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25 ottobre 2023

 

Aristotele Analitici primi

 

Mi è venuta alla mente oggi una questione, tenendo conto delle cose che dice Aristotele e non solo, e cioè l’eventualità che ogni conseguenza logica di qualunque tipo sia una sorta di consequentia mirabilis. Ora, la consequentia mirabilis non è un sillogismo, è un’implicazione, non è un sillogismo perché manca il medio. È una questione però sulla quale è possibile riflettere; adesso, per il momento, la mettiamo lì, poi la riprenderemo. La logica compie questa sorta di miracolo: da due premesse indimostrabili, o almeno la maggiore sicuramente è indimostrabile… La premessa maggiore dice: tutte le A sono B. Come lo dimostro? Apposta Aristotele parla di ύμάρχειν, un ordine, un comando. Quindi, a partire da una premessa non dimostrabile, che di per sé non dice niente, si giunge a una conclusione certa: dal nulla si giunge alla certezza. È per questo che lo accostavo alla consequentia mirabilis, anche se abbiamo già detto che la consequentia mirabilis non è un sillogismo ma un’implicazione. Però, hanno questo aspetto in comune: praticamente dal nulla stabiliscono una certezza. Come è possibile questo fenomeno? È un miracolo. Eppure, è così che funziona. Il fatto è che non è solo indimostrabile ma non è neanche una certezza. Come faccio ad accertare che tutte le A sono B, che tutte le B sono C e che tutte le A, di conseguenza, sono C? siccome non lo posso fare, allora ecco la necessità di istituire un comando; così come si fa con le macchine, con i calcolatori, è un comando: di qui passi, di lì no, 1,0. Qui, in effetti, sorgono una serie di problemi. La volta scorsa abbiamo accennato come, di fatto, possiamo parlare solo nella δόξα: si parte dalla δόξα, si riflette sulla δόξα, si torna alla δόξα; questo dopo avere verificato che non è possibile uscirne, perché per uscire dalla δόξα devo utilizzare la δόξα. Questo toglie ogni possibilità di stabilire alcunché; quindi, non è un utilizzabile. Perché qualcosa sia utilizzabile è necessario che sia determinato. Ciò che, invece, stiamo dicendo ci conduce all’indeterminato, all’πειρον, come ciò che non può essere tolto: l’πειρον, i molti, l’infinito. Sicuramente Aristotele sapeva tutto ciò – Anassimandro era ancora lì che girava– ed era sicuramente consapevole di una serie di cose. Perché ha scritto l’Organon? A che scopo, presupponendo appunto che sapesse tutte queste cose? Stabilisco come si deve pensare se si vuole pensare correttamente. È una cosa che ancora oggi si pensa nelle università: la logica è quel sistema che dice come si pensa quando si pensa correttamente. Naturalmente, il modo corretto di pensare lo decido io… Però, Aristotele ha fatto, in effetti, qualcosa di importante. Quando si parla ci si attiene a delle regole, a quelle del vivere civile, del buon senso, ecc. Wittgenstein dice che il linguaggio privato non esiste, esiste solo il linguaggio pubblico. Dice questo perché il linguaggio privato è una cosa che parla una sola persona, e non è un linguaggio, è niente. Ma è un’argomentazione che, tutto sommato, è abbastanza debole, anche perché si presuppone che sia così, e cioè che il linguaggio privato non esista. Ma, invece, ciò che ci sta dicendo Aristotele è più sottile e più profondo di ciò che dice Wittgenstein, che tra l’altro a suo stesso dire non ha mai letto Aristotele. Wittgenstein era un ingegnere, non si curava di filosofia. Ha fatto male perché Aristotele era fine in questo e dice perché il linguaggio deve essere pubblico: per potere imporre agli altri quelle conclusioni costruite nel sillogismo. La conclusione del sillogismo serve a questo, a dire come stanno le cose; ma dire a chi? Dire a tutti, coram populo, che le cose stanno così. E, quindi, è necessario che tutti quanti seguano certe regole. Se io voglio convincere le persone a una argomentazione, che io dico essere corretta, è necessario che le persone seguano delle regole, che sono quelle che io detto. Se si vuole giocare a poker una sera con gli amici, è necessario che tutti quanti seguano le regole del poker. La stessa cosa avviene con la logica: è necessario