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25 giugno 1998

 

La spiegazione che uso ha generalmente una spiegazione all’interno di un discorso, (....) Sì, certo, ma un rinvio particolare, non uno qualunque... (...) Potremmo formulare la questione in questi termini: a quali condizioni una proposizione è accolta come spiegazione di un’altra? Forse così è più precisa (Deve convincere...) Ecco, questo è già un elemento più interessante. (...) La questione che ci stiamo ponendo attiene ovviamente ad un aspetto retorico, qualunque spiegazione si dia a qualunque cosa è sempre una affermazione retorica. A noi però interessa intendere come funziona il luogo comune, visto che è con questo che abbiamo a che fare il più delle volte, e allora occorre intendere che cosa ci si attende da una spiegazione qualunque essa sia e per intendere questo occorre riflettere su cosa generalmente si intende con spiegazione. Ciò che il luogo comune per lo più accoglie con spiegazione, vale a dire una proposizione che rispetto alla precedente che deve essere spiegata fornisce una giustificazione o una motivazione. Anche quando Cesare diceva “spiego il funzionamento di una macchina” in definitiva non è altro che giustificare certe asserzioni rispetto a certe operazioni che devono essere compiute. Ora, una qualunque giustificazione dà una giustificazione, che sia per essere arrivati in ritardo o che sia circa la legge di gravitazione universale entrambe hanno la stessa struttura, cioè cercano qualche cosa che possa affermarsi e che almeno apparentemente segua necessariamente la premessa; se B deve giustificare A occorre che B segua da A necessariamente, in un modo o nell’altro ed è questo l’aspetto fondamentale: qualunque giustificazione o spiegazione occorre che sia necessariamente implicata dalla premessa e nella forma più generica  del se...allora, un’implicazione. Voi sapete che questa forma, un’implicazione se...allora è una inferenza fondamentale senza la quale il linguaggio non potrebbe funzionare; tuttavia, se è necessario che ci sia questa implicazione, non è affatto necessario il che cosa è implicato dall’antecedente, che i retori distinguono tra protasi e apodosi, protasi è l’antecedente e apodosi è il conseguente. È una questione che abbiamo già discussa in varie occasioni ma è una fra le più importanti per quanto concerne un discorso intorno alla retorica. Pensate, ad esempio, alla tesi che sostiene che è sufficiente che il conseguente sia coerente con l’antecedente perché sia vero, è un modo un po’ kantiano, e così esattamente come avviene nel discorso di ciascuno, se il mio discorso produce delle proposizioni che appaiono ragionevolmente implicate dalla premessa allora le conclusioni saranno la spiegazione accolta come tale, ma qui insieme con il significante spiegazione occorre aggiungerne un altro perché ciò che accoglierò sarà accolto come il senso della premessa. Pensate a un discorso comune, uno qualunque, il quale si adoperi per spiegare una certa cosa, per spiegare A, per esempio. Ora, ciò che si produce come spiegazione, cioè B, viene accolto come il senso della premessa e cioè di A, ciò che significa. Questione tutt’altro che marginale nell’ambito del luogo comune e quindi dell’affermazione retorica, perché questo incomincia anche se molto alla lontana a rispondere al quesito che ci ponemmo due o tre volte fa, e cioè come può accadere di non accorgersi che si è nel linguaggio, per esempio. Ma proseguiamo per gradi. Dunque, l’antecedente trova il suo senso nel conseguente, per esempio, se faccio questo mi succede quest’altro, quest’altro che mi succede viene accolto come il senso del “se faccio questo”. Senso qui nell’accezione che utilizziamo il più delle volte, cioè come utilizzo, esattamente, ma non è soltanto questo che interviene, questo senso che si produce, se è pensato procedere necessariamente dalla premessa, costituirà sì il senso della premessa ma anche e soprattutto la sua necessità quasi logica, come dire che tutte le conclusioni a cui il luogo comune giunge vengono credute necessarie perché il procedimento che è stato seguito per giungere alla conclusione appare corretto. Quando un ragionamento appare corretto? Quando non si vede la possibilità o l’eventualità di trovare una qualche cosa che lo confuti, ovviamente. Ora, il luogo comune funziona in questo modo, c’è una  premessa che è quella accettata dai più e quindi considerata necessariamente vera, per esempio: tutti dovete morire...