INDIETRO

 

 

25-11-2015

 

Il testo che incominceremo a considerare questa sera è “La voce e il fenomeno” di Derrida, il cui sottotitolo dice: Introduzione al problema del segno nella fenomenologia di Husserl, è un libro del 1968. Ci sono alcune cose che dice Derrida che possono interessare riguardo alla questione del segno in particolare, prendendo le mosse dalla fenomenologia di Husserl, e cioè dal tentativo di Husserl di arrivare, come diceva lui, alle cose stesse, quindi di ottenere una percezione immediata dell’oggetto senza intermediari, senza elementi di disturbo. Ovviamente questa operazione non gli riesce ma questo non gli ha impedito di provarci comunque. C’è una prefazione di Sini dalla quale vi leggerò un piccolo brano che però è significativo. Sini: Interrogare, come fa Derrida, il concetto fenomenologico di segno significa mostrare in modo stringente e ineludibile che ogni presenza a sé è in realtà rimando ad altro. (Tu Simona in questo momento sei presente a me, lui dice, questa presenza a me in questo momento rimanda ad altro necessariamente e questo già creerà un problema, che lo stesso Husserl rileva, all’idea di avere invece una percezione immediata dell’oggetto, perché se io ho la percezione di qualche cosa ma questa percezione rimanda immediatamente ad altro già non è più immediata) comunque la presenza venga intesa, come intuizione introspettiva del proprio sé e della propria esistenza indubitabile oppure come presenza percettiva del fenomeno “mondo” ed i suoi oggetti di apprensione così detta immediata (cioè in qualunque modo si voglia considerare la presenza a sé della cosa, in ogni caso questa presenza a sé rinvia ad altro, che è poi la questione del segno) Ciò equivale a svelare il carattere illusorio di ogni intuizione piena e originaria (ricordate la questione, in quel caso era Heidegger che parlava di Husserl, del significato di qualche cosa come il riempimento di qualche cosa, riempimento tramite la visione, c’è la rappresentazione sarebbe vuota, ma se “io lo vedo” questo vedere riempie la rappresentazione e la rende vera) di ogni supposta evidenza ma negare il nous, l’intuizione interna o spirituale (l’atto percettivo, l’intuizione interna) e la aisthesis quindi negare il nous e la aisthesis significa sottrarre ogni base al sapere sia esso logico o empirico cioè minare la stessa condizione di possibilità della scienza, effrangere il reale, come dice espressamente Derrida, è precipitarlo con l’immaginario in un vortice irresolubile aporetico (aporetico vuol dire che non ha soluzione) a questo punto il luogo del sapere e dei suoi oggetti si insinua infatti il segno e il suo enigmatico rimando che inscrive nel cuore dell’originario la differenza incolmabile e incancellabile, una traccia sempre ricomposta e mai cancellata (qui si riferisce al segno di De Saussure della differenza tra significante e significato, quindi diceva che se io nego l’intuizione interna cioè la capacità di intuire immediatamente l’oggetto e nego anche la aisthesis cioè la percezione immediata di qualche cosa, quindi nego tanto la percezione immediata quanto l’intuizione immediata, io mi nego la possibilità di conoscere alcunché, nego la possibilità stessa della scienza, di tutto. Adesso vediamo cosa ci racconta qui Derrida. Dice intanto che Husserl distingue, qui prende in considerazione soprattutto “Le ricerche logiche” uno dei suoi testi più famosi oltre a “Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica”) Dunque la prima delle Ricerche si apre con un capitolo consacrato alle distinzioni essenziali (qui è Derrida che sta parlando di Husserl) che dirigono rigorosamente tutte le analisi ulteriori e la coerenza di questo capitolo deve tutto a una distinzione proposta già dal I° paragrafo, la parola “segno” “laiche” avrebbe un doppio senso, il segno “segno” (perché anche la parola “segno” è un segno)può significare espressione o indice (questa è la prima distinzione fondamentale che fa Husserl, adesso vedremo in che senso) A partire da quale interrogativo accoglieremo e leggeremo questa distinzione la cui importanza sembra così decisiva? Prima di proporre questa distinzione puramente fenomenologica tra i due sensi della parola “segno” o piuttosto prima di conoscerla, di rilevarla in ciò che può essere una semplice descrizione, Husserl procede ad una specie di riduzione fenomenologica ante litteram (Qui parla di “riduzione