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25 settembre 2024

 

logica formale \ logica modale

 

Ciò che ci ha raccontato Plotino lungo tutte le Enneadi è un modo, diretto o indiretto, per porre la possibilità della logica. Infatti, la logica, da quando ha incominciato a essere praticata? Non ai tempi di Aristotele, ma dopo, nel Medioevo, con i teologi medievali. Naturalmente, la logica era sì quella di Aristotele, l’impianto grossomodo, ma emendato, sarebbe più appropriato dire: purificato dei problemi che Aristotele solleva rispetto alla logica. Però, è nel Medioevo che la logica ha avuto la sua fortuna. E, dicevo, Plotino ha offerto alla logica quello che mancava, che è sempre mancato alla logica. Pensate ai presocratici. Certo, la usavano, naturalmente: la logica non è altro che il modo in cui si parla. Ma pensate a Eraclito, a Zenone, allo stesso Parmenide, Anassimandro, Democrito: nulla offriva la possibilità di una garanzia, di una certezza da cui partire, cioè, di un principio di ragione. E la logica ha bisogno di un principio di ragione su cui fondarsi. Come abbiamo visto, Aristotele ci ha provato in tutti i modi, ma ha trovato un po’ di problemi. Ora, Plotino invece pone una premessa generale assolutamente certa, quella sulla quale è possibile costruire tutto: l’Uno è la verità assoluta e, soprattutto, è incontraddittorio. La contraddizione c’è sempre e da sempre è stata lo spauracchio della logica. Infatti, già i medioevali considerarono che ex falso quodlibet, cioè, da una premessa contraddittoria è possibile dedurre qualunque cosa. Infatti, si dice in logica che la presenza di una contraddizione all’interno del sistema rende il sistema banale, cioè, non utilizzabile. E qui c’è una questione importante: la contraddizione rende un sistema, una proposizione, un’affermazione non utilizzabile. Non utilizzabile per che cosa? Per la volontà di potenza, naturalmente; è l’unico utilizzo che si fa. E la contraddizione non è altro che questo: porre qualche cosa che poi, di fatto, invece non è posto. E, allora, se non lo pongo, non posso utilizzare questa cosa, non posso convincere, non posso persuadere. Se per esempio, ciascuna cosa è tutte le cose, ἒν πάντα εἰναι, sì, io posso porlo, ma, ponendolo, pongo anche la sua negazione simultaneamente. Democrito, Anassimandro, Zenone, tutti quanti dicono la stessa cosa: ciò che pongo, ponendolo, lo nego. Eraclito: “ciò che sorge, sorgendo, dilegua”, come abbiamo proposto di tradurre, e ripreso da Hegel, a modo suo. La contraddizione pone un problema perché, se è vero, in parte, che ciò che è contraddittorio non può essere utilizzato - dico in parte, perché non può essere utilizzato solo dalla volontà di potenza. La contraddizione è insita in ciascun atto: ciascuna volta che dico qualcosa, dicendola, la nego. Se devo dire che cos’è una certa cosa, dico che cos’è dicendo, di fatto, ciò che non è, quindi, mi contraddico. La contraddizione, quindi, appare qui come qualcosa di ineluttabile, ma al tempo stesso come qualcosa che deve essere assolutamente eliminato. Eliminare la contraddizione può farsi in un solo modo: eliminando i molti dall’uno; i molti non si possono eliminare, ma si può pensare di eliminarli dall’uno. Nel processo di unificazione i molti devono sparire in un modo o nell’altro, altrimenti non posso unificare e se non unifico non posso affermare. Dicevamo molti anni fa, procedendo teoreticamente di applicare le conclusioni di un’argomentazione all’argomentazione stessa. In questo caso non è possibile. Se applico le conclusioni dell’argomentazione che concludono che ciascuna cosa è altra da sé, se io applico questa cosa a ciascun elemento di cui è fatta l’argomentazione, l’argomentazione scompare, è nulla, perché ciascuno elemento si dissolve: sorgendo si dissolve, cioè, non posso parlare. Quindi, sì, va bene applicare le conclusioni all’argomentazione, ma in ambito