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25 agosto 2021

 

Metafisica Aristotele

 

Della Metafisica di Aristotele faremo una lettura differente dalla lettura che viene fatta generalmente. Nel primo Libro parla delle cause. Per conoscere qualcosa, così com’è, occorre conoscere le sue cause, da dove arriva, il principio. Infatti, lui parla sia di ρχή sia di ατία, cioè, di principio e di causa, ma spesso indicano la stessa cosa. Comincia dicendo che Tutti gli uomini per natura tendono al sapere. Intanto, questo esordio potrebbe essere problematico, nel senso che è un’affermazione non necessaria. In effetti, come fa a saperlo? Segno ne è l’amore per le sensazioni: infatti, essi amano le sensazioni per se stesse, anche indipendentemente dalla loro utilità, e, più di tutte, amano la sensazione della vista:… Questo vale per i Greci soprattutto … in effetti, non solo ai fini dell’azione, ma anche senza avere alcuna intenzione di agire, noi preferiamo il vedere, in certo senso, a tutte le altre sensazioni. E il motivo sta nel fatto che la vita ci fa conoscere più di tutte le altre sensazioni e ci rende manifeste numerose differenze fra le cose. Sì, anche, certo, però vediamo già da subito, e lo vedremo ancor meglio più avanti, come spesso le argomentazioni di Aristotele siano costruite come entimemi, e cioè come sillogismi la cui premessa maggiore è arbitraria. Un po’ come questa: Tutti gli uomini per natura tendono al sapere. Li ha intervistati tutti, uno a uno? E se anche fosse così non ne avrebbe comunque la certezza. È una questione questa interessante perché buona parte delle argomentazioni muovono per giungere poi a delle affermazioni che appaiono essere certe, muovono dalla chiacchiera: molti dicono che…, si dice che… Spesso viene utilizzato questo come premessa. Questo ci dice che le argomentazioni sono costruite retoricamente, sempre, tutte, e questo ci rimanda naturalmente a ciò che stiamo facendo: tutte le argomentazioni che ci hanno condotti alle affermazioni che facciamo sono supportate da argomentazioni che sono necessariamente retoriche. Quando queste argomentazioni retoriche diventano necessarie? Quando riflettono su loro stesse e cercano di intendere non la causa, come vorrebbe Aristotele, ma la condizione – Aristotele usa spesso in effetti ατία anche nel senso di condizione – la condizione necessaria, nel senso che se non ci fosse il dire, l’atto di parola, il linguaggio, allora non ci sarebbe nemmeno tutto il resto. Ma, come abbiamo detto spesso, tutte le argomentazioni che vengono costruite hanno un fondamento retorico. Per es., nella Politica Aristotele dice che l’uomo è un animale politico, nel senso che sarebbe, sempre per natura, portato ad aggregarsi etc… Non ne sarei così sicuro. Qui c’è una questione che mi interessava porre, che con la Metafisica c’entra solo fino a un certo punto. In effetti, ciò da cui gli umani sono attratti sono gli enti. È come se ogni ente fosse una domanda, come se ogni ente domandasse di essere dominato, quindi di essere conosciuto. Certo, in questo senso Aristotele non ha torto parlando del sapere, solo che gli sfugge a che cosa serve questo sapere. Ciascuno è circondato da enti e ogni ente è un qualche cosa che domanda di essere conosciuto, cioè, di essere dominato. Gli enti, ma anche le persone, naturalmente. Ecco perché è così facile per gli umani essere distratti: si trovano circondati da enti, ciascuno di questi enti vuole essere una domanda, anzi, è una domanda, domanda di essere conosciuto, quindi, dominato, controllato. Naturalmente, questa distrazione distrae letteralmente dal pensiero. Volere essere distratti significa volere occuparsi degli enti e rispondere a questi enti, volendo controllarli, dominarli. E gli enti sono tanti, sono una infinità. Questa necessità è insita nella struttura del