fenomenologica”, riduzione per Husserl significa ridurre la possibilità che ci siano, adesso lo dico in modo molto semplice, che ci siano elementi di disturbo nella percezione dell’oggetto, lui applica questa continua riduzione fino ad arrivare, almeno idealmente, all’oggetto stesso, cioè ridurre tutte le interferenze in atto) Mettere fuori gioco ogni sapere costituito (quindi ogni sapere costituito e precostituito deve essere messo in gioco nella percezione immediata dell’oggetto perché tutto ciò che io so dell’oggetto si aggiunge a questa cosa, ma non è più la semplice cosa, la semplice e immediata presenza, è un’altra cosa, è questa cosa più tutto il mio sapere) insiste (sempre Husserl) sulla necessaria assenza di presupposizioni, vengano esse dalla metafisica, dalla psicologia o dalle scienze della natura non importa, il punto di partenza del “factum” (in tedesco e significa “fatto”) della lingua non è una presupposizione, a condizione che si tenga presente la contingenza dell’esempio, le analisi così condotte mantengono il loro senso, il loro valore epistemologico, il loro valore nella teoria della conoscenza esistono o no delle lingue degli esseri come gli uomini che effettivamente le utilizzano o no, esistono realmente degli uomini o una natura o solamente nell’immaginazione nel mondo della possibilità (sta continuando a dire che le analisi condotte mantengono il loro senso, sono utilizzabili indipendentemente dal fatto che ci sia qualcuno che compie queste analisi, le analisi cioè per raggiungere, tenete sempre presente che l’obiettivo di Husserl è quello di cogliere la cosa stessa, “la cosa in sé” direbbe Kant) quindi la forma più generale della nostra domanda è così delineata: la necessità fenomenologica (la fenomenologia vuole studiare il fenomeno, il fenomeno è ciò che appare immediatamente, distingue fra fenomeno e noumeno, fenomeno è ciò che appare, il noumeno è il concetto) il rigore e la sottigliezza dell’analisi husserliana, l’esigenza delle quali essa risponde e che dobbiamo anzitutto riconoscere non nascondono tuttavia una presupposizione metafisica? (Qui Derrida incomincia a porre qualche obiezione, cioè l’idea di poter raggiungere la “cosa in sé”, si chiede Derrida, non nasconde anche questa una presupposizione metafisica? Quale? Che esista la “cosa in sé” per dirne una, cioè che sia, questa è una posizione metafisica) Non nascondono una aderenza dogmatica o speculativa che certamente più che trattenere la critica fenomenologica fuori di se stessa ad essere un residuo inavvertito di ingenuità costituirebbe piuttosto la fenomenologia nel suo di dentro, nel suo progetto critico e nel valore fondante le sue premesse? Precisamente la costituirebbe in ciò che essa riconoscerà presto come la sorgente e la garanzia di ogni valore, il principio dei principi cioè l’evidenza offerente originaria, il presente o la presenza del senso ad un’intuizione piena e originaria (questa sarebbe la presupposizione metafisica della fenomenologia, il fatto che se voglio raggiungere la cosa in sé devo presupporre che esista la cosa in sé) Nelle poche linee ora accennate la diffidenza riguardo alla presupposizione metafisica si presentava già come la condizione di un autentica teoria della conoscenza (cioè uno è diffidente perché la teoria della conoscenza è fondata sulla metafisica. Il progetto di Derrida è di costruire una teoria non metafisica) L’idea della conoscenza e della teoria della conoscenza non è in se stessa metafisica? Noi abbiamo tentato di seguire altrove (qui si riferisce a un altro suo scritto “La chiusura della fenomenologia e la fine della metafisica”) il movimento attraverso il quale Husserl criticando senza tregua la speculazione metafisica non aveva in mente in verità che la perversione e la degenerazione di ciò che egli continua a pensare e a voler restaurare come metafisica autentica o filosofia protè (filosofia prima, in greco cioè lui vuole costruire un’altra metafisica, Husserl, ma in realtà continua con la stessa metafisica senza rendersene conto, lui voleva giungere a una filosofia autentica, filosofia prima che era poi anche l’idea di Aristotele) Concludendo le sue meditazioni cartesiane Husserl oppone ancora la metafisica autentica, quelle che dovrà alla fenomenologia il suo compimento, alla metafisica nel senso abituale, i risultati che egli presenta sono allora egli dice “metafisici” se è vero che la conoscenza ultima dell’essere