(...) In base al famoso sillogismo di Aristotele, questo è un luogo comune però funziona come assioma, perché? Perché fino ad oggi qualcuno potrebbe affermare non si è mai verificato il contrario, che qualcuno sia nato e non sia anche morto e quindi appare come qualcosa di certo, di assoluto, oltre che inconfutabile. Allora, se io costruisco un discorso che muove da questo assioma che è accolto da chiunque necessariamente, allora ciò che seguirà, se seguo un ragionamento più o meno corretto, dovrà essere vero - è ovvio che qui siamo nell’ambito prettamente del luogo comune. Dunque, muovo da questo assioma “tutti dobbiamo morire” e quindi tutto ciò che viene fatto dovrà perire, tutte le mie emozioni, i ricordi, ecc., tutto questo scomparirà con me. Quindi, se io mi muovo o penso per un qualcosa che sia un senso assoluto delle cose allora sorge inesorabile la domanda che “senso ha tutto ciò che faccio?” e la risposta che ne segue sarà “nessuno!” . Ma non soltanto, come vi ho raccontato in varie occasioni pare, così dicono coloro che si dilettano di fisica, che tutto il sistema solare stia viaggiando a velocità fortissima verso una certa stella chiamata Vega. Ora, il sistema solare è in rotta di collisione con questa stella, se non ci sono deviazioni, e ci sono eventualità che non ce ne saranno, allora tutto il sistema solare si schianterà contro la stella Vega, polverizzandosi (fra quanto questo?) Sono le nove e venticinque... ci vorranno un paio di milioni di anni, per cui la serata la passiamo tranquilli, però a questo punto che cosa avviene? Che se dovesse darsi per certo una cosa del genere allora tutto ciò che viene fatto dagli umani è inesorabilmente destinato a perire, scomparirà nel nulla e tornerà là da dove è venuto. Con questo ovviamente non si prova e non si mostra nulla, semplicemente si mostra come il luogo comune si sorregga. Ora, lasciamo stare la stella Vega che magari qualcuno potrebbe mettere in discussione i calcoli fatti da coloro che si dilettano di fisica, però rispetto alla mortalità di tutto ciò che è vivo, tutto ciò che nasce è corruttibile, diceva Aristotele, su questo sembra non esserci nessuna possibilità di interferire e quindi inesorabilmente tutto ciò che io so o penso o faccio cesserà. Ma ciò che a noi interessa in modo particolare è intendere, come si diceva all’inizio, come funzioni la spiegazione, perché nel luogo comune ha un ruolo notevole, notevolissimo, perché come dicevo è ciò che giustifica la premessa, è ciò che giustifica ciò che si dice, ciò che si pensa, qualunque cosa giustificandola dà una dignità, una ragione d’essere. Senza questa spiegazione e questa giustificazione, una affermazione non ha una ragione di essere e quindi non può né viene accolta. Tant’è che una delle domande più frequenti che avvengono è la domanda “perché?”, per esempio, che è una domanda il più delle volte di spiegazione, di giustificazione di qualche cosa. Questo soprattutto nel discorso scientifico il quale fa un grande uso di questo, immaginando che proseguendo lungo queste spiegazioni sia possibile man mano, proseguendo, giungere a quella definitiva. Qual è la spiegazione definitiva? Quella per le quali ciascuna di quelle provvisorie esiste, ciascuna spiegazione esiste in quanto, anche se provvisoria, è debitrice di quella definitiva, senza quella definitiva nessuna spiegazione o giustificazione avrebbe alcun senso. Perché non avrebbe senso? Perché avrebbe unicamente la portata di un racconto, di una favola, di una favola che si racconta a fianco di una certa cosa, così come quando si fanno i temi da piccoli, “racconta una scampagnata con i tuoi genitori” o “scrivi una lettera ad un amico”, dove si tratta come si suole dire di pura fantasia. Questo perché una spiegazione, se non ha come referente ultimo l’ultima spiegazione, o quanto meno la sua possibilità, si riduce come dicevo a nient’altro che a una favoletta o a una metafora, che già Vico la indicava come una picciola favoletta.