linguaggio, potremmo dire nella volontà di potenza. Questo accade anche per es. quando il pensiero per qualche motivo non riesce a dominare ciò che vorrebbe. E, allora, cosa fa? Si rivolge agli enti, si rivolge a cose che più facilmente pensa, crede di potere dominare. Questi enti sono in fondo più o meno conosciuti e, quindi, è relativamente facile pensare di averne il controllo, il dominio. Quindi, ecco la necessità di interrompere, per così dire, il pensiero per rivolgersi a qualche cosa di più confortevole, qualche cosa che già si conosce, perché gli enti in fondo, bene o male, si conoscono. Si mette, quindi, in atto questo: ciascun ente è una domanda cui è più facile rispondere. E questo dà naturalmente quella sensazione di soddisfazione e anche di piacevolezza, tutto sommato. Piacevolezza nel senso che è come se si rimettessero le cose a posto. Gli enti mi domandano e io so rispondere perché so che cosa sono. È ovvio che questa soddisfazione, che gli enti producono, è poca cosa, cessa molto rapidamente, nel senso che si fa un gioco, certo, conosciuto, noto, ecc., ma proprio perché è un gioco noto e conosciuto non dà una grande soddisfazione. Ecco, quindi, che cosa cercano gli umani, che cosa vogliono continuamente: rispondere a questi enti che domandano, che domandano continuamente, ma rispondere a questi enti in quanto conosciuti, in quanto domestici, in modo da trovare una più rapida, immediata, anche se molto labile, soddisfazione. In alcuni casi però funziona, anzi, direi che per le persone funziona ininterrottamente, ed è per questo sono attratte continuamente dalle cose. La curiosità che mostrano gli umani è questa: vedere se conosco tutti gli enti, e se ce n’è uno che non conosco devo in qualche modo inserire anche lui tra le cose conosciute. A questo punto diventa più chiaro, intendendo la questione della volontà di potenza, il motivo per cui gli umani sono sempre alla ricerca di enti. Come dicevo, gli enti sono naturalmente anche le persone, persone da dominare, da controllare, da riconoscere come qualcosa di domestico, di gestibile. In fondo, il tentativo di Aristotele è in buona parte proprio questo: ricondurre ciò che i presocratici avevano mostrato come l’ingestibile, l’indomabile del pensiero, ricondurlo a qualche cosa di domestico attraverso il fine (τέλος), che poi nel quotidiano si traduce nel “A che cosa serve? Cosa me ne faccio? Mi è utile? Se sì, come?”. È il volere sapere questo, il volere conoscere il fine delle cose. Adesso vedremo perché è così importante per Aristotele. 981a 25. E, questo, perché i primi sanno la causa, mentre gli altri non la sanno. Gli empirici sanno il puro dato di fatto, ma non il perché di esso; invece gli altri conoscono il perché e la causa. Qui deve supportare la sua ricerca delle cause. 981b 10. Inoltre, noi riteniamo che nessuna delle sensazioni sia sapienza:… Qui c’è il problema che aveva già posto Platone, della ασθησις e del sapere …infatti, se anche le sensazioni sono, per eccellenza, gli strumenti di conoscenza dei particolari, non ci dicono, però, il perché di nulla: non dicono, per esempio, perché il fuoco è caldo, ma solamente segnalano il fatto che esso è caldo. 981b 20. Di qui, quando già si erano costituite tutte le arti di questo tipo, si passò alla scoperta di quelle scienze che non sono dirette né al piacere né alle necessità della vita, e ciò avvenne dapprima in quei luoghi in cui gli uomini dapprima furono liberi da occupazioni pratiche. Per questo le arti matematiche si costituirono per la prima volta in Egitto: infatti, là era concessa questa libertà alla casta dei sacerdoti. 