retorico: allora sì, è una cosa che si può fare e si fa soprattutto per far cadere l’altro in contraddizione, che va sempre bene; però, in ambito teoretico no: ciascun elemento muta. Come diceva Eraclito, tutto è in divenire, continuamente, quindi non lo posso fermare; ma se non lo fermo, cioè non lo unifico, non lo posso utilizzare, quindi, non posso pensare, non posso parlare, perché con che cosa parlo se ciascun elemento non è quello che è? E qui viene in aiuto il neoplatonismo, che, come dicevo all’inizio, è ciò che ha reso possibile la logica, fornendo alla logica una premessa universale, incontrovertibile, che comunque non deve essere messa in discussione, ma che comunque c’è. È questa la garanzia che ciascuno cerca: che comunque ci sia qualcosa. Dicevamo tempo fa: non importa se questa cosa è bene o è male, si può discutere, ma l’importante è che ci sia un bene e, quindi, ci sia un male. È questo ciò che conta, altrimenti, non possiamo giudicare. Come posso additare i cattivi, i malvagi? Non lo posso fare. Ora, la logica, così come viene praticata dal Medioevo, in fondo poi è rimasta tale e quale, è rimasta quella che ha stabilito Porfirio, che leggeremo da mercoledì prossimo, cioè, una logica apparentemente aristotelica, che si avvantaggia soltanto del programma praticamente costruito da Aristotele, ma senza tenere minimamente conto di tutti i problemi che Aristotele ha incontrati, che sono i problemi che rendono la logica impossibile, non praticabile o, più propriamente praticabile, tenendo conto che la premessa maggiore, che regge tutto quanto, è la doxa. Non c’è un’altra possibile, praticabile, non c’è, la verità epistemica non c’è. Tutta la logica, dicevo, è stata costruita a partire da un qualche cosa che ha dovuto, nel suo inizio, emendarsi. La logica formale, abbiamo visto in Mendelson, è quella logica sillogistica: se A allora B, se B allora C, allora se A allora C; che andrebbe sempre formulata più correttamente: se tutte le A fossero B e se tutte le B fossero C, allora, e solo in quel caso, tutte le A sarebbero C. In questo modo sarebbe formulata correttamente, cioè, mi assumo la responsabilità: se tutte le A fossero B, non lo sono ma io dico che lo sono perché mi va bene così, quindi, sono io che do questo comando. Dicevo, dunque, che la logica formale si è costruita su questo inganno, la premessa maggiore è un’induzione, cioè, una analogia - si pensa che sia così, si crede che sia così, dovrebbe essere così – creata, costruita sull’inganno, letteralmente. Riguardo alla teoria dei limiti è la stessa storia, anche quella è costruita su un inganno. Tutto il calcolo infinitesimale è fondato sull’inganno; che funziona, certo che funziona, tutto ciò che ha fatto Plotino non è esattamente questo, e cioè costruire un sistema su un inganno? È questo che ha fatto ed è per questo che funziona perfettamente. Gli umani vogliono essere ingannati? Sì e no. Bisognerebbe sentire ciascuno. Però, è esattamente quello che ha fatto Plotino: ha costruito un sistema costruito, fondato su un inganno, che deve essere creduto. Trovatemi un matematico che non creda che un limite sia proprio quello lì, proprio come il fedele crede che ci sia un Dio, è la stessa cosa e ha lo stesso fondamento, cioè, nessuno. Ma funziona, e abbiamo accennato perché funziona: perché si offre alle persone la possibilità di avere un riferimento condiviso, assolutamente certo perché indistruttibile, ed è indistruttibile perché non c’è, non c’è ma si crede che ci sia. Se qualcuno non lo prova è colpa sua, vuol dire che non si è aperto. Se, invece, ci si apre all’Uno, ecco che l’Uno si rivela immediatamente. Tutte le dottrine più recenti, il New Age e altre storie del genere, sono tutte fondate su questo: aprirsi al mondo, gli alberi gli parlano, la Terra che vive, che respira, che fa tutte queste cose. Tutte queste cose sono un retaggio diretto del neoplatonismo