A questo punto una spiegazione può essere preferita ad un’altra per un motivo prettamente estetico perché mi piace di più. Quale spiegazione accolgo? Quella che mi piace di più. È una questione che, se portata alle estreme conseguenze, ha effetti devastanti dal momento che di fronte a qualunque scelta io faccia, qualunque decisione io prenda, l’unica giustificazione o spiegazione che io possa darmi con buon criterio è questa: perché mi piace. Il problema è che qualunque altra giustificazione io dia a qualunque scelta, decisione, pensiero, affermazione, è assolutamente gratuito, arbitrario. In qualche modo Feyerabend aveva già intravisto che, per esempio, una spiegazione magnetica della forza di gravità non ha maggiore rigore o maggiore attendibilità di una spiegazione fondata su una credenza popolare e ciò che distingue le due non è, come dicevo, il maggiore rigore o precisione o attendibilità ma il gioco in cui è inserito. Feyerabend diceva così di ciò che è più accreditato in quel momento, di ciò che è più creduto, potremmo dire di ciò che è più di moda, oggi è di moda  il discorso scientifico, però questo non toglie che rimanga di moda anche il discorso religioso. Come sapete, vanno sempre di pari passo gli incrementi della scientificità con l’incremento della religiosità e quando si attenua l’una si attenua anche la seconda, non il contrario. Vale a dire, non è che se c’è maggiore scientificità allora c’è minore religiosità, proprio per nulla, vanno di pari passo perché sono due facce della stessa questione. Ma, per tornare alla questione che ci interessa, qualunque decisione, qualunque scelta, qualunque affermazione non ha nessun altra motivazione possibile né nessuna altra giustificazione praticabile se non quella di affermare che mi piace così. Questo “mi piace così” è un modo un po’ rozzo per indicare l’assoluta responsabilità... (....) Certo, porre tutta la questione scientifica come una questione estetica è generalmente inusuale; tuttavia, non ci rimane che una considerazione come questa che riporta ancora una volta la responsabilità assoluta di ciò che io credo e quindi di ciò che io faccio. Se, così come abbiamo detto in varie occasioni, una persona soffre le pene per qualunque cosa, generalmente si considera che non sia responsabile e invece sì, ciò che può fare è considerare che la sofferenza è ricercata perché è piacevole, in quanto all’interno di quel gioco ha una funzione precisa. La consapevolezza di tutto questo può decidere se continuare a giocare quel gioco oppure no, se sì naturalmente con l’assoluta e inequivocabile consapevolezza del gioco che si sta facendo. Prendete il caso di una persona che cerchi una spiegazione, per esempio, a un suo cosiddetto disturbo, ansia, depressione,  angoscia, ecc., che cosa sta facendo esattamente cercando questo? Che cosa si attende da una spiegazione alla domanda “perché ho l’angoscia?” L’unica risposta possibile che abbia un senso è questa: perché lo vuoi, non ce ne sono altre possibili. Perché un disagio, una paura? Perché lo vuoi. Molto semplice. Tuttavia, il motivo per cui una cosa del genere non è, né il più delle volte può essere accolta, ha a che fare con lo stesso motivo per cui non è possibile accorgersi mentre si parla del fatto che si è nel linguaggio e che si esiste nel linguaggio per così dire. Nel caso dell’angoscia, per esempio, che cosa comporterebbe una risposta di questo tipo? Un rifiuto immediato di questa risposta, ma di fronte all’eventualità che la responsabilità possa essere accolta, perché uno comincerebbe a domandarsi “sono io che voglio questo?” Se sì, perché allora? Quale motivo? Lungo un’analisi uno può dare una spiegazione di una sua condotta, di un suo gesto, di un suo pensiero, immaginando che ne sia il senso ma, come dicevamo prima, di fatto è un altro racconto che non giustifica né spiega ovviamente nulla, è una costruzione a fianco, semplicemente. Perché il produrre queste costruzioni ha degli effetti? Occorre pur dire che ha degli effetti. Inizialmente la persona immagina che sia la spiegazione, cioè l’avere trovato la risposta ed avere un effetto di sollievo, per esempio. Ma non è affatto così. Ciò che funziona in una psicanalisi è unicamente questo: un cosiddetto sintomo, qualunque esso sia, costituisce un impedimento, un impedimento a parlare come se questo elemento non avesse più la possibilità di andare oltre per cui il discorso si arresta. L’effetto cosiddetto di sollievo benefico si ha quando si avvia un altro discorso a fianco, cioè si constata che questo sintomo non costituisce un impedimento ma che è possibile proseguire. In effetti, un’analisi fa soprattutto questo, consente a