deve essere chiamata “metafisica” (insomma sta dicendo che Husserl distingueva tra metafisica autentica e filosofia prima, e metafisica comune, e allora l’idea di Husserl era quella di ritornare agli antichi ché solo loro avevano colto l’aspetto metafisico essenziale originario, ciò che ne è seguito è stata un abbandono del progetto inaugurale della metafisica, metafisica come scienza della conoscenza ultima delle cose, questa è la metafisica. Ultima delle cose cioè indagare l’ρχή e l’αἰτία, il principio e la causa delle cose. È ovvio a questo punto che tutto il lavoro di Husserl e poi anche ciò che dirà qui Derrida è fondato sulla questione della “presenza”, ciò che è immediatamente presente. Heidegger faceva queste sue considerazioni intorno al “tempo” ma anche qui in qualche modo ci entrerà) La forma ultima (questo è Derrida che parla) dell’idealità, quella nella quale in prima istanza si può anticipare o richiamare ogni ripetizione l’idealità dell’idealità è il presente vivente, la presenza a sé della vita trascendentale, la presenza è sempre stata e sarà sempre all’infinito la forma nella quale, lo si può dire apoditticamente, si riprodurrà la diversità infinita dei contenuti, l’opposizione inaugurale della metafisica tra forma e materia trova nell’idealità concreta del presente vivente la sua ultima e radicale giustificazione (ora qual è la forma ultima dell’idealità? L’ideale ovviamente non è il concreto, ma è l’idea di qualche cosa, lui dice che l’ideale, la forma ultima dell’idealità è il presente vivente, “la presenza a sé della vita trascendentale” cioè di quella vita che si basa non soltanto su ciò che è immediatamente presente, sull’immanente, ma sul trascendente, cioè sull’idea di ciò che è presente, sul concetto. La presenza è sempre stata e sarà sempre all’infinito, è ciò dalla quale si produrrà la diversità infinita dei contenuti. La presenza è ideale perché di fatto la presenza immediata di qualche cosa non è afferrabile in quanto tale, è una idealità, ma è da questa idealità che sarà poi possibile costruire la diversità dei contenuti, è perché io ho un’immagine ideale di questa cosa che poi posso distinguere le varie forme di questo pacchetto di varie marche di sigarette, perché c’è una idealità che trascende, appunto è trascendentale rispetto a questo pacchetto) Il valore di presenza (quindi pone la presenza come un valore) ultima istanza giuridica di tutto questo discorso (giuridica nel senso che dà legalità, legittimità a questo discorso) si modifica essa stessa senza perdersi ogni volta che si tratta della presenza di un oggetto qualsiasi alla coscienza, nell’evidenza chiara di una intuizione tutta piena o della presenza a sé nella coscienza, coscienza non volendo dire null’altro che la possibilità della presenza a sé del presente vivente (la coscienza dice lui non è nient’altro che l’avere coscienza della presenza che è presente in questo momento, questa è la coscienza per Husserl) Ogni volta che questo valore di presenza (questa presenza per Husserl è fondamentale perché se non ci fosse questa presenza immediata, questa possibilità della presenza immediata, non ci sarebbe la possibilità di avere accesso alla cosa stessa, quindi crollerebbe tutta la fenomenologia, crollerebbe come annotava prima Sini la possibilità stessa della conoscenza perché per conoscere io devo presumere, devo presupporre che l’oggetto della mia conoscenza sia, e questa è un’operazione metafisica) Ogni volta che questo valore di presenza sarà minacciato Husserl lo risveglierà (certo che lo deve risvegliare perché se no gli crolla tutto sotto i piedi) lo richiamerà, lo farà ritornare a se stesso nella forma del τέλος (del fine) cioè dell’idea in senso kantiano (l’idea in senso kantiano è l’idea che si abbia la cosa perché la cosa in sé non è raggiungibile, è soltanto il concetto, l’idea, ed è questa la rivoluzione copernicana di Kant, cioè posso conoscere soltanto se c’è un soggetto conoscente, come dire che, le cose esistono di per sé? Non lo sappiamo, perché alla cosa in sé non abbiamo accesso, abbiamo solo accesso all’idea di qualche cosa ma che cosa sia esattamente questo qualche cosa è un problema) Ancora non v’è idealità senza che un’idea in senso kantiano non sia all’opera aprendo la possibilità di indefinito, infinità di un processo prescritto in un’infinità di ripetizioni permesse (sta cominciando a dire che la possibilità che qualcosa