o dello gnosticismo, a seconda della direzione che prende il momento. Però, dicevo, la logica non è fondata, ha come fondamento nulla. E questo è importante perché la logica è anche ciò attraverso la quale ciascuno costruisce le proprie fantasie, cioè, la propria visione del mondo; le cose che crede belle, giuste, importanti, sono costruite dalle fantasie, e le fantasie sono costruite dalla logica, da una logica che non tiene conto e non può tenere conto del fatto che ciascun elemento è quello che è a condizione di non essere quello che è. Non ne tiene conto perché per parlare non può tenerne conto. Per parlare ha bisogno dei detti della nonna, quelli fanno parlare, perché non si chiedono mai niente. Quando da bambino mia nonna diceva che le stagioni erano ammattite - siccome il tempo era un po’ bizzarro, allora si diceva che il tempo fosse ammattito – la sua teoria era che tutto ciò era causato dalla bomba atomica che aveva rotto l’aria. Ora, mia nonna non aveva assolutamente alcuna nozione di fisica, ovviamente; quindi, questa cosa che lei ha pensato non è il risultato di una serie di argomentazioni, di calcoli, assolutamente no. Ma questo per dirvi come si costruisce una fantasia; che non viene mai messa in discussione, perché per ciascuno la propria fantasia è automaticamente vera, perché si appoggia all’idea di qualcosa che è così perché è così. L’idea del naturale, del normale, quello che si vuole, si appoggia a questa cosa: io penso che questo sia vero perché le cose stanno così, perché tutti fanno così, perché sono sempre state così. E, quindi, non è messa in discussione, non può essere messa in discussione, perché metterla in discussione - che è quello che abbiamo fatto noi in questi anni, dopo tutto - comporta il rischio di trovarsi di fronte a ciò che abbiamo di fronte oggi, e cioè la considerazione che ciascuna cosa, essendo costruita sul nulla, per reggersi non può che rinviare ad altro; il quale altro, a sua volta, è costruito su nulla. Questo movimento continuo, incessante, questa cosa che chiamiamo pensiero, linguaggio, funziona così, non ha un altro modo per funzionare. Però, dal Medioevo in poi si è fatto credere, con Plotino e poi soprattutto con Porfirio, che la logica magicamente possa mostrare lo stato delle cose. L’argomentazione corretta conclude così, quindi è così, quindi le cose stanno così, magicamente. C’è un fortissimo aspetto magico, mitologico nella logica, anche nella matematica, ma nella logica soprattutto. Questa magia: il ragionamento è corretto, fila tutto, mi sembra che fili tutto, perché capita delle volte che non fila assolutamente niente, ma non importa. Però, la conclusione appare corretta, quindi è così, le cose stanno così.  Questo è un retaggio soprattutto della teologia medioevale. Ho fatto una lista di teologi medioevali da affrontare: dai padri cappadoci, Basilio di Cesarea e poi Gregorio di Nazianzio e Gregorio di Nissa. Siccome stavano in Cappadocia, ridente regione della Turchia, ai confini della Grecia, sono stati chiamati così e sono vissuti nel I e II secolo dopo Cristo, quindi prima di Agostino, che è considerato il padre precursore del cristianesimo, proprio lui, dichiaratamente neoplatonico, lo dichiara proprio lui apertamente. Dicevo che è un retaggio della teologia medioevale, che ha avuto la necessità di stabilire che la logica aveva una sua credibilità, nonostante che poi fino a Tommaso abbia avuto dei momenti controversi, però, in seguito, da Tommaso in poi, ha avuto via libera. La logica ha avuto la necessità, dicevo, di confermare certe cose, per esempio, certi attributi di Dio, il fatto che il figlio procede dal padre, ecc., tutto ciò veniva illustrato in modo argomentato e, quindi, l’argomentazione doveva essere fondata, assolutamente. Aldilà di Anselmo, che addirittura dimostra l’esistenza di Dio con l’argomentazione, cioè, Dio per la prima volta non è solo oggetto