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25-9-2013

 

Le cose che afferma Michael Dummett per qualche verso sono vicine alle cose che andiamo dicendo ultimamente. Incomincia dicendo che c’è una stretta connessione tra significato e comprensione:

/…/ la domanda iniziale non deve essere che cosa è il significato di un enunciato…

Lasciando perdere che la domanda “che cosa è qualche cosa” è la domanda fondamentale dell’ontologia, dice:

In che cosa consiste comprendere il significato di un enunciato?” da questo assunto segue che il significato di un’espressione è ciò che un parlante deve conoscere su quella espressione per comprenderla /…/ una seconda fondamentale assunzione, ma in questo caso sarebbe più appropriato parlare di un dato di fatto, il cui mancato riconoscimento renderebbe, per Dummett, privo di senso il tentativo stesso costruire una teoria del significato /…/ la seconda fondamentale assunzione è il carattere pubblico del significato e quindi dato il primo assunto della comprensione del significato…

Qui siamo in pieno Wittgenstein, ora lui individua, rispetto alla teoria del significato due elementi “il senso e la forza” questo significa:

che un punto fermo della concezione dummettiana è la distinzione anch’essa di origine fregeana di senso e forza, con la messa in evidenza del fatto che la forza di un’asserzione è l’intenzione di emettere un enunciato vero, il fine convenzionale di un’asserzione dunque, cioè il fine costitutivo del ruolo che il fare asserzioni ha nella nostra vita sociale, è quello di emettere un enunciato vero, la forza è una componente generale del significato di un enunciato, è ciò che esso ha in comune con tutti gli altri /…/ il senso invece è una componente individuale del suo significato dunque la componente individuale del suo significato è quella che lo differenzia da tutti gli altri…

Dicevo prima che non è molto lontano da quello che stiamo dicendo ultimamente, e cioè della necessità che un elemento sia riconoscibile cioè abbia un senso, e per questo abbiamo utilizzato anche in parte la teoria della composizionalità. Dummett parla di “teoria della molecolarità” intendendo gli elementi che compongono una proposizione, ma la questione è quella e cioè che per intendere il senso di una proposizione è necessario, o meglio, per usare il termine di Dummett “per intendere il significato di una proposizione è necessario intendere il senso di ciascun termine”. Questo non esaurisce il significato della proposizione ovviamente perché il significato della proposizione è traibile dal gioco linguistico in cui è inserita la proposizione suddetta, anche se lui non parla propriamente di gioco linguistico, infatti lui si contrappone alla visione olista, quella che considera il significato di una proposizione unicamente dal significato di tutte le altre proposizioni del linguaggio, questo sarebbe l’olismo sfrenato, lui parla di olismo ma in termini più moderati, infatti lui parla di molecolarità, che non è altro che il senso di ciascun elemento che compone la proposizione per cui c’è, sì, per Dummett l’idea che l’intera proposizione debba il suo significato al discorso in cui è inserita la proposizione, ma occorre anche che ciascuno degli elementi abbia un senso, poi dice ancora a proposito della verità, del concetto di verità, qui torna a ripetere:

La componente fondamentale del significato di un enunciato asserito è l’intenzione di emettere un enunciato vero…

E quindi deve parlare della verità naturalmente…

Il problema che si pone è quando cerchiamo di mostrare la verità di ciò che è asserito al fine di giustificare le nostre asserzioni e da una parte ci scontriamo con il fatto che la verità di un enunciato è in una certa misura qualcosa di oggettivo, la realtà, dall’altra parte ci sembra del tutto lecito chiedersi in che misura un enunciato possa essere vero indipendentemente dalla nostra capacità di sapere che è vero…

Lui si pone questa questione, che interessa fino ad un certo punto: “se una cosa è vera “naturalmente”, però se io non posso sapere che è vera, che cosa ne facciamo di questa cosa? Non la posso giustificare perché non posso sapere che è vera e quindi a questo punto lui mette in discussione la nozione di verità classica. La nozione di verità classica è quella che definisce più avanti come la “tesi di equivalenza” TE, che significa questo:

Per ogni enunciato alfa di un dato linguaggio L se A è un nome di alfa allora alfa è equivalente ad A ed è vero in L…

