25/9/1996
Il passo che abbiamo compiuto in questi ultimi tre anni, formidabile rispetto a qualunque altra elaborazione, è il considerare unicamente le cose che non possono non dirsi dal momento che si parla, e questo nessuno l’ha fatto in precedenza ed è questo il passo che consente di constatare, mentre si compie un’elaborazione, logica, per esempio, che ciò che interviene in ciò che si elabora riguarda la struttura in cui mi trovo, se questo non avviene, sarò sempre costretto a cercare in qualche cosa fuori dal linguaggio l’appiglio, l’aggancio tale per cui ciò che dico sia garantito da qualche cosa fuori dalla parola, e c’è sempre nei logici, nei linguisti la necessità di aggrapparsi a qualche cosa che garantisca ciò che si dice.
C’è l’eventualità che non sia più necessario sapere quali siano i luoghi comuni, ma attenersi soltanto e con estremo rigore a ciò che la persona dice. Rispetto ad un discorso che voi ascoltate, voi sapete, già per il fatto che la persona vi sta parlando, tutta una serie di cose, ma provate a pensare di non sapere assolutamente niente, zero, nulla, l’unica cosa che sapete è che vi sta parlando e gli strumenti che avete in mano anziché essere una serie di modelli, di parametri da utilizzare per ricondurre ciò che questa persona vi sta dicendo a delle cose immaginate note o comunque frequenti. Se dice questo, vorrà dire... oppure sarà così. Senza nulla di tutto questo, voi cosa avete di fronte? Soltanto una sequenza, una successione di proposizioni, che in teoria potrebbero essere proferite da una macchina.. Ora non è la stessa cosa, perché la macchina agisce o reagisce in altri modi, ma di fatto sono proposizioni che non hanno alcun senso, hanno significato ma non hanno alcun senso qualunque cosa siano. Ora per questa persona che le dice ce l’hanno ovviamente, ma per voi che ascoltate no, non hanno alcun senso.
- Intervento: affinché avvenga che io ascolti una stringa di significati, ce ne vuole di analisi.
Non lo so quanto ci voglia, so che stiamo elaborando anche un modo, perché questo possa farsi, se non con estrema, con maggior rapidità, ma dicevo dunque siete di fronte a una sequenza di proposizioni costruite con una certa sintassi, in una certa lingua, con una certa forma, ma non hanno alcun senso, vuol dire che vi trovate di fronte a proposizioni che non vi riconduco assolutamente a niente, non hanno nessun rinvio mentre le ascoltate. È come se vi costringessero a domandare con una certa frequenza informazioni, perché possa trarsi un rinvio da queste proposizioni, ma non perché voi capiate (analisti), non capendo nulla, succede che di ciascun elemento che interviene, viene chiesto di poter rendere conto, proprio perché, si produca del senso ma non per l’analista, per la persona che sta parlando, perché per la persona che dice ha un senso e anche molto ben stabile. La questione che si tratta di affrontare in una analisi è che il senso che l’analizzante, che sta parlando incontra, che crede che esista in ciò che sta dicendo, è il senso che da alle parole che dice, che lo fa stare male. Ora questa operazione che indicavo prima del domandare, perché si produca del senso non tanto per ascoltare ma perché si produca dell’altro senso come supplemento per chi sta parlando, è in effetti la condizione perché questo senso si moltiplichi. Quando parlavo di infinitizzazione di un percorso, di un processo, intendevo proprio esattamente questo e cioè io parlo, che senso ha quello che dico? Mentre lo dico qualcosa si produce in me, però generalmente cosa avviene che questo senso che si produce è uno, è uno solo ed è preso come la manifestazione di uno stato di cose, cioè per me questa cosa vuol dire questo e immediatamente mi muovo in quella direzione, come se non ce ne fossero altre. Supponete invece parlando che il senso che si produce, sì mentre dite è quello, ma immediatamente vi si affacciano altri, adesso non è che uno pensi così, ma per illustrare: sì io penso che sia così ma in effetti altrettanto legittimamente potrebbe essere esattamente il contrario o in qualunque altro modo e allora perché ho pensato questo? Cosa mi ha condotto proprio a pensare in quel modo anziché in un altro, allora c’è qualcosa nel mio discorso che mi ha mosso a pensare quello, e allora che cosa? È ciò che indicavamo prima come desiderio, per dargli un nome, qualcosa che mi muove in una certa direzione anziché in un’altra, questo mi mostra immediatamente, mi mette sotto gli occhi che cosa io desidero, o più propriamente che cosa si desidera nel discorso in cui mi trovo. E di questo cosa ne faccio? Ne tengo conto, tengo conto che in una certa cosa, rispetto a una certa cosa c’è del desiderio che mi riguarda anziché, per esempio, attenermi unicamente al fatto di pensare invece che non la voglio per nulla e quindi voglio evitarla a tutti i costi. A questo punto ho due elementi: uno, la voglio evitare, due, la voglio anche avere, e non posso eliminarne una a vantaggio dell’altra perché so, constato che esistono entrambe, ma a quel punto non è che c’è paralisi come il famoso asino di Buridano. Allora il percorso, per così dire, del desiderio: non voglio fare questa cosa, e invece no, invece la fa.
