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25 settembre 2019

 

Fenomenologia dello spirito di G.W.F. Hegel

 

A pag. 292. L’autocoscienza ha trovato la cosa come sé e sé come cosa; vale a dire è per l’autocoscienza ch’essa, in sé, è l’effettualità oggettiva. L’autocoscienza non è più la certezza immediata di essere ogni realtà; ma è una certezza tale per la quale l’immediato in genere ha la forma di un tolto,… Quindi, è universale. …di modo che la sua oggettività vale ancora soltanto come una superficie, di cui interno ed essenza è l’autocoscienza medesima. L’oggetto al quale l’autocoscienza si rapporta positivamente è, perciò, un’autocoscienza; essa è nella forma della cosalità, vale a dire è indipendente; ma l’autocoscienza ha la certezza che questo oggetto indipendente non è per lei nulla di estraneo; essa quindi sa di essere da lui riconosciuta in sé; essa è lo spirito che nella duplicazione della sua autocoscienza e nell’indipendenza di entrambe le autocoscienze ha la certezza di avere la sua unità con se stesso. Tale certezza le si deve ora elevare a verità: ciò che per l’autocoscienza ha il valore di un in-sé e che è nella sua interiore certezza, deve entrare nella sua coscienza e divenire per lei. Quello che Hegel sta dicendo è notevole. Sta dicendo che l’autocoscienza non è soltanto la consapevolezza di sé in quanto tale, anche, certo, ma anche la consapevolezza che tutto ciò che incontra è sempre lei stessa. Ora, se noi riflettiamo sulla questione in termini più radicali, qualunque cosa accada non è solo nel linguaggio ma “per” il linguaggio. Detta in un altro modo, ciò che si incontra è sempre ed esclusivamente linguaggio, il suo funzionamento, la sua struttura. Io incontro, per esempio, una cosa, un pensiero, una persona. Ciò che ci sta dicendo Hegel è che io, in realtà, è che non incontro una cosa, un pensiero, una persona, incontro sempre e soltanto linguaggio, incontro sempre e soltanto il suo funzionamento. È questo che sta dicendo rispetto all’autocoscienza: l’autocoscienza trova se stessa, sempre, ovunque si rivolga trova se stessa. È come dire che ovunque mi rivolgo trovo sempre e soltanto linguaggio: parlo con una persona, guardo una cosa, rifletto su una considerazione; tutte queste operazioni non sono altro che un modo per incontrare il linguaggio nel suo funzionamento, e la cosa importante che ci sta dicendo è che non c’è altro. Dicendo che l’autocoscienza è per se stessa ha già detto tutto. L’autocoscienza non è che è per l’oggetto; no, l’oggetto è qualche cosa che l’autocoscienza incontra, ma incontrandolo incontra sempre e soltanto se stessa, perché questo oggetto, e lo diceva già nelle prime pagine, è sempre e comunque per la coscienza. Quindi, il passo che fa qui Hegel è importante; è chiaro che lui non lo porta alle estreme conseguenze, ma possiamo farlo noi intendendo, come stavo dicendo, che ogni cosa che io faccio o che penso mi conduce sempre e soltanto a vedere “linguaggio” nel modo in cui sta funzionando; non incontro altro, non posso incontrare altro che questo. Capite che è una considerazione notevole. Certo, è un altro modo per dire che non c’è uscita dal linguaggio, un modo molto forte. Guardando questo aggeggio io non faccio niente altro che esperire il funzionamento del linguaggio. Prosegue a pag. 293. Da prima questa ragione attiva è consapevole di se stessa soltanto come un individuo, e, come individuo, deve promuovere e produrre la propria effettualità nell’Altro; ma poi, elevandosi la sua coscienza all’universalità, quest’individuo diviene ragione universale, ed è consapevole di sé come ragione, come di un qualcosa che è già riconosciuto in sé e per sé e che nella pura coscienza unifica ogni autocoscienza; esso è l’essenza spirituale pura che, pervenendo in pari tempo alla coscienza, è la sostanza reale a cui, come al loro fondamento, ritornano le forme precedenti… Parla di sostanza reale; l’unica sostanza reale è il linguaggio. In effetti, è l’unica cosa, come dicevamo prima, con cui ho a che fare, solo con questo. Hegel ci arriva muovendo dalla sua considerazione intorno alla coscienza, a come si avvia la coscienza, come ciascuna cosa è quella che è in quanto è per la coscienza, cioè, si accorge che la cosa non è per