che le persone seguano queste regole, sennò non le controlliamo, se uno ragiona per conto suo non si sa dove va a parare. Se, invece, tutti seguono queste regole, ecco che allora dovranno accettare le conclusioni dei sillogismi costruiti con le regole che io ho dettato. Ecco perché il linguaggio è pubblico: perché serve a persuadere il popolo, mentre il linguaggio privato non persuade nessuno. La logica non è niente altro che questo: un insieme di regole alle quali le persone devono attenersi per potere essere persuase. C’è un altro uso della logica che vi viene in mente? Stabilire come stanno le cose è improbabile, enunciare verità eterne… Dunque, a che cosa serve? Potremmo dire che la logica è una sorta di sottoinsieme della retorica: serve a persuadere. Tutte queste regole – Aristotele ne sforna una dietro l’altra – che la volta scorsa abbiamo chiamato programma eseguibile… Sì, certo, diventa quel programma che deve essere eseguibile ed eseguito da tutti, perché solo così abbiamo la certezza che le persone concluderanno nel modo giusto, cioè, nel modo che voglio io. Ecco la logica, la logica è questo, niente altro che questo. Si dice generalmente che parlando si segue la logica, cioè, per esempio, si evita di contraddirsi, dire una cosa e poi, dopo tre secondi, dire il contrario. È vero, ciascuno si attiene alla logica. Ma qui sta il problema, perché anche noi qui ci stiamo attenendo alla logica per affermare che la logica è ciò che descrivevo prima, cioè uno strumento di controllo. Questo possiamo saperlo attraverso un procedimento che chiamiamo logico, consequenziale; consequenziale nel senso che il linguaggio non è altro che relazione, e cioè l’essere ciascun elemento connesso con un altro, per la sua stessa esistenza. E noi ci troviamo avviluppati in questa storia da sempre, da quando esiste qualcosa, e non ne possiamo uscire. È come se fossimo “costretti” dal linguaggio stesso a parlare, sapendo che parlando non diciamo niente, ma non possiamo non farlo. Aristotele ogni tanto si impegna a cercare un qualche cosa che sia stabile, che sia fermo, come quando dice qui a pag. 551 Ebbene, di tutte le cose che sono, alcune sono tali da non essere predicate di nessun’altra veramente e universalmente (ad esempio, Cleonte e Callia, ovvero la cosa singola e sensibile), mentre altre sono predicate di quelle (infatti ognuno di quei due è un uomo nonché un animale); alcune sono esse stesse predicate di altre, ma null’altro prima ne è predicato; alcune, infine, sono predicate di altre e di esse sono predicate altre cose ancora. Ci sono alcune cose che non sono predicate di niente. Ma cosa intende qui con predicate? O sta dicendo che non sono relazione con nulla, e pertanto non esistono, oppure sono in relazione ma non nella relazione che lui vuole, una relazione tale per cui qualche cosa è posto come universale… Per lui il sillogismo è quello: ci sono tre elementi, e almeno uno di questi deve essere un universale. Si può fare l’esempio del sillogismo perfetto, Barbara, che è composto da tre affermazioni universali positive. Se dico Callia, questo non è all’interno di un sillogismo, quindi, non è utilizzabile. Ne accennavo forse qualche volta fa, che questo è un elemento che è noto nella linguistica come elemento categorematico, cioè quell’elemento che significa di per sé, senza avere bisogno di altro per significare qualcosa; mentre gli elementi sincategorematici sono invece quegli elementi che hanno bisogno di altro per significare qualcosa, come gli avverbi di tempo, di luogo, ecc.: se io dico “prima”, questo “prima” non significa niente da solo, per significare deve essere accompagnato da qualche altro elemento. A pag. 573 dice che è sempre possibile dimostrare un sillogismo attraverso l’impossibile, cioè, se il sillogismo non fosse corretto allora sarebbe impossibile in quanto incontrerebbe una contraddizione. Questa è una regola che impone lui, una regola che dice che dove c’è una contraddizione non si passa, zero, porta chiusa. Fa un esempio. A non inerisce a nessun E. infatti, poniamo per dato che A inerisce a qualche E: dunque, dal momento che B inerisce ad ogni A e A a qualche