qualche cosa che si impone come impedimento di proseguire, nient’altro che questo. Ma perché qualcosa costituisce un impedimento? E quando soprattutto e in quali occasioni qualcosa costituisce un impedimento a pensare? Quando si cerca una spiegazione ma la si cerca in un modo particolare, come se da questa spiegazione dovesse procedere il mio benessere, o comunque la mia esistenza, e allora si cerca la spiegazione che dia il senso che giustifichi, per esempio, l’angoscia. È ovvio che non la si troverà, nel senso che nessuna proposizione segue necessariamente a una manifestazione di angoscia, qualunque cosa segua è sempre assolutamente gratuito, arbitrario, mentre si cerca quella cosa che deve seguire necessariamente. Certo, ci si può credere ovviamente e c’è l’eventualità che la cosa possa reggere finché  questa credenza non è messa in dubbio, non è messa in discussione, e allora tutto quanto si rimette in gioco e si ricomincia da capo, se no la maledizione sta nel fatto che non si trova una spiegazione ma ci si accorge di non trovarla quando la si cerca propriamente e quando questa spiegazione si pretende che funzioni, ché una spiegazione che non comporti cose importanti per la persona paradossalmente funziona, perché non le si chiede di funzionare. È, invece, al momento in cui le si chiede di funzionare che non ci si accorge che non funziona, perché non può farlo. Ecco perché un discorso trova un intoppo ad un certo punto. Dicevo, è la necessità di trovare questa spiegazione l’intoppo principale ma non soltanto di ciò che è comunemente noto come disagio ma di tutto il discorso occidentale. Dove ha trovato un impiccio il discorso occidentale? Quando lo trova? Quando inventa una spiegazione e chiede  a questa spiegazione di funzionare, allora c’è il blocco totale. Un po’ come succedeva ad Agostino “quando nessuno mi chiede cos’è il tempo lo so”  quando gli chiede di far funzionare questo sapere non funziona più. Anzi, se voi pensate che tutto il discorso occidentale è quanto di meglio è stato prodotto, tuttavia si è sempre bloccato di fronte al fatto che la spiegazione non reggeva ed è esattamente questo che gli umani chiedono, che la spiegazione funzioni. Ma cosa si intende con funzionamento di una funzione? Il discorso occidentale cerca questo, che la spiegazione finalmente renda conto della necessità della cosa, cioè il fatto che non può che non essere che così. Quindi, la spiegazione per definizione occorre che sia la spiegazione ultima. Se voi poco poco riflettete, vi accorgete immediatamente che ciò che anche il luogo comune pratica come spiegazione non è altro, in definitiva, che la ricerca della verità, dal momento che una spiegazione per essere accolta è sempre debitrice dell’idea che si dia da qualche parte l’ultima spiegazione, altrimenti è una cosa qualunque. E, allora, ecco che se esiste l’ultima spiegazione, questa è quella che un po’ di più le si approssima. Se l’ultima non c’è, non le si approssima nulla e gli umani rimangono orfani di spiegazione. (…) Eppure la tua questione è fondamentale, perché il paradosso che enuncia è lo stesso paradosso dell’uscita del linguaggio. Mettiamola così, di fronte all’impossibilità di una spiegazione gli umani generalmente tendono a una posizione di attesa se valutano che ci sia l’eventualità col tempo di riuscire a spiegare in termini ragionevoli, oppure il mistero generalmente inspiegabile, insondabile, divino. Pensate al linguaggio, si può spiegare l’esistenza del linguaggio? No. Ciò che non ha una spiegazione ma che tuttavia esiste, come va affrontato? Come viene affrontato generalmente? Cosa direbbe un discorso religioso? Il linguaggio c’è perché lo pratichiamo, non sappiamo spiegarci né da dove venga né a che cosa serva tutto sommato, ha sì un utilizzo una volta che c’è ma cosa serva all’interno dell’universo non lo possiamo sapere, né d’altra parte possiamo sapere come lo si apprende perché anche lì ci troviamo immediatamente di fronte al paradosso, se lo apprendo, lo apprendo con che cosa? Con il linguaggio ma il linguaggio ancora non ce l’ho ... ed è un momentaccio questo per il pensiero, per i più, perché si scoraggiano di fronte a una cosa del genere. Tuttavia, non possono non considerare che esiste: se esiste e non c’è una spiegazione allora è possibile che qualcosa esista ma che non abbia in nessun modo una spiegazione. Questo è il fondamento di ogni pensare religioso, il quale si sorregge appunto sulla nozione di spiegazione e sulla possibilità di spiegare le cose, la religione non è altro in definitiva che un formidabile sistema di interpretazione, formidabile per la mole più che per la sottigliezza in alcuni casi.