Che non è altro che il principio di Tarski, cioè un enunciato alfa di un dato linguaggio, per esempio il linguaggio L, supponiamo che sia italiano, l’enunciato alfa dice Eleonora è alla mia sinistra, ora se A, cioè il nome dell’enunciato “Eleonora è alla mia sinistra” equivale all’enunciato alfa che dice Eleonora è alla mia sinistra allora A è vero in italiano, come dire che la neve è bianca se e soltanto se “la neve è bianca”. Poi a un certo punto dice che

la teoria del significato non può fondarsi sulla verità classica perché questa equivalenza non è sempre vera, ci sono dei casi in cui non è possibile o non è decidibile una cosa del genere e cioè Dummett richiama l’attenzione su un parlante che sa che un certo enunciato è vero poiché poniamo conosce l’uso di “significa” di “denota” di “vero” eccetera ma non sa che cosa in realtà quell’enunciato significa, non sa cioè che cosa è vero…

Se io dicessi “questa mattina ero a Milano”, tu che ne sai se è vero o no, però sai benissimo qual è il senso di tutti gli elementi che compongono questa proposizione però non puoi sapere se è vero o no che sono andato a Milano, per te è indecidibile…

Quello che Dummett vuole dire è che non si può attribuire ad un parlante la conoscenza della condizione di verità di un dato enunciato alfa (cioè il come deve essere fatto il mondo perché alfa sia vero)se non si dice anche come il parlante deve manifestare questa sua conoscenza se messo di fronte a una struttura effettiva cioè se non sa giustificare quello che dice /…/ il senso dell’enunciato è così identificato con la capacità di determinare il valore di verità di quest’ultimo in un qualche modo canonico e acquisire il padroneggiamento di un linguaggio è identificato con l’acquisire tale capacità relativamente ai suoi enunciati…

Anche qui è molto vicino a Wittgenstein, perché in effetti dice che uno capisce il senso di una proposizione quando sa che cosa farsene di quella proposizione…

e quindi in conclusione Dummett può osservare che non esiste alcun modello a cui si possa fare appello per rispondere affermativamente alla domanda se la verità classica possa essere la nozione centrale della teoria del significato non a quello basato su una esplicita spiegazione del significato per la necessaria presenza di una conoscenza implicita…

Riprende la questione del fatto che per conoscere il significato di una certa proposizione, per esempio nel bicondizionale, per conoscere la verità di quello di destra devo conoscere quello di sinistra, che è un altro modo per dire che per imparare a parlare devo già sapere parlare, che è un problema, poi dice…

 non a quello basato su un’esplicita spiegazione del significato per la necessaria presenza di una conoscenza implicita, non al modello osservazionale cioè quello fondato sul possesso delle capacità di riconoscere se gli enunciati sono veri o falsi per la presenza di enunciati indecisi e non effettivamente decidibili…

Quindi lui scarta la verità classica come il principio su cui fondare una teoria semantica e quindi dove si volge? Si volge a una teoria del significato verificazionista, però entro certi limiti, infatti dice che:

di fronte a questo lui abbandona la tesi che la verità giochi un ruolo cruciale nelle nostre facoltà di comprendere un linguaggio /…/ oppure, ed è la via scelta da Dummett, si può continuare a sostenere che un parlante conosce sì, le condizioni di verità di tutti gli enunciati che è in grado di usare correttamente ma che la verità cui, qui si fa riferimento, non è quella classica o realista che è la stessa cosa, la sua proposta infatti di identificare il senso di un enunciato con le sue condizioni, questo è importante, di asseribilità o verificabilità cioè con le condizioni che fissano che cosa conti come verificazione dell’enunciato, cioè come giustificazione di una sua asserzione, nozione centrale della teoria del significato diventa dunque quella di corretta asseribilità o verificazione che punto fondamentale di distinzione tra il concetto neo positivista di verificazione non è concepita come un mero riconoscimento di sequenze dei dati sensoriali ma come una procedura che di norma comporta anche l’effettuazione di passi inferenziali da enunciati ad enunciati, non essendo esclusa la possibilità che talvolta l’esperienza sensoriale non venga neppure toccata.