sé, non ha in sé la propria causa e la propria origine, non è un oggetto metafisico tradizionalmente inteso, ma è per la coscienza, cioè, esiste in quanto c’è una coscienza che lo fa esistere. Quindi, se questo oggetto è nel e “per” il linguaggio, è ovvio che qualunque oggetto io veda è già un elemento linguistico e, quindi, ciò che per la coscienza è oggetto è sempre un qualcosa che, come per Hegel, è sempre coscienza… potremmo dire, sempre linguaggio. Questo è, come dice Hegel, l’attuazione della coscienza razionale, cioè, si attua in questo, nel prendere atto che l’autocoscienza è il trovarsi, sempre e comunque, ad avere a che fare con l’autocoscienza. Viceversa la coscienza singolo è solo questo Uno nell’elemento dell’essere, poiché essa, nella sua singolarità, si è consapevole della coscienza universale come del suo proprio essere, mentre il suo operare e il suo esserci sono l’universale ethos. In effetto il concetto dell’attuazione della ragione autocosciente ha la sua perfetta realtà nella vita di un popolo; giacché l’attuazione della ragione consiste nell’intuire nell’indipendenza dell’altro la completa unità con lui, o nell’avere a oggetto come mio esser-per-me questa libera cosalità di un altro da me trovata, che è il negativo di me stesso. La ragione è presente come la fluida sostanza universale, come l’intrasmutabile semplice cosalità, la quale si rifrange in tante essenze perfettamente indipendenti, a quel modo che la luce si rifrange in quegli innumerevoli punti per sé lucenti che sono le stelle; nel loro assoluto esser-per-sé quelle essenze non solo sono in sé risolte nell’indipendente sostanza semplice, ma lo sono anche per se stesse; esse sono consapevoli di essere queste singole essenze indipendenti, per ciò che sacrificano la loro singolarità, e per ciò che quella universale sostanza è l’anima loro e la loro essenza, - così come questo universale è alla sua volta l’operare di esse come singole o è l’opera da loro prodotta. Qui c’è un passaggio i dove considera che l’autocoscienza, posta come singolo, certo, vuole universalizzarsi, in quanto come singolo ha il suo opposto che deve integrare, ma questo opposto a questo punto è un’altra autocoscienza. E, allora, dapprima questo altro è ciò che si oppone a me e, quindi, devo in qualche modo integrarlo, solo che l’altro ha una sua autocoscienza e non vuole essere integrato. Ecco che allora per Hegel si fonda lo Stato. Non è casuale che alcuni abbiano considerato che Hegel abbia posto le basi per la nazione tedesca e poi, in seguito, per il nazionalismo tedesco, perché lui ha visto nello Stato questo processo di sintesi dove ciascuno opera, insieme con gli altri, al fine di una unità, che sarebbe la sintesi. Vale a dire, ci sono io, che sono la tesi, poi ci sono gli altri, che sono l’antitesi, e poi c’è o Stato, nel senso di un lavorare di tutti e di ciascuno, di tutti, per questa unità, per una sintesi, che comporterebbe, come poi vedremo, il Sapere Assoluto. A pag. 295. Ma nella sostanza universale l’individuo non ha soltanto questa forma del sussistere del suo operare in genere, sì anche ha in essa il proprio contenuto; ciò che l’individuo opera, è l’universal genio e costume di tutti. Questo contenuto, in quanto si è completamente singolarizzato, è, nella sua singolarità, incluso nell’operare di tutti. Il lavoro dell’individuo per i suoi bisogni è un soddisfacimento tanto dei bisogni degli altri quanto dei suoi propri; e il soddisfacimento dei bisogni propri egli raggiunge soltanto mediante il lavoro degli altri. Come l’uomo singolo nel suo lavoro singolo compie già inconsapevolmente un lavoro universale, così, per converso, compie il lavoro universale come suo oggetto di cui egli è consapevole; l’intiero diviene opera sua come intiero per il quale il singolo si sacrifica, e proprio così ne riottiene se stesso. Qui non c’è niente che non sia reciproco, niente in cui l’indipendenza individuale, nel dissolvimento del suo esser-per-sé, nella negazione di se stessa, non si conferisca il proprio significato positivo, che è di essere per sé. Questa unità dell’essere per altro o del farsi cosa, e dell’esser-per-sé, questa universale sostanza parla il suo linguaggio universale nei costumi e nelle leggi di un popolo;… Qui