di fede ma anche il risultato di un ragionamento. Dunque, la necessità nel Medioevo, nella teologia medioevale, di una logica affidabile. Che non è quella che ha costruito Aristotele; in parte, sì, ma in una buona parte no, per niente. La logica medievale, come dicevo prima, si è fondata non su Aristotele ma sulla lettura - alcuni lo confessano apertamente, ad esempio i padri della Chiesa - sulla lettura di Porfirio delle Categorie. Dunque, tutta la logica non è aristotelica ma, diciamola così, porfiriana. Porfirio e, in parte, Proclo hanno costruito la logica, hanno detto che cosa si deve dire della logica. Ecco che il Medioevo ha seguito questa via, fino ad oggi, in cui nelle università si va dicendo che la logica rappresenta il modo corretto di ragionare quando si ragiona in modo corretto. Se la logica formale, da una parte, come abbiamo visto e come lo stesso Mendelson dice, quasi, come direbbe Nietzsche, digrignando i denti, è fondata su niente, anche per la logica modale vale esattamente la stessa cosa. La logica formale è quella logica sillogistica; la logica modale, invece, si occupa di stabilire quando la conclusione di questi sillogismi appare necessaria, oppure contingente, oppure impossibile, oppure possibile. Necessario, in greco άναγκαῖον; possibile, δυνατόν; impossibile, αδυνατόν. La logica modale si trova di fronte da subito a un problema insormontabile: se qualcosa è necessario, è anche possibile? Certo, direbbe chiunque, che è possibile, se è necessario, a maggior ragione è possibile. Pensate al quadrato logico di Pietro Ispano. Prendete il lato sinistro, visto da voi, del quadrato logico. In alto c’è l’universale affermativa (tutte le A sono B). Scendete giù e trovate la I, la particolare affermativa (qualche A è B). Ora, se tutte le A sono B, è ovvio che qualche A sarà B: più ovvio di così! Se dico che è necessario che Cesare sia lì, vuol dire che è anche possibile che sia lì, sennò è un problema. Ed è il problema della logica modale perché, se io dico che p è necessario e, quindi, che p è possibile, se dico che p è possibile, dico anche che p non è possibile, cioè, è possibile che non sia, perché se è possibile, può ma anche non può. E, allora, ci si trova di fronte a un problema insormontabile. Problema che enuncia qui il nostro amico Jan Łukasiewicz in modo preciso. Se è possibile che P, allora non è necessario che P. Mentre dicevamo che se è necessario allora è anche possibile, ma, se è possibile, non è necessario. Egli (Aristotele) si accorge però più tardi che ciò non può essere corretto, poiché assume che la necessità implica la possibilità, cioè, se è necessario che P, allora è possibile che P, e da qui seguirebbe, per sillogismo ipotetico, che, se è necessario che P, allora non è necessario che P… Perché, se è possibile, vuol dire che è anche non possibile, se non è possibile non è necessario; quindi, è necessario che P, ma anche non è necessario che P. È un problema, e adesso che si fa? Aristotele asserisce correttamente: se è possibile che P, allora non è necessario che non-P… Se dico che è possibile che P, non è necessario che non-P sia; se è possibile vuol dire che può esserci e anche no. …ma non corregge il suo precedente errore nel testo del De Interpretatione. L’errore è quello di prima. Questa correzione è data negli Analitica Priora, dove la relazione tra possibilità e necessità assume la forma di un’equivalenza e dice, è possibile che P se è solo se non è necessario che non-P. Che non è che sposti di molto la questione, il problema rimane. Cioè, si è trovato di fronte a questo: se qualcosa è necessario, allora è anche possibile che sia; ma se è possibile che sia è anche possibile che non sia, quindi, non è più necessario. Quindi, dentro il necessario, dentro l’uno, che cosa ci sono? I molti, che non si riesce a togliere, esattamente come accadeva nella logica formale, nel discorso di Mendelson: nell’induzione c’è di tutto dentro. Quindi, come risolve qui la cosa? Perché Łukasiewicz dice che Aristotele non la risolve. No che non la risolve, è uno di quei casi in cui Aristotele abbandona la questione e passa ad altro, perché correttamente si accorge che non c’è una soluzione. La soluzione vorrebbe trovarla Łukasiewicz, ma di fatto non trova niente perché, quando dice, che sarebbe la sua soluzione, è necessario che P se e solo se non è possibile che non-P, ora non è possibile che non-P  è uguale a è necessario che P, come dire che è necessario che P soltanto se è necessario che P. E fin qui… Ora, lui si trova costretto, quindi, ad emendare la logica modale aristotelica. Era nel De Interpretatione, non ci siamo soffermati più di tanto perché in quel momento non era questo che ci interessava. Per esempio, che cosa viene emendato? Che se P è possibile allora P. Perché viene emendato? Per le ragioni di prima: se è possibile, quindi, non è necessario. Ma qui l’emendazione che fa lui, di fatto, ha una ragione precisa, che è questa: rendere la logica modale coerente, sennò non riesce a costruire la logica modale. Quindi, deve cancellare delle proposizioni che, tuttavia, ci sono, perché “se è possibile che P allora P” vuol dire che questa P c’è, è possibile. Se è possibile, vuol dire che è possibile qualcosa, non che è possibile nulla. Che cosa è possibile? P, quindi c’è. Perché la cancello? Perché, se la mantengo, succedono dei problemi con la logica modale. Quindi, la logica modale, per tenersi in piedi, deve essere anche lei emendata, purificata. Anche la semplice formulazione “è possibile che p” viene rifiutata, perché la possibilità di P allude alla necessità: se è possibile che P, allora P; e, quindi, affermo qualche cosa; ma affermare questo P, lo affermo come? È necessario, non è necessario? È un problema che la logica modale non può risolvere, quindi cosa fa? Emenda la proporzione, la cancella dagli assiomi della logica modale, e bell’e fatto. Qui c’era la nota di Aristotele che avevo segnata. Dobbiamo riprendere l’Organon a pag. 259. Infatti, il “necessario che sia” è possibile che sia; Se infatti non lo fosse, la negazione conseguirebbe. Quindi, non è necessario che sia; ma ha appena detto che è necessario. Infatti, è necessario o affermare o negare.... Domanda: perché? Lui lo dà come così, come assodato. È necessario affermare o negare, cioè, è necessario o porre qualcosa oppure toglierlo di mezzo. Che cosa pongo? Ciò che serve alla mia volontà di potenza. Che cosa tolgo? Ciò che la ostacola. Affermare e negare è questo, perché sappiamo che affermare qualche cosa non può mai essere un’affermazione apodittica - un’affermazione apodittica sarebbe un’affermazione universale. Non posso mai affermarlo perché questo universale è fatto di particolari. È questo che intendeva Aristotele dicendo, anche se lo dice indirettamente, che non c’è una verità epistemica. Quindi, non posso né affermare né negare nulla se non attraverso la doxa. Perché attraverso la doxa? Perché la doxa non si pone nessun problema, non domanda niente, non interroga niente, ma afferma, come se queste affermazioni fossero tutte apodittiche, cioè, avessero alle spalle un universale. Lo diceva anche mia nonna: perché si deve fare così, perché così è bene. …di conseguenza, se non è possibile che sia, è impossibile che sia.; dunque, è impossibile che sia il necessario che sia, ma questo è assurdo. Quindi, è impossibile che sia necessario, che invece è. Però, al “possibile che sia” consegue il non impossibile che sia... Se è possibile è anche non impossibile che sia; in fondo, sono la stessa cosa. …a questo il “non necessario che sia”; di conseguenza tale che il “necessario che sia” sia il “non necessario che sia”, cosa assurda. No, è assurdo, sì, retoricamente, e infatti viene utilizzato retoricamente, appunto per fare cadere l’altro in contraddizione. Ma è