982a 10. Ancora, reputiamo che, in ciascuna scienza, sia più sapiente chi possiede maggiore conoscenza delle cause e chi è più capace di insegnarle ad altri. Riteniamo anche che, tra le scienze, sia in maggior grado sapienza quella che è scelta per sé e al puro fine di sapere, rispetto a quella che è scelta in vista dei benefici che da essa derivano. E riteniamo che sia in maggior grado sapienza la scienza che è gerarchicamente sopraordinata rispetto a quella che è subordinata… 982a, 20. Di tale natura e di tal numero sono, dunque, le concezioni generalmente condivise intorno alla sapienza e intorno ai sapienti. Ora, il primo di questi caratteri – il conoscere ogni cosa – deve necessariamente appartenere soprattutto a chi possiede la scienza dell’universale: costui, infatti, sa, sotto un certo rispetto, tutte le cose (particolari, in quanto queste sono) soggette (all’universale). E le cose più universali sono, appunto, le più lontane delle apprensioni sensibili. Qui continua a insistere per dimostrare che è importante conoscere le cause. Qui arriva alla questione. 982b 5. …quella che più deve comandare sulle dipendenti, è la scienza che conosce il fine per cui vien fatta ogni cosa; e il fine, in ogni cosa, è il bene, e, in generale, nella natura tutta, il fine è il sommo bene. Questa idea di porre il fine come il sommo bene ha un’importanza teoretica straordinaria. Il fine è il finito. Tolgo di mezzo l’infinito, l’indeterminato, l’πείρων, e impongo il fine; le cose sono finite e, quindi, come ci dirà tra poco Aristotele, sono conoscibili, altrimenti non sarebbero conoscibili. Ma per fare questo deve imporre la finitezza e lui lo fa attraverso l’imposizione del fine, dicendo che il fine è il bene. Perché il bene? Perché è ciò che illude di conoscere, in quanto espunge l’infinito, che è appunto ciò che impedisce la conoscenza totale, assoluta, certa, che invece si presuppone avendo a che fare solo con il finito. 982b 10. Che, poi, essa non tenda a realizzare qualcosa, risulta chiaramente anche dalle affermazioni di coloro che per primi hanno coltivato filosofia. Infatti gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia (θαμα). Mentre da principio restavano meravigliati di fronte alle difficoltà più semplici, in seguito, progredendo a poco a poco, giunsero a porsi problemi sempre maggiori: per esempio i problemi riguardanti i fenomeni della luna e quelli del sole e degli astri, o i problemi riguardanti la generazione dell’intero universo. Ora, chi prova un senso di dubbio e di meraviglia riconosce di non sapere; ed è per questo che anche colui che ama il mito è, in un certo qual modo, filosofo: il mito, infatti, è costituito da un insieme di cose che destano meraviglia. Cosicché, se gli uomini hanno filosofato per liberarsi dall’ignoranza, è evidente che ricercano il conoscere solo al fine di sapere e non per conseguire qualche utilità pratica. Solo al fine di sapere. Naturalmente, questo Aristotele lo dà come acquisito. Da che cosa trae la sua argomentazione? Dal fatto che quando le persone non sono più oberate da incombenze quotidiane hanno quel momento di rilassatezza possono pensare, oppure sono circondate da schiavi allora possono dedicarsi ad attività intellettuali. Non gli passa neanche per la mente, naturalmente, che il sapere abbia invece un suo fine ben preciso, che non è il fine che intende lui come il bene ma il fine di dominare le cose. È per questo che gli umani vogliono conoscere gli enti: per poterli dominare, controllare, sennò non importerebbe loro assolutamente nulla. E il modo stesso in cui si sono svolti i fatti lo dimostra: quando già c’era pressoché tutto ciò che necessitava alla vita ed anche all’agiatezza ed al benessere, allora si incominciò a ricercare questa forma di conoscenza. È evidente, dunque, che noi non la ricerchiamo per nessun vantaggio che sia estraneo ad essa; e, anzi, è evidente… Evidente da che cosa? Dal fatto che molti hanno fatto questo quando non avevano niente da fare? Dove sta questa evidenza? …come diciamo uomo libero