Qui la questione interessante è che pur volgendo verso una teoria del significato verificazionista, che è quella che deve verificare con la realtà, l’adæquatio rei et intellectus per farla breve, lui si chiede a quali condizioni una certa proposizione è asseribile o verificabile? In base a che cosa? Se ci dice che l’esperienza sensoriale non viene neppure toccata allora questa asseribilità o verificabilità dipende dalle regole del gioco che si sta facendo, non ci sono altre vie, poi insiste ancora sul fatto che la comprensione ha a che fare con qualcosa che si sa fare, dopo di che…

Dummett ha fatto ricorso alla distinzione fra verificazione diretta e indiretta, stabilire indirettamente la correttezza di un’asserzione e quindi la verità dell’enunciato asserito, significa stabilirlo attraverso passi inferenziali che non riflettono la composizione dell’elemento asserito e cioè attraverso un procedimento argomentativo, la comprensione del quale non è immediatamente contenuta nella nostra comprensione del significato dell’enunciato in questione, però i metodi di verificazione diretti sono invece quelli che riflettono la composizione dell’enunciato conformemente al modello del significato adottato…

Quindi la possibilità di costruire una teoria del significato in Dummett rimane comunque legata al fatto che la verificazione indiretta deve passare o deve essere, comunque, riconducibile a quella diretta per essere verificata…

La proposta di Dummett dipende fortemente dall’ipotesi che sia possibile mostrare che da ogni procedimento per stabilire conclusivamente la verità di un enunciato, è possibile produrre con un metodo effettivo un altro procedimento per verificare quella stessa conclusione, il quale ultimo sia però del tipo più diretto…

Che di per sé è una sciocchezza. Anche perché a questo punto si potrebbe facilmente innescare una regressio ad infinitum, perché questo altro procedimento, anche diretto, comunque in base a che cosa verrà verificato?

Il metodo di verificazione diretto sono invece quelli che riflettono la composizione dell’enunciato conformemente al modello di significato adottato e ancora infine è possibile mostrare che ogni verificazione indiretta corretta è riducibile a una diretta…

Quindi lascia aperta la questione al fatto che sia possibile costruire comunque un enunciato vero anche in assenza di un riferimento preciso, che è interessante per quanto riguarda tutta la filosofia analitica, che invece il più delle volte è saldamente ancorata al concetto di realtà e di verificazione. Dice in modo molto esplicito che qualunque asserto, lui parla di forza, ogni asserto ha come obiettivo la costruzione di un asserto vero, e che questo è determinante. Per lui rappresenta uno dei due aspetti inscindibili del significato di una proposizione: il senso, cioè il singolo elemento della proposizione e il fatto che questa asserzione deve necessariamente dire qualcosa di vero, detto in modo così esplicito non era mai intervenuto in vari altri e infiniti altri, anche se Frege indirettamente ci arriva, però noi ci siamo arrivati per altro verso e cioè non partendo dalla necessità di costruire una teoria semantica ma dal funzionamento del linguaggio, e cioè abbiamo preferito una via chiamiamola “retorica”, una via in cui si considera il funzionamento in atto del linguaggio; che cosa fa il parlante ogni volta che apre bocca? Dice delle cose perché queste cose che dice gli servono per affermare delle verità che imporrà, se e quando ci riuscirà, su altri. Sì, è vero che la filosofia analitica non aveva questo obiettivo, però in effetti Dummett è arrivato alla stessa conclusione anche se muovendo da altre vie, e in effetti, se proprio dovessimo dirla tutta, la filosofia analitica non è altro che una teoria semantica della verità, cioè del significato, perché il significato per essere usato deve essere vero, sta qui la questione, se non è vero non è utilizzabile, questo lo dico io naturalmente. C’è qualche altra cosa in questo libello di Marconi su Wittgenstein, motivo per cui l’ho affiancato al testo su Dummett. - Wittgenstein:

se l’intenzione è l’attribuzione del significato e d’altra parte è il progetto di un uso (che cosa vuoi fartene) sembra dunque che il significato sia l’uso, per la grande classe di casi anche se non per tutti i casi la parola significato si può definire così: il significato di una parola è il suo uso nel linguaggio. (Ricerche filosofiche). I casi in cui ciò non avviene e cioè che il significato sia l’uso sono quelli ipotetici in cui un nome viene sempre usato in presenza del suo portatore e quindi può sempre essere sostituito dal pronome /…/ l’essenza è espressa nella grammatica (Ricerche filosofiche) nel linguaggio l’unico correlato di una necessità naturale è una regola arbitraria…

Insomma sta dicendo cose che diceva anche De Saussure, e cioè che la sintassi è arbitraria ma non è arbitrario il fatto che ci sia, poi quali siano le regole che uno utilizza questi sono affari suoi, ma non può fare un gioco senza delle regole, questa è la questione fondamentale. Anche qui parla del senso come verificazione…