si ripeta dipende dal fatto che c’è un’idea, ed è perché ho un’idea di questa cosa che posso ripetere questa cosa nel senso di paragonarla a qualcun’altra, perché per paragonarla devo poterla ripetere in quanto idea, e quindi per ripetere qualche cosa occorre che ci sia un’idea di questo qualche cosa, questa idea è trascendentale, è l’universale, ho bisogno di un universale per potere riconoscerne i vari particolari di quell’universale, cioè ho bisogno di un’idea generale (appunto Platone) di un’idea generale di qualche cosa per potere distinguere poi i singoli aspetti di quella cosa) questa idealità è la forma stessa nella quale la presenza di un oggetto in generale può indefinitivamente essere ripetuta come la medesima (che è esattamente ciò che vi dicevo prima, occorre questa idea, questa idealità rispetto a questo oggetto perché questo oggetto possa essere ripetuto, quindi messo in confronto con altri, perché possa essere manipolato e conosciuto. Qui incominciamo a intendere, c’è tutto l’idealismo fenomenologico e cioè incominciamo a intendere che l’idea è ciò che consente la conoscenza, ma questa idea per la fenomenologia e per l’idealismo ancora di più non è dimostrabile, l’idea c’è, è qualche cosa che esiste e che è la condizione della conoscenza ma di per sé non è dimostrabile che ci sia questa idea, c’è e basta) Questa idealità è la forma stessa nella quale la presenza di un oggetto in generale può indefinitamente essere ripetuta come la medesima (ma non è la medesima nel senso che non è quella cosa lì, è “come se fosse” la medesima perché è un’idea) la non realtà della Bedeutung (qui lui distingue tra Bedeutung e Deutung, Bedeutung sarebbe letteralmente il significato, però Husserl lo utilizza in modo un po’ diverso, usa Bedeutung come il “voler dire”, invece “Deutung” è il “mostrare” qualcosa) La non realtà della Bedeutung, la non realtà dell’oggetto ideale, la non realtà dell’inclusione del senso o del noema nella coscienza (Husserl dirà che il noema non appartiene realmente alla coscienza) daranno dunque la garanzia che la presenza alla coscienza potrà indefinitivamente essere ripetuta (dice che la realtà della Bedeutung, cioè del voler dire non è qualcosa di reale, concreta) la non realtà dell’oggetto ideale, la non realtà dell’inclusione del senso o del noema nella coscienza (il fatto che il senso della cosa non è dentro la coscienza, non è un quid, una realtà che si può mettere o togliere, il noema è l’atto del conoscere, il fatto che tutte queste cose non siano reali, non appartengano alla realtà, dà la garanzia che la presenza alla conoscenza di una cosa ideale possa essere ripetuta indefinitivamente, perché se fosse reale, sarebbe una cosa concreta e ognuna di queste cose concrete è diversa da un’altra, solo un’idea può essere sempre la stessa, per questo non deve essere reale, se fosse reale allora questa idea non avrebbe più la possibilità di essere usata come trascendentale, come universale cioè come un’idea che può quindi ripetersi indefinitamente sempre la stessa, poi che questa idea si ripeta sempre la stessa questo è un altro discorso, ma Husserl non prende in considerazione questa eventualità) la sua purezza (adesso si riferisce all’idea) questa presenza non è presenza di nulla che esiste nel mondo essa è in correlazione con degli atti di ripetizione essi stessi ideali (neanche questi atti di ripetizione sono reali, è tutto ideale) se il linguaggio (Derrida) non sfugge mai all’analogia (l’analogia per dirtelo in modo spiccio è come un esempio: se questo conduce a quest’altro, allora anche quest’altro che è simile condurrà a qualcosa di simile) se il linguaggio non sfugge mai all’analogia (cioè se è sempre un qualche cosa riferito a qualche cos’altro) se è anche analogia (il linguaggio) da parte a parte esso deve giunto a questo punto, a questo vertice, assumere liberamente la sua propria distruzione e lanciare le metafore contro le metafore ciò è obbedire al più tradizionale degli imperativi, ricevuta la sua forma più espressa ma non più originale nelle Enneadi di Plotino e non ha mai cessato di essere fedelmente trasmesso /…/ è al prezzo di questa guerra del linguaggio contro lui stesso che saranno pensati il senso e il problema della sua origine, è chiaro vedere che questa guerra non è una guerra fra le tante, polemica per la possibilità del senso e del mondo essa ha il suo luogo in questa differenza di cui noi