Ecco i due aspetti: dire che non voglio farlo e allo stesso tempo farlo.
Due aspetti, uno che è riconosciuto, l’altro no, perché? Teniamo conto del discorso e quindi anche di ciò che il discorso muove a fare. Se io mi muovo in una certa direzione è perché comunque una serie di affermazioni, di considerazioni mi muovono in quella certa direzione. Allora, dicevamo, la cosa che si teme in alcuni casi comporta simultaneamente questo altro aspetto.
- Intervento: Per il solo fatto che io lo pensi può essere che lo desideri?
Dipende da cosa si intende con “desiderare”, qui possiamo soltanto dire che la questione che pone, se l’ha pensata.
- Intervento:... il fatto che uno pensi delle cose dipende dalle circostanze...
Il confine è molto labile e quello che sto dicendo non può porsi come legge, in effetti in molti casi...
- Intervento:...
Qualcuno domanda: Monica Rama, Lei vuole morire?
- Intervento: No, non voglio!
Questo non ci autorizza a pensare che siccome Monica Rama ha detto che non lo vuole, allora lo vuole. Non ci autorizza affatto a pensarlo, vi ho fatto l’esempio più estremo. Non è possibile senza elementi fare un discorso del genere, è possibile fare questa considerazione (che ciò che non voleva è anche ciò che vuole) lungo una conversazione dove gli elementi mano a mano affiorano e nel discorso questa questione si pone, ma certo affermarlo così è assolutamente gratuito. In effetti se uno dice qualcosa, ciò che sappiamo è che lo riguarda, se la dice è perché la pensa, detto questo non abbiamo detto molto come appunto la domanda se Monica Rama “vuole morire” non ha molti elementi e allora dobbiamo pensare che invece vuole? In base a che cosa?
- Intervento:...
Si, siete di fronte a delle proposizioni che non hanno alcun senso. Se questo senso invece (per la persona che parla, l’analizzante) si moltiplica, allora dicevamo che questo senso non la costringe più a muoversi in quella direzione, ma si trova di fronte a ben più vasta scelta. Ci sono alcuni casi dove qualcosa avviene in termini costrittivi: laddove qualcosa si ignora, muove in una certa direzione, allora lì in effetti non è possibile che si produca un senso differente, cioè che ci sia dell’altro senso possibile, la cosa è così e basta, come per esempio nel caso in cui uno ha paura del topo, c’è una costrizione, cioè se c’è il topo fa un salto di paura e non può non farlo (come nella fobia) In altre condizioni invece se passa il topo, sì, dà fastidio, ma si accorge che non ha più quella portata di prima, forse si trova in una condizione in cui continua a dargli fastidio, ma non deve più aggrapparsi al primo che capita o fare tutta una serie di operazioni, non c’è più quella costrizione a saltare e ad aggrapparsi al primo che trova. Non ha più quella necessità.
L’itinerario che stiamo facendo è quello di consentire di cessare di avere paura, quando parlo di costrizione in qualche modo parlo anche di paura, cioè se non faccio questo allora sto male, non è un percorso che costringa a muoversi in una direzione anziché in un altra, semplicemente toglie, dissolve tutto ciò che costringe a fare una certa cosa. Tutto il resto lo lascia tale e quale. Come dire: non avere più paura, uno che non ha più paura cosa fa? Fa grosso modo le cose che faceva prima, magari meglio, magari con minori impedimenti.