E, B inerirà a qualcuno degli E; ma si era detto che B non inerisce a nessun E. Come dire: o le cose stanno così, oppure si incappa in una contraddizione. E la contraddizione non è altro che mettere in dubbio la verità di un’affermazione. Potremmo anche dirla così – a questo Aristotele non ci ha mai pensato –: la contraddizione non è altro che l’irruzione dei molti nell’uno. Vale a dire, tutte le A sono B; no, hai contato male, ce n’è una che non lo è; è possibile, non possiamo escluderlo. Ecco la contraddizione: il modo in cui i molti irrompono nell’uno e in un certo senso lo distruggono. Questo, naturalmente, se e soltanto se si sono separati l’uno dai molti. Cosa che Eraclito non fa; infatti, lui dice ἒν πάντα εἰναι, l’uno è i molti. A pag. 579. Per tutti i problemi la via è dunque la stessa… La costruzione dei sillogismi; i sillogismi rilasciano miracolosamente la verità. …in filosofia come in qualsivoglia arte e sapere: infatti, di ciascuno dei due termini del problema, bisogna discernere le cose che vi ineriscono e quelle a cui esso inerisce; e di queste bisogna procurarsene il più possibile; e bisogna indagarle mediante i tre termini, in un senso o in un altro a seconda che si tratti di respingere una tesi oppure di fondarla; e quando è una questione di verità, bisogna partire dalle inerenze riportate nella rosa come “seconda verità”, mentre per i sillogismi dialettici bisogna partire dalle premesse “secondo l’opinione”. Le cose che ineriscono a un’altra – che sono il fondamento di tutta la logica aristotelica; il concetto di inerenza è ciò su cui si fonda tutto – le cose che ineriscono secondo verità… Ma che cosa vuol dire che ineriscono secondo verità? Tendenzialmente, ancora oggi si pensa che, quando una cosa inerisce a un’altra secondo verità, le due cose siano le stesse, e cioè che tutte le proprietà dell’una corrispondano univocamente a tutte le proprietà dell’altra. Ma anche questo è un comando, come accade nella teoria dei limiti: dire che x tende a 1, ecc. e che questa x è 1, non è certo una dimostrazione o una prova, è un comando: tu x sei uguale a 1, perché? Perché sì. A pag. 581. Bisogna poi operare la selezione dei termini in rapporto a ciascuna delle cose che sono, ad esempio se si tratta del bene piuttosto che della scienza. Che cosa appartiene al bene e che cosa appartiene alla scienza? Questo ce lo dice soltanto la retorica: sono opinioni. Peraltro la maggior parte dei principi sono peculiari a ciascuna scienza. Anche questo come lo sappiamo con certezza? Per questo è l’esperienza (induzione) a fornire i principi in ciascun ambito; voglio dire, ad esempio, che è l’esperienza in ambito astronomico a fornire i principi della scienza astronomica (infatti la scoperta delle dimostrazioni astronomiche è avvenuta così, e cioè dopo che sono stati acquisiti in misura adeguata i fenomeni), e così stanno le cose in qualsiasi altra arte e scienza. È questo che sta dicendo, che si procede dalla δόξα, dall’opinione: si pensa così, sembra così, sarà così e, quindi, è così; la certezza viene da qui. Quindi, quando vengono assunti per ciascuna realtà i termini inerenti… Che sono quelli che io ho comandato. …ecco che a quel punto tocca a noi esser pronti a mettere in luce le dimostrazioni. Infatti, se nella raccolta delle informazioni non si sarà tralasciato nulla di ciò che è davvero inerente alle realtà in oggetto… Eh, un momento, l’ho assunta io questa cosa; quindi, quale realtà in oggetto? …noi saremo nelle condizioni, per tutto ciò di cui è possibile dimostrazione, di trovare tale dimostrazione e di dimostrare questa cosa, e d’altra parte, per ciò di cui per natura non è possibile dimostrazione, di rendere manifesta tale impossibilità. Se io stabilisco una certa cosa, comando che sia così, dopodiché il passaggio successivo, che lui fa apparire come se fosse una cosa naturale, è considerare questa cosa come un oggetto reale. Ma è una mia assunzione, un mio comando. Qui critica Platone, perché Platone procedeva per divisioni – è così o non è così? È così, bene. Allora, se è così segue questo, ma questo sarà così o sarà cosà? – un metodo che molti hanno rilevato come binario, e