abbiamo visto che essa non può abitare il mondo, ma solamente il linguaggio (questa differenza non abita il mondo, questa differenza non è reale, ma è nel linguaggio, più avanti dirà in che cosa consiste) nella sua inquietudine trascendentale, in verità lungi dall’abitarlo solamente essa ne è anche l’origine e la dimora (il soggetto è sempre la differenza) il linguaggio ospita la differenza che ospita il linguaggio (se il linguaggio non sfugge mai all’analogia, se è attraversato dall’analogia, è attraversato sempre dal voler dire sempre un’altra cosa rispetto a quella che vorrebbe dire, esso deve, il linguaggio, giunto a questo punto assumere liberamente la sua funzione, quale? Quella di distruggere se stesso. Il linguaggio dicendosi non riesce a confermarsi, non riesce a stabilirsi, non riesce a fermarsi, non riesce a dire come stanno le cose, in questo senso se il linguaggio è quella cosa che dovrebbe dire le cose, se è questa cosa qua allora il linguaggio dicendosi si autodistrugge perché non compie il suo programma, il suo progetto, poi dice che questa non è una guerra fra le tante ma è la cosa più importante con cui ci si possa confrontare perché non è che la differenza abiti soltanto il linguaggio, la differenza fa il linguaggio, quindi la differenza abita il linguaggio ma al tempo stesso produce il linguaggio) La coscienza di sé (la percezione che tu hai dei tuoi pensieri in definitiva) non manifestandosi che nel suo rapporto con un oggetto di cui essa possa mantenere e ripetere la presenza non è mai perfettamente estranea o anteriore alla possibilità del linguaggio (lui dice che intanto la coscienza di sé dipende sempre da un oggetto, non dice quale, però dipende sempre dal rapporto con un oggetto di cui la coscienza può mantenere la presenza. Questo oggetto, attraverso l’idea, di cui si diceva prima, mantiene la presenza anche quando l’oggetto non c’è, dice, questa coscienza di sé non è mai perfettamente esteriore o anteriore alla possibilità del linguaggio, difficile dire che ci sia senza linguaggio) Husserl ha senza dubbio voluto mantenere, e noi lo vedremo, un piano originariamente silenzioso pre espressivo e vissuto (aveva anche le sue buone ragioni, perché se incominciava ad analizzare la questione del linguaggio a fondo si sarebbe accorto, come altri si sono accorti poi dopo di lui, Derrida è fra questi, proprio perché la percezione dell’oggetto non avviene senza linguaggio, l’idea della percezione pura, immediata dell’oggetto fallisce) ma appartenendo la possibilità di costituire degli oggetti ideali all’essenza della coscienza (la coscienza è fatta di questo, della possibilità di costruire oggetti ideali) ed essendo tali oggetti ideali dei prodotti storici che si manifestano soltanto grazie ad atti di creazione o di pensiero (storici nel senso che non sono eterni, dipendono dal momento) l’elemento della coscienza, l’elemento del linguaggio saranno sempre più difficili da distinguere (quindi qui Derrida incomincia a fare un’obiezione pesante a Husserl, l’elemento di coscienza che per Husserl è quella idea che deve essere pura, che deve mostrare esattamente com’è l’oggetto, se non si distingue dal linguaggio diventa un grossissimo problema, infatti poi questo problema Husserl lo affronterà nelle Ricerche Logiche ma senza risolverlo) Ora la loro inscindibilità (tra idea e linguaggio) non introdurrà forse la non presenza e la differenza la mediazione (introduce che cosa? la mediazione, il segno, il rinvio) nel cuore della presenza a sé? (questa presenza a sé sta dicendo Derrida, senza un segno, senza un rinvio, senza una mediazione quindi non è mai pura) questa difficoltà rimanda a una risposta, questa risposta si chiama la “voce” (Derrida ha fatto un lavoro notevole lungo la sua vita per giungere a una considerazione, e cioè alla affermazione del fono centrismo nel discorso occidentale, fonocentrismo vale a dire la priorità della voce sulla scrittura, infatti lui reintroduce la questione della scrittura facendone la condizione del dire, “scrittura” che poi vedremo lui la “archi traccia” ρχή nel senso di originario) Che la voce simuli la conservazione della presenza e che la storia del linguaggio parlato sia l’archivio di questa simulazione ciò ci impedisce fin d’ora di considerare la difficoltà alla quale risponde la voce nella fenomenologia husserliana come una difficoltà di sistema o una contraddizione che le sarebbe propria, ciò