/…/ dunque non parlo affatto del senso e di che cosa è il senso ma resto del tutto nell’ambito della grammatica e se ora mi si dice “una proposizione ha due verificazioni diverse” faccio notare che queste verificazioni sono descritte da verificazioni diverse, dunque nel dedurre la stessa proposizione siamo proceduti in base a regole diverse e di più non volevo dire! /…/ la sintassi infatti non può essere fondata essa è dunque arbitraria…

Il fatto che non possa essere fondata questo non significa affatto che non ci sia, perché se non ci fosse la sintassi non ci sarebbe il gioco. Sono tutte questioni che si intrecciano ininterrottamente. Ciò che mi interessava farvi notare è che anche altri sono giunti a qualcosa di molto prossimo a ciò che stiamo facendo muovendo da giochi diversi…

/…/Definizione di “modello”: un esempio concreto o un insieme di entità che soddisfi le condizioni enunciate dal sistema assiomatico. Nicola Abbagnano – dizionario di filosofia. /…/ la legge scientifica non è una spiegazione della realtà ma una sua forma di rappresentazione, spiegare significa ricondurre ad un principio mentre nella scienza ciò che potrebbe essere considerato “principio”, ad esempio gli assiomi della meccanica, è forma della rappresentazione e nulla dice intorno al mondo. Tutto il resto, tutte le proposizioni sono di ugual valore, tutta la moderna concezione del mondo si fonda sull’illusione che le così dette “leggi naturali” siano le spiegazioni dei fenomeni naturali (Tractatus) così ristanno alle leggi naturali come a qualcosa di intangibile, come gli antichi a dio o al fato. Così la necessità naturale del positivismo è la necessità logica della struttura della nostra rappresentazione del mondo. /…/se dovessi descrivere la grammatica dell’ipotesi direi: essa non segue da nessuna proposizione singolare e da nessuna quantità di proposizioni singolari, in questo senso essa non è mai verificata.

Dice che l’ipotesi non è mai verificata…

/…/ un ipotesi non è un’asserzione ma una legge di costruzione di asserzioni, ciò che osserviamo sono sempre sezioni della struttura, ciò si accorda con quanto abbiamo detto finora sulla legge naturale consideriamo un caso molto semplice di legge naturale, la legge del moto di un corpo rigido che possa essere considerato come un punto materiale espresso da una funzione la cui rappresentazione grafica sul piano cartesiano sia un ellisse, è chiaro che ciò che noi osserviamo sono singole posizioni del corpo, ciò che verifichiamo sono asserzioni relative alla posizione del corpo in un dato istante T, nulla ci garantisce che il corpo continuerà a muoversi lungo la traiettoria raffigurata dall’ellisse, che ciò avvenga è un’ipotesi, essa costituisce la forma delle asserzioni relative alla posizione del corpo negli istanti T0/T1/T2 … Tn essa è la legge di costruzione di quelle asserzioni, essa non segue logicamente da una singola asserzione relativa alla posizione del corpo ad un dato istante né da molte asserzioni del genere, perciò una legge naturale non può essere né verificata né falsificata…

E se stesse parlando della realtà? In effetti le leggi naturali sono le leggi della natura quindi della realtà, e questo è interessante: la realtà come un’ipotesi, un’ipotesi che dice che è comoda, che è utile ma è un’ipotesi quindi non è di per sé né vera né falsa dire che la realtà è vera o falsa non significa niente ci sta dicendo tra le righe Wittgenstein, non è che lo dica in modo esplicito, però:

/…/ e un’ipotesi sarà tanto più probabile quanto più scomodo è abbandonarla e cioè quanto più alto è il prezzo che deve essere pagato perché la si abbandoni, il prezzo naturalmente è il numero e l’importanza dei fenomeni contrastanti con la legge /…/ Una sola cosa al mondo possiamo postulare ed è il nostro modo di espressione…

E se fosse il linguaggio l’unica cosa che possiamo postulare?