Aristotele dice che questo metodo non dimostra niente. È facile vedere come la divisione per generi costituisca solo una piccola parte del metodo da noi descritto: la divisione, infatti, è come un sillogismo senza forza, perché quello che bisogna provare viene postulato, e ogni volta si trae a conclusione una delle cose che stanno più in alto. Questo è il primo aspetto che è sfuggito a tutti i suoi utilizzatori… Platone in testa, anche se non lo cita. …ed essi anzi tentavano di persuaderci del fatto che possa darsi dimostrazione dell’essenza e del “che cos’è”. Quindi essi non compresero né su che cosa è possibile trarre conclusioni dividendo, né che fosse possibile trarre conclusioni nel modo che abbiamo spiegato noi. Ora, noi abbiamo visto che nelle dimostrazioni, quando si tratta di trarre a conclusione che qualcosa inerisce a qualcos’altro, il termine medio mediante il quale il sillogismo viene in essere dev’essere sempre di estensione inferiore e non universale rispetto al primo degli estremi. Invece, la divisione mira al contrario… Mentre il sistema aristotelico è deduttivo, quello platonico è induttivo. Aristotele dimentica, però, che questo metodo induttivo è quello che utilizza lui per stabilire la premessa maggiore. …tant’è che assume come medio l’universale. Infatti, poniamo che A stia per “animale”, B per “mortale”, C per “immortale”, mentre D sta per “uomo”, di cui si tratta di acquisire la formula definitoria. Bene, colui che adopera la divisione assume che ogni animale è o mortale o immortale: cioè a dire, che tutto ciò che sia A è o B o C. Un po’ dopo conclude dicendo Ebbene, è procedendo alla divisione ogni volta in questo modo che accade a costoro di assumere come termine medio l’universale e come estremi il soggetto in rapporto al quale bisognava provare qualcosa e le differenze. In definitiva, costoro non hanno da dire nulla di chiaro per cui è necessario che l’uomo, o quale che sia l’oggetto della ricerca, sia questa cosa… Prendendo l’esempio di prima, per Aristotele ogni animale è mortale, quindi, Socrate è un animale e, pertanto, si giunge alla conclusione che Socrate è mortale; mentre in Platone, secondo Aristotele, si dà per implicito semplicemente che l’uomo sia mortale, è già dato per acquisito, in questa divisione “è mortale o non è mortale?” che sia mortale è dato per buono, non è dimostrato; infatti, Aristotele dice che si utilizza ciò stesso che deve essere dimostrato. A pag. 589. Dopo ciò bisognerebbe dire come fare a ricondurre i sillogismi alle figure anzidette… Si tratta cioè sempre del fatto che, secondo Aristotele e le sue regole, è sempre possibile ricondurre qualunque sillogismo al sillogismo perfetto. Se, infatti, oltre a studiare il venire in essere dei sillogismi in teoria e ad avere la capacità di trovarli, arrivassimo anche ad analizzare nelle suddette figure quelli già esistenti, allora sì che avremmo portato a termine il progetto iniziale. /…/ Dunque, prima di tutto bisogna cercare di individuare le due premesse del sillogismo…; poi bisogna vedere quale sia universale e quale particolare; inoltre, nel caso in cui le due premesse non siano entrambe espressamente assunte, dovremo noi stessi porre quella mancante. A volte, infatti, vuoi per iscritto vuoi nell’interrogare a viva voce, proponendo una premessa universale non si assume quella in essa contenuta; oppure si propongono tali premesse, ma si tralasciano quelle mediante le quali queste sono ottenute come conclusione, mentre si pongono altre domande, inutilmente. /…/ …altro esempio: se, essendo un uomo, è necessariamente un animale, ed essendo un animale, è necessariamente una sostanza: ma ciò ancora non costituisce effettivamente un sillogismo e infatti le premesse non stanno nei rapporti che abbiamo detto. Quali sono i rapporti che abbiamo detto? Non che l’uomo è mortale ma che “ogni” uomo è mortale, c’è l’“ogni” davanti, ed è l’“ogni” che fa l’universale. A pag. 601. L’inerire del primo termine al medio e di questo all’estremo non va inteso nel senso che essi saranno sempre predicati l’uno dell’altro, o che il primo sarà predicato del medio nello stesso modo in cui questo è