ci impedisce anche di descrivere questa simulazione di cui la struttura è infinitamente complessa come un’illusione, un fantasma o un’allucinazione, questi ultimi concetti rinviano invece alla simulazione del linguaggio come alla comune radice (sta dicendo che la voce è quella cosa che consente nella coscienza di riprodurre qualche cosa perché noi ci diciamo la parola mentalmente, e possiamo ridirci questa parola mentalmente all’infinito, sempre alla stessa maniera, quindi questo ci consente di riprodurre un oggetto all’infinito perché possiamo riprodurcelo mentalmente all’infinito, ma tramite la voce. Questo potrebbe costituire un problema perché la voce a questo punto fa da intermediario, mentre l’ideale, idea di Husserl è quella di eliminare tutto, appunto di ridurre questo percorso tra l’oggetto e la coscienza in modo tale che in mezzo non ci sia più niente ma un filo diretto senza intoppi, da qui la difficoltà che mette in evidenza Derrida, una difficoltà di sistema o una contraddizione che le sarebbe propria, cioè per potere riprodurre una cosa all’infinito c’è certo l’idea, ma occorre la voce, ma questa voce è già un qualche cosa che si interpone, che media tra l’idea e l’oggetto) Resta il fatto che questa difficoltà struttura tutto il discorso husserliano e che noi dobbiamo riconoscerne il processo, il privilegio della fonè (il suono) che è implicabile, tutta la storia della metafisica Husserl lo radicalizzerà sfruttandone tutte le risorse con grande raffinatezza critica poiché non è alla sostanza sonora o alla voce fisica, al corpo della voce nel mondo che egli riconoscerà un’affinità di origine con il logos in generale ma alla voce fenomenologica, alla voce nella sua carne trascendentale, al soffio, all’animazione intenzionale che trasforma il corpo della parola in carne e che fa del Körper un Leib (corper in tedesco sarebbe il corpo morto, del corpo morto un corpo vivente) la voce fenomenologica sarebbe questa carne spirituale che continua a parlare e ha essere presente a sé, ad intendersi nell’assenza del mondo, beninteso ciò che viene accordato alla voce è accordato al linguaggio di parole, ad un linguaggio costituito di unità che sono potute essere creduti irriducibili, indecomponibili saldando il concetto significato al complesso fonico significante (qui ci racconta Derrida che Husserl sta facendo di tutto per eliminare il problema di cui dicevamo prima della φωνή, della voce, togliere la voce alla parola questo è l’ideale per potere avere una connessione diretta tra l’idea e la cosa, allora dice Derrida, che parla di Husserl, che questa voce non è una sostanza sonora o fisica, badate bene, ma una voce fenomenologica, dunque non una voce fisica ma una voce della quale si riconoscerà un’affinità d’origine con il logos, con la parola, ma che non è di fatto φωνή, come dire che nella coscienza c’è l’immagine, una parola immaginata ma non è necessariamente pronunciata, non c’è necessariamente il suono, questo sta cercando di dire Husserl per salvare la sua posizione. Non è vero, perché si pensa sempre con parole, però Husserl sta cercando di trovare una soluzione per parlare di una voce fenomenologica che è senza suono, senza φωνή, e quindi senza una mediazione di nuovo tra l’idea e l’oggetto, la voce fenomenologica sarebbe questa carne spirituale che continua a parlare e a essere presente a sé anche nell’assenza del mondo, la voce spirituale. Vi rileggo:) Ciò che viene accordato alla voce è accordato al linguaggio di parole (perché questa voce è una voce che dice parole) ad un linguaggio costituito di unità, saldando il concetto di significato al complesso fonico significante l’idea di Husserl è quella di saldare il significante al significato e per questo Derrida insiste sulla questione della differenza, perché questa differenza è ciò che rende impossibile saldare il significante al significato. Questo rapporto per Husserl deve essere necessario se voglio che la mia idea di questa cosa sia la cosa stessa, questo segno deve essere bloccato, non ci deve essere differenza tra significante e significato, se no c’è sempre in mezzo un’altra cosa che rende impossibile, appunto come diceva prima qui Derrida, “mediata” dal segno questa percezione che invece vuole essere pura, quindi l’idea di Husserl è quella di saldare il significante al significato una volta per tutte, rendere il segno univoco, questo sarebbe l’accesso alla cosa stessa.