colui che è fine a se stesso e non è asservito ad altri, così questa sola, tra tutte le altre scienza, la diciamo libera: essa sola, infatti, è fine a se stessa. Il che non è neanche vero, non è fine a se stessa ma è fine alla conoscenza, e cioè al raggiungimento del bene; quindi, è comunque finalizzata. Cap. III, 983a 25. È chiaro, dunque, che occorre acquistare la scienza delle cause prime: infatti, diciamo di conoscere una cosa, quando riteniamo di conoscerne la causa prima. Ora, le cause vengono intese in quattro significati diversi: 1) In un primo senso, diciamo che causa è la sostanza e l’essenza: infatti il perché delle cose si riconduce, in ultima analisi, alla forma: e il primo perché appunto è una causa e un principio; 2) in un secondo senso, diciamo che causa è la materia e il sostrato; 3) in un terzo senso poi, diciamo che causa è il principio del movimento; 4) in un quarto senso, diciamo che è causa quella opposta a quest’ultima, ossia lo scopo e il bene: infatti, questo è il fine della generazione e di ogni movimento. Dunque, le quattro cause. La prima è la forma, εδος, ciò che appare. Per il greco è il fenomeno, che appare in quella forma, quindi, così com’è. La forma non è altro che il così come la cosa si mostra. Poi, c’è la materia, il sostrato. La materia è ciò che per Aristotele non può stare senza la forma. Qui occorrerebbe fare una precisazione rispetto a Platone. Platone toglie la materia, la considera una cosa da poco e considera la forma come l’unica cosa degna di essere pensata, quindi, distaccata da ogni sensibile. Per Aristotele, quindi, non c’è la materia senza la forma perché, e di questo ne parla anche nel De generatione et corruptione, non posso vedere la materia se non in una forma. Poi, c’è la causa efficiente. La causa efficiente è l’intenzione di fare qualcosa. Da ultimo, la causa finale, quella che dà un senso a tutto, mostra il motivo per cui si fa tutto, e cioè per il bene, perché senza la causa finale, senza il motivo ultimo, tutte queste cose, secondo Aristotele, cessano, non ci sono. Cosa che in parte è vera, ma non per il motivo che pensa lui. Possiamo intendere a questo punto la materia come il significante, che non c’è senza la forma, cioè senza il significato, quindi, la forma è il segno in de Saussure. Poi, c’è la causa efficiente, cioè, la mia intenzione di dire qualcosa. Infine, c’è la causa finale, cioè il motivo per cui dico, ed è il motivo per cui dico che dà un senso a tutto quanto. Solo che il motivo per cui dico – è ciò di cui parlava Nietzsche – è la volontà di potenza, è il dominio, il controllo sulle cose, il controllo su ciò che dico, è il tentativo di ricucire quello squarcio che si apre parlando tra il dire e ciò che il mio dire, dice. Ecco, dunque, le quattro cause di Aristotele che mettono in primo piano la forma. La forma è quello che appare rispetto a una qualunque cosa, è la prima cosa che si vede. Naturalmente, non c’è la forma senza la materia che la supporta, e qui c’è la distanza tra Aristotele e Platone. Capitolo VI, 987b. D’altra parte, Socrate si occupava di questioni etiche e non della natura nella sua totalità, ma nell’ambito di quelle ricercava l’universale, avendo per primo fissato la sua attenzione sulle definizioni. Orbene, Platone accettò questa dottrina socratica, ma credette, a causa di quella convinzione che aveva accolta dagli eraclitei, che le definizioni si riferissero ad altre realtà e non alle realtà sensibili: infatti, egli riteneva impossibile che la definizione universale si riferisse a qualcuno degli oggetti sensibili, perché soggetti a continuo mutamento. Egli, allora, denominò queste altre realtà Idee, e affermò che i sensibili esistono accanto ad esse e che vengono tutti denominati in base ad esse; infatti, per “partecipazione” alle Forme esiste la pluralità delle