predicato dell’ultimo. Lo stesso vale anche per il non inerire. Al contrario, bisogna ritenere che questa cosa inerisce abbia tanti significati quanti sono i sensi in cui si dice “è questa stessa cosa”… Anche lui si accorge che questo “inerire” non è chiaro che cosa significhi esattamente. Si prenda ad esempio la frase “dei contrari vi è un’unica scienza”. Infatti, poniamo che A sia “l’esserci un’unica scienza” e B stia per “le cose contrarie l’una all’altra”. Ebbene, A inerisce a B non nel senso che i contrari sono l’esserci un’unica scienza di essi, ma perché riguardo ad essi è vero dire che c’è un’unica scienza di essi. Cosa ci sta dicendo qui? Ci sta dicendo che bisogna fare attenzione a usare il termine “inerire”; cioè, va usato soltanto come dice lui. I modi in cui dice va utilizzato il termine “inerire” sono almeno due. Il primo, dice, sono l’esserci un’unica scienza di essi; l’altro, è vero dire che c’è un’unica scienza di essi. Quindi, il fatto che A inerisca a B non significa, nell’esempio che ha fatto, che i contrari sono l’esserci un’unica scienza di essi, che i contrari sono questa unica scienza, ma che è vero dire che c’è un’unica scienza di essi. Perché fa questa precisazione? Ci sono due parole che lui sottolinea: da una parte, “sono”, dall’altra “è vero dire”. Quindi, non “sono ma “è vero dire”. “È vero dire” rispetto alle regole stabilite, e questo non c’entra niente con il “sono”, il che cosa sono. A pag. 615. Ci serviamo dell’esposizione dei termini come ci serviamo della percezione quando ci preoccupiamo di colui che sta imparando, e non, in verità, nel senso che senza queste cose la dimostrazione non sarebbe possibile, come è invece nel caso delle premesse a partire da cui c’è il sillogismo. È curioso qui quello che dice – ci serviamo dell’esposizione dei termini come ci serviamo della percezione – tenendo conto che per i greci è importante il vedere. Quindi, ci serviamo dei termini come se fossero cose che si vedono, e questo ci dà in un certo qual modo la garanzia che sono veri. A pag. 621. Lo stesso vale anche per i sillogismi ottenuti mediante l’impossibile: anche questi, infatti, non si possono analizzare nelle figure, o meglio, si può analizzare nelle figure la riduzione all’impossibile (giacché ciò è provato per sillogismo), ma non l’altro passaggio, giacché questo in effetti è ottenuto in base ad un’ipotesi. Questi sillogismi differiscono da quelli menzionati sopra perché in quelli, se si vuole che gli interlocutori convengano poi sulla conclusione, bisogna che essi si siano preliminarmente accordati su qualcosa, ad esempio sul fatto che, se fosse provato che dei contrari c’è un’unica potenza, anche la scienza di essi sarebbe la stessa. Qui, invece, anche senza essersi messi preliminarmente d’accordo, gli interlocutori concordano sulla conclusione perché la falsità è manifesta: ad esempio, quando si pone la diagonale commensurabile al lato del quadrato, l’essere i dispari uguali al pari è una falsità manifesta. Continua a ripetere una questione che è fondamentale. Lui pone quest’aspetto: l’essere i dispari e i pari uguali è una falsità manifesta. Dicendo che è manifesta, si solleva dall’incarico di dimostrarla. È una falsità rispetto alle regole che lui ha stabilito, questo sicuramente, però, pone una questione interessante: che cosa ci dice, in effetti, che i pari e i dispari sono disuguali? O supponiamo che sia enti di natura, e quindi sono disuguali per natura, oppure è una decisione. Per poterli utilizzare, io devo separare i pari dai dispari, che in realtà non sono separati, non li posso togliere. Se, per assurdo, togliessi da una sequenza numerica tutti i numeri pari e lasciassi solo i dispari, questa sequenza avrebbe qualche problema. Non posso togliere i numeri pari dal calcolo matematico, per esempio, perché ciascun numero deve la sua esistenza a tutti gli altri numeri. Quindi, l’essere i dispari uguali ai pari è una falsità manifesta, sì e no. È qualcosa che comunque merita di essere pensato, perché, sì, certo, rispetto alle regole imposte da Aristotele è così, però, non c’è nessuna problematizzazione della questione. Vale a dire, che cosa stiamo