c’è tutto il pensiero di Hegel, o almeno buona parte, rispetto alla politica, e cioè ci sta dicendo che lo Stato non è altro che l’integrazione della tesi e dell’antitesi, vale a dire, il risultato dell’opera di tutti e di ciascuno al fine giungere alla felicità, che è poi sempre questo l’obiettivo. Ma noi possiamo intendere qualcosa di più oltre a questo. Hegel, certo, parla in termini politici ma possiamo porre la cosa anche in termini strutturali, e cioè intendendo che questi “tutti”, questi “altri”, per porla come Heidegger, sono il mondo di cui io sono fatto. La nozione di mondo in Heidegger, e cioè la totalità degli enti, è ciò con cui ciascuno si confronta continuamente, ed è vero anche in Heidegger che io sono il risultato, il prodotto di tutta una serie di cose che ho fatte, ma anche di cose che altri hanno fatte. Come dicevamo tempo fa, non ho inventata io la lingua in cui mi trovo, l’ho trovata; questa lingua è il risultato del lavoro di migliaia e migliaia di anni e di milioni di persone, che hanno contribuito al farsi di questa lingua. In questo senso si può intendere ciò che sta dicendo qui Hegel, e cioè che io sono, sì, il prodotto di ciò che ho fatto, ma sono il prodotto anche di ciò che altri hanno fatto e che stanno facendo. Il che poi comporta, ovviamente, il prendere atto che il trovarsi a essere il risultato di un percorso millenario porta anche a intendere il motivo per cui io mi trovi a fare certe cose, a pensare certe cose; non avrei potuto pensare certe cose senza, per esempio, alcuni pensatori greci, senza Heidegger, o senza Hegel. Quindi, il loro lavoro, in qualche modo, è anche il mio lavoro, e il mio lavoro può dare un contributo, almeno spero, al lavoro che hanno fatto loro. Qui vedete all’opera l’autocoscienza che coglie altre autocoscienze, potremmo dire altri discorsi, altre narrazioni, e li integra nel proprio discorso, arricchendolo ovviamente. A pag. 296 (122). Perciò in un popolo libero la ragione è in verità attuata; essa è spirito presente e vivente, nel quale l’individuo non solo trova espressa e data come cosalità la sua destinazione (cioè la sua essenza universale e singola)… Singola perché sono io, universale perché sono fatto del mondo. …ma è esso stesso questa essenza ed ha anche raggiunto la sua destinazione. Proprio per questo gli uomini più sapienti dell’antichità hanno trovato la sentenza: sapienza e virtù consistono nel vivere conformemente ai costumi del proprio popolo. In termini più semplici significa che ciascuno trova il proprio sapere, la propria virtù, nel fatto di accogliere tutto ciò di cui è fatto e ciò di cui fatto è la sua tradizione, la sua esperienza, buona o cattiva che sia, naturalmente. Si tratta di accoglierla, accoglierla perché io sono fatto anche di questo, anzi, sono fatto soprattutto di questo. Ricordate il famoso motto di Nietzsche: “Ciò che fu, io volli che fosse”, cioè io sono responsabile di tutto ciò che ho fatto, nel bene e nel male, e lo accolgo perché tutte queste cose sono me, non sono altro da me. A pag. 297 (125). Inoltre la coscienza singola, a quel modo ch’essa ha immediatamente la sua esistenza nell’eticità reale o nel popolo, è quindi una compatta fiducia, alla quale o spirito non si è risolto nei suoi momenti astratti, e che non sa quindi neanche di essere per sé come pura singolarità. Ma allorché la coscienza singola è arrivata, come pur deve, a questo pensiero, allora tal sua unità immediata con lo spirito o il suo essere in esso, la sua fiducia, è perduta; isolata per sé, la coscienza singola è ora a sé l’essenza: essenza non è più lo spirito universale. Il momento di questa singolarità dell’autocoscienza è bensì nello spirito universale stesso, ma soltanto come una grandezza dileguante la quale, a quel modo che sorge per sé, altrettanto immediatamente si risolve nello spirito e viene alla coscienza soltanto come fiducia. Poiché quel momento si è fissato, - ed ogni momento, essendo momento dell’essenza, deve giungere a presentarsi come essenza, - ecco che l’individuo si è posto di conto alle leggi e ai costumi; essi sono soltanto un pensiero senza essenzialità assoluta, un’astratta teoria senza effettualità; - anzi, l’individuo, come questo Io, è a sé la verità vivente. Sta dicendo che