cose sensibili che hanno lo stesso nome delle Forme. Qui insiste su un aspetto, ma occorrerebbe fare una considerazione tratta dalle note di Reale. Giovanni Reale ha lavorato per decenni su Aristotele, per cui è andato a vedersi tutti i riferimenti, le testimonianze di tutti coloro che hanno parlato di Aristotele. Lo stesso lavoro lo ha fatto per Platone e per Plotino. Leggiamo la nota. L’interpretazione dell’eleatismo in funzione della aitiologia aristotelica. Si tratta ovviamente degli eleati, che subito sotto verranno singolarmente nominati. Aristotele fatica moltissimo a sussumere gli eleati nello schema della sua aitiologia. Precisamente, ciò gli riesce solo per la seconda sezione del poema di Parmenide, quella riguardante la doxa, e perciò gli sfugge di mano in questa discussione ristretta alla dottrina delle cause proprio la parte più potente. Zenone qui non verrà preso in considerazione, mentre Senofane e Melisso saranno dichiarati pensatori grossolani e così eliminati. Perché l’eleatismo non rientra nello schema dell’aitiologia aristotelica? (cioè, nella ricerca delle cause?). La ragione è semplice. I naturalisti monisti ammettevano, sì, un unico principio ma oltre al principio ammettevano anche la molteplicità delle cose e il movimento, di cui il principio è appunto la ragione ultima. Invece, gli eleati assorbono tutto nell’unità dell’essere, che dichiarano immobile; in tal modo non resta più nulla da spiegare. Anzi, l’essere uno eleatico, almeno come lo intende Aristotele, cessa addirittura di essere principio in senso vero e proprio, perché il principio è principio solo se c’è altra cosa o altre cose di cui esso è principio. Non pensa al fatto che qualcosa potrebbe essere principio di se stesso. Ci arriverà poi Gentile con l’autoctisi, con l’autoporsi. L’inadeguatezza storica dell’interpretazione aristotelica dell’eleatismo in funzione delle categorie aitiologiche non ha bisogno di ulteriore commento dopo quanto s’è detto nelle note precedenti. Si nota, inoltre, che la ragione del passaggio dai pitagorici agli eleati non ha un filo logico preciso. Forse Aristotele è passato dagli uni agli altri seguendo un criterio, diciamo così, geografico, ma anche questa ragione è poco convincente. Da qualche altra parte Reale dice che Aristotele, nelle critiche che fa ai suoi predecessori, spesso gioca sporco, nel senso che compie un’operazione, già presente prima di Aristotele e presente ancora oggi, per cui fa dire ai suoi avversari cose che gli avversari non hanno detto, oppure dà un senso a ciò che dicono gli avversari che è quello che serve a lui per poterli combattere più facilmente. È una cosa che non si è mai smessa di fare. Altra nota di Reale. I termini idea e eìdos e il loro significato. Tradurremmo per lo più δέα con idea; invece εδος con forma, Forma maiuscolo quando si tratta delle forme dei platonici, minuscolo quando si tratta della forma aristotelica, immanente alla materia. Torniamo alla Metafisica. Capitolo VII, 988b 8. Quelli che pongono l’Intelligenza o l’Amicizia, ammettono, sì, queste cause come bene, ma non parlano di esse come se fossero il fine per cui alcuni degli esseri sono o si producono, bensì come se da esse derivassero i movimenti. Questi tizi non hanno considerato il fine come lo vuole considerare lui, e cioè come la causa ultima delle cose, che quindi devono fermarsi sul fine. Infatti, dopo parlerà proprio di questo, della necessità che ci sia il fine. Capitolo IX, 992a 25. E, in generale, mentre la sapienza ha come oggetto di ricerca la causa dei fenomeni, noi abbiamo trascurato proprio questo (infatti, non diciamo nulla della causa da cui deriva il movimento) e, credendo di esprimere la sostanza di essi, affermiamo l’esistenza di altre sostanze. Ma quando si tratta di spiegare il modo in cui queste ultime sono sostanze di