alla natura sottentri il pensiero. E poiché il pensiero è dell’uomo, e la natura è di Dio, fu detto che con Socrate la filosofia sia scesa di cielo in terra. Ma anche maggiore è la lode tributatagli da Aristotele, dove afferma che due cose a buon diritto possono attribuirsi a Socrate, l’induzione e la definizione, che risguardano il principio della scienza. Perché questa induzione è il pensiero che ha coscienza di sé come mediazione, costruzione, critica delle sensazioni o delle cognizioni che ne provengono, tutte particolari come le sensazioni, e senza necessità, per giungere a un essere la cui conoscenza sarà risultato d’un processo razionale; e non sarà poi né anch’essa un risultato immobile in cui precipiti il lavoro induttivo, e la mente ristia: l’universale e necessario in cui si posa la mente è όρισμός, giudizio, ragguaglio di termine con termine di pensiero. Ragguaglio che è ancora mediazione, relazione, quello che appunto, ma indebitamente, introduceva lo stesso Parmenide nel suo essere, dicendolo identico. § 5. Il logo di Socrate. Il concetto è realizzato dalla definizione e la definizione non è più l’immediato essere astratto, che Protagora aveva già cercato di superare; ma è già rapporto tra soggetto definito e predicato onde si definisce. Gentile coglie come già nella filosofia antica il problema era vissuto fortemente e si tentavano delle soluzioni. Naturalmente, la soluzione non è arrivata perché occorreva Hegel per la sintesi, per l’Aufhebung, ma si vedevano due elementi opposti e quasi inscindibili, pur tuttavia non riuscendo a trarne una sintesi. § 7. Il logo di Platone. Se non che, non superando il concetto dell’essere, la stessa forma sillogistica, mediata rispetto alla definizione, come questa è mediata rispetto all’astratto essere naturale, non può se non ribadire l’immediatezza propria dell’essere, e fissare, in forma intelligibile o ideale, una nuova natura, oggetto del pensiero. Giacché il sillogismo aristotelico non è processo conoscitivo, ma sistema dell’oggetto del conoscere; quindi, se è unità della diade, non si può pensare né come unità che si dualizzi, né come dualità che si unizzi. Non c’è la mediazione, ma il mediato: il quale, senza l’atto o processo della mediazione, è, nella sua stessa triadica complessità, un’immediatezza: un che di naturale, che il pensiero conoscente non può che presupporre. Ma come potrà conoscerlo? Anche Aristotele si è avvicinato alla questione: ha posto la questione del tre all’interno del sillogismo, ma, come dicevo, non ne ha colta l’unità; per questo occorreva attendere Hegel. § 10. Il logo cristiano ne’ suoi dommi fondamentali. Gentile dice che a un certo punto non si pone più la questione dell’essere e del non-essere, ma dell’uomo. Questo con il cristianesimo. Il termine ambiguo è l’uomo, il centro di tutto il Cristianesimo, che gli stende al di sotto tutta la natura e gli colloca al di sopra tutto il divino. L’uomo, termine della mediazione in cui consiste la monotriade, è l’uomo redento. L’uomo invece che è natura, peccato originale, privo, in se stesso, del principio della propria salvazione, non è l’uomo redento, ma da redimere. L’uomo insomma è peccato originale e grazia, in quanto ora è natura e ora è spirito. Questa è la dualità che Gentile coglie nel cristianesimo: dualità fra l’uomo da redimere e l’uomo redento. Ovviamente, questo nella religione cristiana non può costituire una sintesi: l’uomo redento non potrà mai essere l’uomo da redimere, e viceversa. Come viene redento? Viene redento nel cristianesimo attraverso la grazia. § 12. Insolubilità del problema della grazia. Problema insolubile, questo della grazia, che riproduce nel centro stesso del nuovo spirito, quello che abbiamo colto alla radice del pensiero greco: nel concetto dell’identità (ταύτόν) parmenidea. Insolubile, perché Gesù al cristiano si presenta bensì come salvatore, ma in quanto non è egli uomo che si fa Dio, anzi Dio che si fa uomo. Ossia, la mediazione che esso opera, suppone il dissidio e l’opposizione; e l’uomo come uomo (non pure quella natura che è oggetto allo spirito, ma questo spirito stesso in quanto si formi da sé, come libertà) è l’opposto di Dio; e ha bisogno di un sussidio estrinseco per riconciliarsi con lui. Ecco, quindi, l’impossibilità dell’Aufhebung nel cristianesimo, cioè dell’integrazione. § 15. La logica trascendentale, e la sua critica. L’altra logica è quella della sintesi a priori, che va da Kant ad Hegel: la logica trascendentale, che si mette sulla via regia dello spiritualismo, risolvendo l’astrattezza del logo, poiché immedesima l’essere col pensiero, e capovolge finalmente la posizione parmenidea: com’era possibile solo negando ogni presupposto del pensiero. Questa è la prima cosa che per intendere la questione occorre farsi per Gentile, cioè, negando ogni presupposto del pensiero il pensiero non ha presupposti. Questione, tuttavia, ancora molto ben presente e anche ardua da superare. Giacché se il pensiero, ridotto all’essere, come voleva Parmenide, inchioda tutto a un’immobile identità, che non riesce ad essere, perché impensabile, nemmeno identità, l’essere invece, identificato col pensiero, non cade in una identità indifferenziata, ma partecipa alla vita interna della realtà dialettica, nel cui seno conserva la propria obbiettività di essere immediato in quanto si media, e risolve eternamente la propria immediatezza. E qui siamo in pieno Hegel, naturalmente. La Parte Seconda è La logica dell’astratto, di cui ci occuperemo nel prossimo incontro.