dicendo esattamente quando diciamo che i dispari e i pari sono disuguali tra loro? Disuguali in che senso? Senza scomodare Cantor e la sua questione del transfinito, rimane il fatto che ciascun numero è quello che è in virtù di tutti gli altri che non è. Queste sono questioni apparentemente trascurabili, che però mostrano come sia necessario, per la costruzione di questo sistema che abbiamo chiamato logica, separare l’uno dai molti. Senza questa separazione non c’è possibile calcolabilità, e se non si può calcolare non si può dominare. Noi, certo, abbiamo posto delle obiezioni qua e là, ma queste obiezioni sono sì legittime ma restano teoretiche. In effetti, queste obiezioni non fanno nient’altro che manifestare la necessità della coesistenza dell’uno e dei molti e la loro non separabilità; separarli, d’altra parte, è necessario per parlare. La volta scorsa dicevamo che parlando ci inganniamo necessariamente, compiamo questa operazione che, di fatto, non sarebbe possibile, ma se non la facciamo non parliamo, e se la facciamo ci inganniamo, perché diciamo altro da ciò che pensiamo di dire. Torniamo un po' indietro, quando Aristotele diceva che ci sono dei termini come Callia, che non possono essere predicati, ecc. Aristotele lì ci inganna, perché Callia è l’argomento di cui si parla, quella cosa che lui chiama ούσία, l’ύποκείμενον, il ciò di cui si parla. Questa cosa di cui si parla esiste in relazione al mio dire di questa cosa. Lui stesso nelle Categorie diceva che se non ci fossero le categorie non ci sarebbe nemmeno la sostanza. Quindi, lui dice che questi elementi esistono di per sé. Ma non è vero, non possono esistere per sé, perché sono ciò di cui si parla, sono la sostanza, l’ύποκείμενον, che esiste nel ciò che se ne dice: Callia esiste in quanto ne dico, esiste nelle cose che dico di lui. Il che è un altro modo per dire ciò che abbiamo indicato altre volte, e cioè che ciascuna cosa che incontro è fatta di parole, delle mie parole, non esiste senza le mie parole: sono le mie parole che mi fanno vedere la cosa così come la vedo; mi restituiscono il fenomeno, proprio alla greca, φαίνεσταί, quindi, come mi appare, cioè, la verità, l’essere. L’essere è ciò che se ne dice, non c’è senza il ciò che se ne dice; esattamente come il λέγειν τί, non c’è il λέγειν senza il τί – Platone lo aveva detto chiarissimamente – non c’è il mio dire senza ciò che il mio dire dice, né ovviamente li posso separare, come potrei? Quindi, lo stesso Aristotele afferma cose che, in teoria, stando a ciò che lui stesso dice, non potrebbe affermare o, quantomeno, non con tanta leggerezza, perché ciascun termine, non solo esiste perché è predicato, ma deve essere predicato, necessariamente; per cui Callia non è nient’altro che ciò che di lui si dice; esattamente, come ciò che dice Aristotele rispetto all’ούσία, all’ύποκείμενον, alla sostanza: è ciò che se ne dice. Tutte le altre nove categorie sono quelle che fanno esistere l’ούσία, in definitiva, l’essere. Concludiamo qui il primo libro degli Analitici Primi. Mercoledì prossimo inizieremo il secondo libro, che ha come sottotitolo Situazioni argomentative di vario genere, con riferimento alle tre figure. Le figure sono: la prima, quella del sillogismo perfetto, il sillogismo Barbara; poi, ci sono la seconda e la terza figure, che devono essere tutte riconducibili alla prima figura, perché mentre nella prima c’è una correlazione diretta tra la premessa, il medio e la conclusione, nella seconda figura il medio si rapporta ai due estremi, mentre nella terza sono gli estremi che si rapportano al medio. Non è che cambi granché, ma in questo secondo libro senz’altro aggiunge qualcosa che ci può essere utile, utile per intendere qualcosa di più e meglio rispetto a ciò che diciamo quando parliamo di logica. Qualcosa lo abbiamo incominciato a dire. Immagino che la parte più interessante non sarà gli Analitici ma i Topici, perché nei Topici c’è una correlazione molto stretta tra la logica e la retorica, c’è un rimpallo continuo. In effetti, sono la stessa cosa, solo che la logica prevede quelle regole, in modo che tutti le seguano e, quindi, sia possibile persuaderli.