quelle, parliamo a vuoto. Infatti l’espressione “partecipare” (era Platone che parlava di “partecipazione”), come già abbiamo detto sopra, non significa nulla. E neppure a quella che vediamo essere causa nelle scienze e in vista della quale agisce ogni intelligenza e ogni natura, neppure a questa causa (che noi affermiamo essere uno dei quattro) principi) le Forme si riconnettono in alcun modo. Invece, per i filosofi d’oggi, sono diventate filosofia le matematiche, anche se essi proclamano che bisogna occuparsi di esse solo in funzione di altre cose. Qui ancora insiste sul fatto che il fine deve essere il bene: il fine è il raggiungimento, attraverso il pensiero, della forma assoluta. Questa non è però quella di Platone, che ammette solo la Forma assoluta, mentre Aristotele ammette la forma insieme con la materia, che diventa forma assoluta quando non c’è materia come, per esempio, in Dio: Dio sarebbe la forma assoluta, per Hegel è lo Spirito Assoluto. Andiamo al Libro αλττων, cioè minuscolo. Mentre tutti i Libri sono segnati da una lettera maiuscola, questo che segue è chiamato Libro αminuscolo. La ricerca della verità sotto un certo aspetto è difficile, mentre sotto un altro è facile. La ricerca della verità, quando è banalmente connessa con un qualche cosa, con un sensibile, è facile, non ci si può sbagliare. Infatti, cita un proverbio “Chi potrebbe sbagliare una porta?”. Però, è difficile raggiungere gli universali, perché occorre abbandonare l’immanente e cominciare a pensare, trovare un qualche cosa che è comune a ogni altra cosa e porlo come universale. E aggiunge: Ora, è giusto essere grati non solo a coloro dei quali condividiamo le opinioni, ma anche a coloro che hanno espresso opinioni piuttosto superficiali; anche costoro, infatti, hanno dato un certo contributo alla verità, in quanto hanno contribuito a formare il nostro abito speculativo. Capitolo II, 994a …che esista un principio primo e che le cause degli esseri non siano né una serie infinita (nell’ambito di una stessa specie), né un numero infinito di specie, è evidente. Adesso vediamo da dove arriva questa evidenza. Questo è il punto cruciale e non a caso è l’inizio della Metafisica, è dove tutto comincia. Tutto incomincia con la necessità di porre il finito, cioè, il fine. In effetti, per quanto riguarda la causa materiale, non è possibile derivare una cosa dall’altra procedendo all’infinito: per esempio la carne dalla terra, la terra dall’aria, l’aria dal fuoco, senza mai fermarsi. E neppure questo è possibile per quanto riguarda la causa motrice (efficiente): per esempio che l’uomo sia mosso dall’aria, questa dal sole, il sole dalla discordia, senza che ci sia un termine di questo processo. Sta dicendo che non è possibile pensare l’infinito perché questo impedisce la conoscenza: se vogliamo conoscere dobbiamo fermarci, dobbiamo porre un limite. E il limite lui lo trova, è il bene, il bene è il fine. E, similmente, non è possibile procedere all’infinito per ciò che concerne la causa finale: non è possibile dire, per esempio, che la passeggiata è fatta al fine della salute, questa al fine della felicità e la felicità al fine di altro, e così dire che una cosa è fatta sempre al fine di un’altra. E lo stesso vale anche per la causa formale. Infatti quando si tratta di termini intermedi e che si trovano tra un ultimo e un primo, è necessario che il termine che è primo sia causa di quelli che ad essi seguono. Dice che è necessario. Perché è necessario? Questo non lo dice. Se infatti dovessimo rispondere alla domanda quale è la causa di tre termini in serie, noi risponderemmo che è il primo, perché la causa non è certamente l’ultimo termine, giacché l’ultimo non è causa di nulla; ma non lo è neppure il termine intermedio, perché esso è causa di uno solo dei tre termini. /…/ Ma se c’è un principio