Prendete il caso limite della fobia, la fobia può arrivare al punto tale che una persona non può uscire di casa perché ha paura di tutto. Cosa avviene lungo questo itinerario? Avviene che l’interesse verso le cose muta, è come se si instaurasse una sempre maggiore esigenza di incontrare cose che provochino, producano altri pensieri. Meglio: si pretende molto di più dalle cose, nel senso che si esige da queste cose che producano, che mettano in moto dei pensieri che facciano qualcosa. Non è molto differente da ciò che avviene in un bambino e da ciò che avviene in un adulto. Perché un adulto si diverte di meno con certe cose? Perché se le facesse perderebbero buona parte di quella attrattiva di quand’era bimbetto. Èun percorso che se si instaura può divenire irreversibile. Per me, per esempio, lo è divenuto. E allora sì moltissime cose che interessavano perdono la loro attrattiva, perché si coglie di queste cose la “povertà” rispetto ad altre cose che sono molto più potenti, che producono pensieri molto più forti. Possiamo dirla così: si esige, si pretende molto di più dalle cose e quindi necessariamente e soprattutto anche dal proprio discorso. Ecco perché si instaura un processo oltreché irreversibile, senza fine, perché si pretende sempre di più soprattutto dal proprio discorso dai propri pensieri.
Rendere tutto ciò che abbiamo fatto straordinariamente semplice, e anche irrinunciabile; come abbiamo detto mille volte, esattamente allo stesso modo in cui si accoglie necessariamente qualcosa che non può non essere e invece non si riesce ad accogliere una cosa che si sa essere falsa. Se si instaura un processo come quello che stiamo producendo, effettivamente c’è una sorta di rincorsa al pensiero, al proprio soprattutto, una necessità di acquisire altri elementi perché i propri pensieri producano altri pensieri, più potenti, più interessanti, più degni. E diventa irreversibile perché queste altre cosa non dicono più molto, cioè se le si interroga non hanno un granché da dire, e allora non ci si accontenta più e si avverte la necessità di rivolgersi ad altre cose. Queste altre cose, se portate alle estreme conseguenze, è come se si assottigliassero per un verso, per l’altro invece diventano sempre di più. Perché prima erano come allo stretto, ora si infinitizzano, e diventano uno sterminio, qualcosa che al solo affacciarsi può dare le vertigini, e in effetti la produzione del pensiero non ha né confini né limiti, tranne quelli imposti dal linguaggio attraverso cui avvengono queste operazioni. Ma questo è in prima istanza ciò di cui teniamo conto, di cui non possiamo non tenere conto, l’alternativa è il discorso religioso, cioè quello che crede che ci sia una cosa, almeno una cosa fuori dal linguaggio. Ci sarebbe da domandarsi come lo sa.
Abbiamo ripreso un po’ il programma e l’intento che ci sta muovendo, e forse qualcosa in più abbiamo mostrato. Perché la ricerca teoretica si mostra ad un certo punto la cosa più interessante? Non perché abbia qualche virtù, ma perché ciò che risponde, il resto, non è più sufficiente, non basta, come se di fronte a qualunque cosa sia dimostrata ci si domandasse: e allora? Che cosa mi dà tutto questo? Può fare ovviamente queste cose ed occuparsene, ma in modo non molto differente dal modo in cui può farle il nonno che gioca a birille con il bimbetto, e cioè per fare giocare lui.
Ed è anche il motivo che ci spinge a leggere sempre di più e a vedere che cosa anche gli altri stiano facendo, dicendo, e finora abbiamo considerato che nessuno si è spinto aldilà di quello che stiamo facendo. E questo comporta anche il piacere di riprendere cose antiche, prendete la Metafisica di Aristotele, è uno di quei testi, uno dei pochi che producono ciascuna volta sempre altre riflessioni. Bisognerebbe trovare il modo per cui ciò che si scrive sia sempre interessante, anche fra cinquantamila anni, almeno. Cosa vuol dire che una cosa sarà interessante fra cinquantamila anni? Che dice qualcosa che riguarda una struttura che permane, quella del linguaggio, e che chiunque considererà in qualunque modo o in qualunque lingua, chiunque utilizzerà questa struttura, il linguaggio avrà sempre questa configurazione: non potrà mai dire due cose simultaneamente, se di due cose afferma che l’una è vera e l’altra è falsa, sarà questo che ha detto. Cose molto semplici, ma irrinunciabili, per l’esistenza stessa del linguaggio.