questa singolarità, per cui io sono io, diciamola così, è qualcosa che è dileguante, che scompare nello spirito. Ora, Hegel considera lo spirito in varie accezioni, ma lo spirito ha a che fare con un sapere di tutti, che poi si manifesta, per esempio, nel singolo; lo spirito come verità anche, certo. E questo rende conto del fatto che tutto questo percorso che lui fa, in effetti, e lui lo dice, è, sì, un percorso che si fa per tappe ma è sempre l’ultimo, il risultato, che dà essenza al primo momento, cioè all’avvio. Questo spirito, che è poi lo spirito del popolo, lo spirito di tutti, l’essenza di un popolo, il suo pensiero, - una volta con spirito si intendeva semplicemente il pensiero – è il pensiero che ha compiuto se stesso. Quand’è che il pensiero ha compiuto se stesso, cioè è spirito nell’accezione di Hegel? Quando ha preso atto di ciò che veramente è, e cioè quando ha preso atto che hegelianamente ha integrato tutto ciò che gli si oppone divenendo un’altra cosa. Vale a dire, non ha scartato ciò che è considerato come falso o come negativo, ma lo ha accolto in sé: tutto ciò che fui io volli che fosse. Questo sapere assoluto, quindi, è un sapere che è sempre presente. Hegel in qualche modo lo avverte, anche se non è proprio così esplicito, però è sempre presente. Naturalmente, accade di non accorgersene, così come la ragione, ce lo ha detto a un certo punto, è già lì da sempre. Lui la descrive come un percorso, certo, ma il percorso che lui fa è per rendere conto di come la ragione si compie, ma questa ragione, per potere porsi come risultato, ci dice in modo esplicito, deve già essere presente nel primo passo, sennò non si arriva da nessuna parte. E, quindi, ecco che lo Spirito assoluto, il Sapere assoluto, è già presente. Un altro modo per dire ciò che dicevamo, che l’intero, a proposito di Severino, l’intero è già qui adesso mentre ne parliamo. L’intero, cioè, il linguaggio, con tutte le sue opposizioni, con tutte le sue differenze, con i suoi rinvii; il linguaggio deve essere già tutto qui perché io possa utilizzarlo. Che sia tutto qui non significa che io conosca tutte le singole parole dizionario, non è questo ciò di cui si tratta, il linguaggio deve essere tutto presente come possibilità, e cioè io posso costruire qualunque proposizione, qualunque articolazione, qualunque pensiero, perché ho già il linguaggio, perché è il linguaggio che mi offre questa possibilità, è esso stesso questa possibilità. Hegel poi parla di necessità, che ascrive proprio a questo, alla necessità che l’autocoscienza si risolva in se stessa, cioè abbia se stessa come oggetto e non possa avere altro se non se stessa come oggetto. Questa è la necessità in Hegel, che pone poi come legge, chiamandola legge del cuore. Dice che questa legge del cuore, questa necessità, si scontra con quella altrui; da qui l’idea di dovermi sacrificare per il bene superiore, perché il bene di tutti è anche il mio e, quindi, io sacrifico la mia individualità per il bene comune, e qui gli umani si inventano la virtù, virtù che si mostra falsa perché questa virtù vuole imporre comunque la mia legge del cuore su tutti gli altri, cioè, è la mia virtù, è quella che io penso che sia la virtù, è la mia morale in definitiva. Nel capitolo Il piacere e la necessità non dice altro che questo, e cioè che il piacere viene sacrificato per via della necessità, necessità che è, sì, l’essere dell’autocoscienza per se stessa, però il piacere dovrebbe essere proprio in questa necessità. Infatti, a pag. 301, dice Questo primo fine consiste nel divenir consapevole di sé, come essenza singola, nell’altra autocoscienza, o nel ridurre a sé quest’altro; l’autocoscienza ha già la certezza che quest’altro, in sé, è già lei stessa. In quanto essa dalla sostanza etica e dal quieto essere del pensare si è elevata al suo esser-per-sé, ha lasciato dietro di sé la legge dell’ethos e dell’esserci, le cognizioni dell’osservazione e della teoria; tutto ciò ha dietro di sé come una grigia ombra che dilegua; ché questo è piuttosto un sapere d’un qualcosa il sui essere-per-sé e la cui effettualità son diversi da quelli dell’autocoscienza. Tutto quanto, come l’osservazione, ecc., viene lasciato alle spalle di fronte all’autocoscienza. Scrive poi Hegel:

Essa disprezza intelletto e scienza,

doti supreme dell’uomo –

si è data al diavolo

e deve andare a fondo.

Non vedo, non posso cogliere nient’altro che questo, sempre e soltanto questo: linguaggio che sta funzionando. In qualunque emozione, sensazione, rabbia, gioia, ecc. Tutte queste proposizioni che costruiscono queste sensazioni non sono altro che il rilevare l’essenza del linguaggio, il suo funzionamento. Capite che una cosa del genere è quanto di più sovversivo si possa immaginare. Per quanto mi risulta nessuno ha portato alle estreme conseguenze queste parole di Hegel, che a mio parere rendono più che pertinente questa considerazione, e cioè il piacere come il godere di essere divenuto se stesso come autocoscienza oggettiva. Qui c’è… ovviamente lo vediamo noi, è il per noi di Hegel… dopo noi lo sappiamo, Hegel non poteva saperlo… Sto parlando della volontà di potenza, questo piacere nell’essere divenuto a se stesso come autocoscienza oggettiva, cioè nell’accorgersi che qualunque oggetto è sempre un oggetto per me, per la mia autocoscienza, cioè, un oggetto del e per il linguaggio. Questo è il piacere. E, in effetti, qual è il piacere, la soddisfazione per gli umani, se non quella di esercitare la volontà di potenza? Volontà di potenza anche intesa come volontà di sapere, come raggiungimento di un sapere. Questa è l’unica soddisfazione che gli umani possono avere, non ce ne sono altre. A pag. 302. Essa giunge dunque al godimento del piacere, alla consapevolezza della propria realizzazione di una coscienza che appare come indipendente, ossia giunge all’intuizione dell’unità di entrambe le autocoscienze indipendenti. Essa raggiunge il suo fine; ma appunto in tale conseguimento indipendente esperimenta qual sia la verità di quel fine stesso. Concepisce sé come questa singola essenza per sé essente;… Cioè: si rende conto di sé. Il rendersi conto di sé è ciò che soddisfa la volontà di potenza. Non a caso abbiamo detto in varie occasioni che la volontà di potenza non è altro che il linguaggio nel suo farsi, nel suo dirsi, non è altro da questo. A pag. 302 (136). Parla dell’autocoscienza. …l’ultimo momento della sua esistenza è il pensiero della sua perdita nella necessità o il pensiero di se stessa come essenza assolutamente estranea a sé. Ma in sé l’autocoscienza è sopravvissuta a questa perdita: ché tale necessità o tale pura universalità è l’essenza sua propria. Questa riflessione della coscienza in se stessa, consistente nel sapere la necessità come sé, è una nuova figura dell’autocoscienza. Quindi, è un sapere della necessità come sé. Necessità sempre intesa come la necessità dell’autocoscienza di sapersi se stessa. In questo sta la necessità, è necessario che la coscienza si accorga di essere ciò che di fatto è, cioè che un sapere di sé, un sapere di sé che non più tornare indietro. Ma questo sapere di sé tiene anche conto del fatto che anche le altre autocoscienze hanno questa consapevolezza di sé. E, allora, come si risolve il problema? Con l’idea dello Stato, dove tutte le