risalendo nella serie delle cause, non è possibile procedere all’infinito neppure discendendo nella serie delle cause… Ci sta dicendo che se non poniamo un fine alla catena allora non troviamo neanche il primo, quindi, non abbiamo la causa, quindi, non abbiamo conoscenza. Non è che questa cosa spieghi un granché. Lui se la cava spesso dicendo che è evidente, che segue necessariamente. No, non è vero, di una serie di numeri non è che il primo sia necessariamente causa degli altri, mentre per Aristotele sì. Ma a lui serve per dire che il fine deve essere uno, non possono esserci più fini: il bene è uno, ciò a cui tutto tende deve essere uno, solo così lo controllo. Se ho un milione di fini mi si scompiglia tutto e non controllo più nulla, mentre è necessario che il fine, cioè il bene, sia uno. Naturalmente, questo accostamento tra il fine e il bene gli è utilissimo, perché risponde alla domanda “Sì, ma perché dovrei raggiungere quel fine?”, “Perché è il bene!”, cioè, come diceva all’inizio, è ciò che tutti cercano. Il sapere fine a se stesso, è questo il bene: Dio che pensa se stesso è il bene assoluto, lo Spirito Assoluto di Hegel o l’autoctisi di Gentile. Dio qui è inteso naturalmente alla greca. Ponendo il fine come il bene è come se chiudesse ogni possibilità di ribattere. Tutti quanti cercano il bene: chi potrebbe obiettare a una cosa del genere? Eh già, ma qual è il tuo? È uguale al mio? Il bene per ciascuno è naturalmente la soddisfazione della volontà di potenza. In effetti, Aristotele non ha tutti i torti, solo che il bene di cui parla lui non ha nulla a che fare con ciò che effettivamente lui intende con causa efficiente, e cioè con ciò che muove gli umani. Gli umani sono mossi dalla volontà di potenza e il fine che vogliono raggiungere è il potere, il superpotenziamento, direbbe Nietzsche. Inoltre, lo scopo è un fine, e il fine è ciò che non è in vista di altro, ma è ciò in vista di cui tutte le altre cose sono; sicché, se esiste un termine ultimo di questo genere, non ci può essere un processo all’infinito. È questo ciò che lui vuole negare. Anche se non lo cita, qui ce l’ha con Zenone, con gli eleati in particolare. Deve esserci il fine, a tutti i costi. Se invece non c’è un termine ultimo di questo tipo, non ci può essere causa finale. Ma coloro che pongono il processo all’infinito non si accorgono di sopprimere la realtà del bene. Ecco, questo è il suo argomento. È questo che sorregge tutto quanto. Pensateci un istante: tutto il pensiero occidentale è retto su questo. Anche su altre cose, naturalmente, ma in buona parte su questo. Lo rileggo coloro che pongono il processo all’infinito non si accorgono di sopprimere la realtà del bene, che lui ha già data come ipostasi, come certezza assoluta. Tuttavia, nessuno incomincerebbe a far nulla se non dovesse pervenire a un termine. Qui ha cercato di aggiustare il tiro. E neppure ci sarebbe l’intelligenza nelle azioni che non hanno un fine: chi ha intelligenza, infatti, opera sempre in funzione di un fine, e questo è un termine, perché il fine è appunto un termine. Sta cercando di dare delle motivazioni a questa frase che ha detto prima, e cioè se si attiene all’infinito si esclude la realtà del bene: quando qualcuno fa qualcosa vuole che questo qualcosa giunga a un termine. Sì, anche, certo, ma non necessariamente. Quando qualcuno si innamora di qualcun altro non lo fa perché questa cosa giunga al termine; per dirne una, ma si potrebbero moltiplicare gli esempi. Ma neppure la definizione dell’essenza si può ricondurre (all’infinito) ad un’altra definizione sempre più ampia nell’enunciazione. Infatti, la definizione prossima è sempre definizione a titolo maggiore, mentre non lo è l’ultima. E quando, in una serie di definizioni, la prima non è definizione dell’essenza, non lo sarà neppure la successiva. L’essenza, cioè