Dunque, provate a considerare in questo modo, prima di domandarvi se una cosa è spiegabile oppure no e prima di sapere che cosa accade di ciò che è ma che non ha spiegazione, forse occorre riflettere molto attentamente su questa nozione di spiegazione, perché da ciò che noi intendiamo con spiegazione dipenderà ciò che troveremo e soprattutto se continueremo per esempio a cercarne una. Da ciò che abbiamo detto in precedenza potrebbe considerarsi che il cercare la spiegazione nell’ambito di una struttura religiosa non può condurre da nessuna parte ovviamente, perché è esattamente come la ricerca della verità o, se volete dirla in termini più precisi, come la ricerca dell’elemento extralinguistico o, detta in altri termini ancora, dell’origine del linguaggio, che è la stessa cosa. Ora, non è tanto che non si debba fare una ricerca del genere, è che occorre tenere conto che per fare una ricerca del genere come questa, o per esempio una ricerca intorno alla possibilità della precompressione o alle sue condizioni, occorre riflettere sempre e necessariamente intorno a ciò che permette tutto questo senza il quale tutto ciò non può esistere in nessun modo. Io posso ovviamente all’interno di un gioco chiedere una spiegazione se io e Cesare ci diamo l’appuntamento alle sette e arriva alle nove meno venti, io gli chiedo come mai, o quando vado dal meccanico perché ho la macchina che fa un fracasso dell’inferno, gli chiedo cosa succede. Questo è un discorso che abbiamo fatto moltissime altre volte, e cioè del giocare dei giochi linguistici attenendosi a delle regole, ma non è questa la questione, quanto il fatto che questo comporta una questione fondamentale e cioè che cosa ci si aspetta dalla domanda che ci si è posti, da ciò che ci si aspetta deciderà di ciò che verrà accolto, perché chiedere al meccanico che cosa ha la macchina equivale a chiedere a Roberto mentre giochiamo a poker e che mi dice che lui ha vinto tutto, di chiedergli fammi vedere “che carte hai?”, magari ha due sette e io ho quattro assi e questo non è bello da parte sua... Dunque, questo che stiamo dicendo potrebbe far riflettere intorno all’utilizzo della domanda ciascuna volta in cui si pone ma non tanto quando la domanda si pone all’interno di un gioco, che ha delle regole ben definite alle quali ci si attiene per giocare quel gioco, ma forse rispetto a domande che sono inserite in giochi di cui magari non ci si accorge che sono tali. Ecco che allora ci si attende dalla domanda una risposta la quale risposta ha una funzione particolarissima che è quella di spiegare, di dare una giustificazione, un senso. Questo senso, questa spiegazione vengono accolti se e soltanto se esiste, o meglio, se questa idea è supportata dal pensiero che si dia un’ultima spiegazione rispetto alla quale questa che sto fornendo è un’approssimazione, un avvicinamento, per cui noi ci avviciniamo sempre di più alla verità, come voleva Popper. No, non ci avviciniamo né di più né di meno, questa probabilità è una costruzione. (…) Quando si pone una domanda cosa si attende dalla risposta? Qualcosa o nulla? (...)  Supponiamo  che si trovi di fronte a un fatto sociale, cosa succede? Per esempio, di fronte a un fatto sociale si dice che si dà una spiegazione di un fatto sociale, questa spiegazione che cos’è esattamente, e a che cosa serve? Si accoglierebbe una spiegazione che si sa assolutamente falsa? (No! ) Perché no? (Come fa una spiegazione essere falsa? Non è né vera né falsa.) C’è questa eventualità... Se, come si diceva, il linguaggio non ha nessuna spiegazione allora esiste per sé e non per altro, parrebbe. Dunque, tutto ciò che produce esiste per sé e non per altro. Ora, ciò che è possibile pensare è che tutto ciò che il linguaggio produce esista necessariamente, visto che il linguaggio esiste necessariamente e cioè in altri termini che il linguaggio sia qualche cosa, per cui c’è eventualità che, trovandosi di fronte al linguaggio e non avendo questo nessun altra spiegazione, nessuna spiegazione di nessun tipo, come dicevo, sorga l’idea che questo esista per sé e che pertanto qualunque cosa si produca nel linguaggio esista per sé, abbia una sua esistenza. Così come si è indotti a pensare di tutto ciò che si dà, ma rispetto al quale non è possibile dare nessuna spiegazione, esiste e basta. Questo modo di pensare  è uno degli aspetti che andiamo cercando e che ci indicano questo, che cioè è possibile, in effetti, non accorgersi dell’esistenza del linguaggio mentre si parla, dal momento che tutto ciò che si produce esiste per sé e non ha possibilità di nessuna spiegazione, quindi, è come se avesse una esistenza. Però, la questione è ancora lontana dall’esserci chiara ma sicuramente non è un aspetto marginale cioè dire che ciascuno parlando “si accorga” perché si accorge in modo un po’ particolare dell’esistenza del linguaggio ma non ne tenga conto, o non possa farlo. È una questione ancora da svolgere.