autocoscienze si pongono come tesi e come antitesi e lo Stato ne è la sintesi, l’integrazione, che è fatta del lavoro di tutti e di ciascuno, insieme, e cioè lavoro del singolo ma in quanto mondo, perché è entrambe le cose. È singolo perché c’è il mondo e il mondo è perché c’è il singolo, perché se questo singolo non ci fosse, il mondo così com’è non ci sarebbe, sarebbe un’altra cosa; quindi, occorrono entrambi. Questo è l’aspetto politico e anche utopistico dell’opera di Hegel, anche se è stato molto seguito, per esempio, dal marxismo. Ma ciò di cui Hegel non ha tenuto conto in queste sue speculazioni politiche è, invece, proprio la presenza in ciascuno della volontà di potenza. È la volontà di potenza che fa cadere qualunque utopia, perché immaginando questo mondo, questo Stato, non si considera che le persone non sono quelle che si immaginano che possano essere in questo Stato, non si considera, cioè, che le persone sono parlanti e che, quindi, essendo parlanti sono fatte di volontà di potenza. Ora, o questa volontà di potenza, direi quasi hegelianamente, si pone come qualcosa che ha superato, proprio nel senso dell’Aufhebung, la sua contraddizione, cioè ciò che pensa che gli si opponga, e quindi non gli si oppone più ma lo accoglie come elemento costituente di sé. E, allora, questa volontà di potenza non ha più la necessità di mettersi in atto, di rappresentarsi attraverso guerre, combattimenti, ecc., ma diventa quello che tempo fa chiamavo il superpotenziamento intellettuale, cioè accorgendosi che tutto ciò con cui ha a che fare è sempre e soltanto linguaggio, si adopera a lavorare sul linguaggio, perché è l’unica cosa che gli rimane, non c’è niente altro. Lavorare sul linguaggio, sulla sua struttura, sul suo funzionamento, sulle sue finezze, sulle sue astrazioni, sulle sue combinazioni, ecc., un po' come stiamo facendo d’altra parte: intendere sempre e sempre meglio il funzionamento del linguaggio.

Intervento: Per trovare la sua essenza, tutto sommato.

Difficile a dirsi. Non so se è finalizzato a questa cosa, nel senso che la volontà di potenza, certo, è sempre finalizzata al superpotenziamento, e cioè ad acquisire sempre più elementi, ma l’acquisizione sempre maggiore di questi elementi non è il fine propriamente, è l’effetto collaterale del lavoro sul linguaggio.

Intervento: Lo intendevo più come il raggiungimento della consapevolezza di ciò di cui si è fatti.

Sì, certo. E maggiore è la consapevolezza e minore è la necessità di rappresentare, di mettere in scena la volontà di potenza, perché viene tutta assorbita da quello che chiamo superpotenziamento intellettuale, e cioè dal continuo lavoro, dalla continua opera del linguaggio su se stesso, che cerca non più di modificare il mondo per poterlo dominare ma opera soltanto fine a se stessa, perché ormai si è accorta, e non può più non sapere, che qualunque cosa immagini, pensi o faccia, è sempre e comunque se stessa, che è esattamente ciò che diceva Hegel dell’autocoscienza: qualunque cosa trovi trova sempre e soltanto se stessa.