quella che coglie cosa veramente è la cosa. Inoltre, coloro che parlano in questo modo distruggono il sapere: infatti, non si può possedere il sapere prima di aver raggiunto ciò che non è più divisibile. Perché? Il sapere dell’indivisibilità non è a sua volta un sapere? Eh già, cosa facciamo? Cancelliamo tutta la matematica dell’indivisibile? Qui, infatti, non è come nel caso della linea: è vero che il processo di divisione della non si arresta… Qui ha difficoltà a contrastare Zenone …ma il pensiero non può pensare la linea senza fermarsi nel processo di divisione. Sì, certo, per poterlo pensare devo fermarlo. È vero, ma perché devo fermarlo? Perché di per sé non si ferma, sennò non ci sarebbe la necessità di fermarlo, perché fermare qualcosa che è già fermo? Quindi non potrà mai contare le divisioni della linea colui che procede all’infinito nel processo di divisione. Sì, certo, non le posso contare, e allora? Ne posso però parlare, posso addirittura porlo come unità, come ha fatto Cantor con il transfinito. E la linea nel suo insieme deve pensarla qualcosa in noi che non si muova da una parte ad un’altra. Per pensare la linea devo pensare dei punti fermi. Tra l’altro, è quello che diceva Zenone rispetto alla freccia, nell’aporia della freccia: per potere pensare il movimento della freccia sono costretto a pensare a dei punti fermi, perché ogni volta la freccia si trova ad occupare uno spazio, e questo spazio è quello. 995a 15. Non bisogna poi esigere in ogni cosa il rigore matematico, ma solo in quelle cose che non hanno materia. Per questo, il metodo della matematica non si adatta alla fisica. Infatti, tutta quanta la natura, senza dubbio, ha materia. Perciò bisogna, prima, esaminare che cos’è la natura; e in questo modo risulterà chiaro quale sia l’oggetto della fisica. E risulterà chiaro, anche, se appartenga ad una sola scienza o a molte l’esame delle cause e dei principi. Sta dicendo che prima di applicare la matematica alla fisica dobbiamo sapere che cos’è un corpo fisico. Solo allora possiamo sapere se l’applicare la matematica a questo corpo oppure no. Anche perché, dice, il corpo fisico non è come la matematica, che è fatta di cose immobili, il corpo fisico si muove, cambia continuamente. Quindi, come posso applicare una cosa che è immobile a ciò che si muove? Come la misura? E qui torniamo alla questione della misurabilità dell’illimitato, dell’πείρων, ecc. Il libro successivo, il Libro B, esamina le aporie, cioè, le difficoltà che si incontrano intorno alle cause. Ma prima merita qui prendere in considerazione una nota di Reale, che riprende la questione della linea. Per pensare la linea dobbiamo fermarci nel processo di divisione... Qui è Zenone, anche se lo dice Reale …e dobbiamo coglierla nel suo insieme con il nostro intelletto, il quale, proprio per poterla cogliere nel suo insieme, non si deve muovere da una parte all’altra di essa ma deve fermarla. Tutta questa argomentazione di Aristotele serve a dimostrare la necessità del fine per giustificare quella sua frase, eccessivamente forte, che se non si ammette la necessità del fine allora non si ammette neanche la realtà del bene. E, allora, per ammettere la realtà del bene occorre togliere la infinita divisibilità della linea. La linea non può essere divisibile all’infinito sennò non potrei pensarla. Già Zenone aveva risolto il problema: non è che non la posso pensare, la penso naturalmente, ma pensando la infinita divisibilità la penso come un tutto. Quindi, la necessità di stabilire il fine per garantire l’esistenza del bene. Ma qui il processo è rovesciato, e cioè il bene è il fine, è il finito, perché senza il finito non possiamo, dice Aristotele, conoscere, quindi, non possiamo dominare: a questo serve il bene. In definitiva, ci sta dicendo questo, che il bene serve a dominare.