così che funziona il linguaggio, cioè, ciascuna cosa, ciascun elemento che interviene è anche la sua negazione. Bisognava aspettare fino a Hegel, perché si riprendesse la questione di Eraclito, cioè che l’uno è i molti, quindi, anche la sua negazione. E Aristotele dice: Infatti, per quanto riguarda l’uno (è necessario che sia) è possibile che accadano entrambe le cose, mentre se fosse detto con verità, uno degli altri due, quelle enunciazioni conseguenti non saranno più vere: infatti, è possibile che sia e che non sia allo stesso tempo, ma se è necessario che sia o che non sia, non sarà possibile che si diano entrambe. Cioè, è possibile che sia e che non sia allo stesso tempo, qualunque cosa può essere o non essere, ma, se è necessario, no, deve essere quella cosa lì per forza. Ci sarebbe un lavoro da fare: riprendere tutto l’Organon dall’inizio e leggerlo tenendo conto di questo aspetto che ci è apparso oggi dopo la lettura di Plotino. Cioè, questo ci ha portati a Plotino e ora potremmo rileggere Aristotele, tenendo conto delle emendazioni fatte da Plotino. Però, ciò che importa in tutto questo è che Aristotele si accorge che in fondo aveva ragione Eraclito, che l’uno è tutte le cose; quindi, è necessario che sia, ma anche non necessario che sia, simultaneamente; perché ciascuna cosa è anche il suo contrario, cosa che peraltro Aristotele pone nella Fisica, quando parla dell’entelechia, dice che potenza è atto sono uno nella entelechia, perché sono simultanei. Quindi, la potenza, il poter essere, e l’atto, l’essere necessario, sono simultanei. Quindi, lui stesso dice, non lo dice espressamente perché forse non ha neanche pensato in termini così precisi, il possibile e il necessario sono due momenti dello stesso. Ecco perché, quando parla del necessario si ritrova il possibile: se è necessario è anche possibile, certo. Ma se è possibile, questa è l’obiezione che faceva Łukasiewicz, non implica che sia necessario, ed è per questo ha dovuto emendare la proposizione che se è possibile P, allora P; se è possibile, allora c’è. In fondo, Aristotele nella Fisica diceva questo: se qualcosa è possibile, c’è, se è in potenza è in atto. Questo diceva rispetto all’entelechia. L’entelechia è questo: l’essere la potenza e l’atto simultanei. A questo punto ci troviamo di fronte a una cosa notevole, e cioè, forse lo abbiamo già accennato: noi possiamo parlare a condizione di non interrogare le parole che utilizziamo; se incominciamo a interrogare allora è finita, non parliamo più. Per questo dicevano, non è sempre possibile applicare le conclusioni di un’argomentazione all’argomentazione stessa, perché queste conclusioni, se applicate alle argomentazioni, bloccano tutto e non si può più parlare, perché ciascuna cosa, come diceva Eraclito, svanisce dicendosi. Quindi, che cosa sto affermando io? Più niente. Questo dà un’idea di come si costruiscono quelle fantasie che consentono agli umani di credere ciò a cui credono: sono costruite così, a condizione di non essere mai interrogate, questa è la condicio sine qua non. Ma condizione necessaria per la logica stessa, come ci hanno mostrato prima Mendelson e adesso Łukasiewicz. Attraverso Plotino e attraverso queste considerazioni che abbiamo appena fatte, abbiamo sempre più precisa l’idea di come funziona il pensiero, il modo in cui pensiamo, in cui pensano tutti. Si dice generalmente che la gente non pensa. Sì, è vero, ma non ha nemmeno gli strumenti per farlo, ma, soprattutto si guarda bene dal procurarseli. Perché gli strumenti sono sempre stati a disposizione da migliaia di anni, sono sempre stati lì. Quello che ho offerto Plotino, in fondo, è una certezza incontrovertibile, la certezza che Dio c’è. Perché? Perché sì. Tutto questo potrebbe aiutarci nel prosieguo a leggere Porfirio, perché Porfirio, come ho detto all’inizio, è colui che, più di Plotino, ha indirizzato alla lettura emendata di Aristotele.