/…/Se per conoscenza empirica si intende una conoscenza che può essere espressa da una proposizione ovviamente come quando si parla di “osservazione empirica” allora la conoscenza che abbiamo della sintassi non è empirica, empirico è ciò che potrebbe essere diversamente, l’esperienza è il dominio dell’accidentale ma la sintassi che è la forma della nostra rappresentazione della realtà non è empirica. Come vedete in tutto ciò che stiamo dicendo ultimamente c’è un qualche cosa, per usare, questo sì è un termine di Marconi, rispetto alla sua teoria della competenza lessicale, che “converge”. Tutte queste cose è come se ci conducessero a un qualche cosa di straordinariamente complesso per un verso, però anche di straordinariamente semplice, e la semplicità ci viene dall’avere inteso come si costruisce l’intelligenza nelle macchine, senza questo saremmo rimasti, probabilmente, impastoiati nella stessa pastoia in cui si è trovata la filosofia analitica, che è anche il motivo per cui la stanno abbandonando, perché oltre non può andare, perché se una proposizione deve verificarne un’altra, allora la prima chi la verificherà? Poi di fatto il problema della filosofia analitica cioè di tutte le teorie semantiche è questo: in base a che cosa stabiliamo qual è la prima proposizione vera che utilizzeremo come paradigma? Sì, la realtà, ma anche la realtà come alcuni si sono accorti, fortunatamente, la realtà non è fatta che di proposizioni e quindi siamo daccapo. Ecco che a questo punto la tragedia si profila all’orizzonte della filosofia analitica, e cioè non il fatto di non riuscire a trovare una teoria semantica soddisfacente, ma l’impossibilità di trovare una teoria semantica a seguito dell’impossibilità di reperire un significato di ultima istanza che dia un senso a tutto quanto. Ora si stanno rivolgendo alle neuroscienze, che naturalmente non possono dire nulla. Ma la cosa invece è straordinariamente semplice, ed è il modo in cui funziona la macchina: sono istruzioni. Sono informazioni e istruzioni per processarle. Che cosa stabilisce il significato di una certa sequenza? Le regole che io ho stabilito di volta in volta, cioè le regole stabilite dal gioco. Tutto qui, non c’è nient’altro, è il gioco, le regole di quel gioco che sono assolutamente arbitrarie ma, come abbiamo visto sia in Dummett che in Wittgenstein, “non è affatto arbitrario che ci siano oppure no” se vogliamo giocare: se c’è un gioco, c’è una sintassi, c’è una grammatica e c’è una semantica, ci sono tutte queste belle cose necessariamente. La semplicità di tutto questo meccanismo è dato dal fatto che di volta in volta il significato è fornito dalle regole che si stanno utilizzando in quella occasione, utilizzando naturalmente delle informazioni che hanno quel senso che consente a questi elementi, a questi termini di potere essere utilizzati, cioè il dizionario che ti dice che una certa parola puoi usarla entro certi ambiti, non ti dice nient’altro che questo, dice che una parola ha certi riferimenti, più o meno. Più o meno perché come abbiamo visto i dizionari spesso sono in contrasto fra loro, però è utilizzabile in questo modo, poi come verrà utilizzata…

Intervento: sono arrivati a intendere che nulla è definibile però non hanno inteso cos’è che spinge a fare ciò…

Che cosa spinge? Dummett ha inteso che è la necessità di affermare un asserto vero, che non è poco, c’è questa necessità, per lui è costitutiva del significato di una proposizione…

Intervento: ma vero in assoluto? Lui non parla di giochi linguistici…

No, Dummett no, anche se conosce chiaramente Wittgenstein molto bene, però non ne parla esplicitamente, parla di regole di composizionalità, ma questo enunciato è vero in base a che cosa? Lui a un certo punto arriva a dire che è vero se è giustificabile, cioè se lo posso giustificare in base a delle regole, quali regole?

Intervento: è vero in che senso?

È vero ciò che è asseribile in base alle regole stabilite dal sistema, che non è male come ipotesi, infatti nella conclusione dice proprio questo “è vero in base alle regole stabilite dal sistema”. Mi sembra abbastanza interessante, cioè io devo costruire il significato di quello che dico che è composto anche dalle necessità di dire qualcosa di vero, e questo qualcosa di vero lo sarà soltanto in base alle regole stabilite dal sistema…

Intervento: non è giunto a intendere il funzionamento del linguaggio…

Questo è complicato, è quel passo che nessuno di loro ha mai fatto e che comporta la recursione, e cioè l’attribuire alle stesse conclusioni cui è giunto Dummett, alle sue stesse argomentazioni. Questo rende immediatamente chiaro che si tratta di sequenze di giochi linguistici, nient’altro che questo, per cui giungere alla verità di per sé non significa assolutamente niente, perché la verità è una costruzione, è un sostantivo femminile singolare che ha un certo uso, ma non è nient’altro che un qualche cosa inserito all’interno di un discorso che gioca in un certo modo, per cui chiedersi qual è la verità di un enunciato può avere una utilità per potere proseguire quello specifico gioco in cui quell’elemento è inserito, nient’altro.