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25-5-2016

 

Eraclito di M. Heidegger. Siamo a pag. 158: Che cos’è il λόγος dal momento che il pensiero ed esso soltanto gli appartiene veramente? Che cos’è il pensiero? Per la logica il λόγος è asserzione. In quanto asserzione il λόγος appartiene al dire, il dire è discorso, è linguaggio, il λόγος è una manifestazione del linguaggio, il λόγος è perciò verbum e parola. Tutto questo è risaputo da lungo tempo per il pensiero occidentale, tuttavia dobbiamo imprimerci ben in mente che λόγος non significa parola, non significa discorso e neppure linguaggio. Lo si desume già dal fatto che il significato fondamentale della parola greca λόγος non può essere in nessun modo discorso o linguaggio e che non allude affatto all’ambito linguistico e verbale, d’altra parte è altrettanto sicuro che il termine λόγος e il verbo relativo λγειν acquistano già dall’inizio presso i greci il significato di parlare e di dire, si tratta di due dati di fatto incontestabili con i quali dobbiamo fare i conti, il loro comparire insieme nasconde qualcosa di enigmatico. Ecco in cosa consiste l’aspetto sconcertante di questo enigma, λόγος e λγειν significano discorso, parola e dire mentre il significato originario di λόγος e λγειν non è affatto in relazione con il linguaggio e con l’attività linguistica. Ci chiediamo allora in che modo λόγος e λγειν (λγειν ricordate che è raccogliere, radunare, e da qui poi il “legare” latino) sono giunti a significare discorso e dire? in che senso e per quale ragione in questo modo di intendere il λόγος va perduta la sua essenza originaria? Con che cosa ha a che fare questo venir meno del significato originario? Qual è il suo motivo fondamentale? Questo allontanamento del significato originale del λόγος e da quel che questo termine indica è un fatto definitivo o il presagio ancora poco chiaro di un lento avvicinamento? Finché non ci porremo alcuna di queste domande anche se non troviamo una risposta soddisfacente non potremo mai raggiungere una comprensione del λόγος vale a dire di quel termine dal quale la logica trae la propria denominazione e che la stessa logica fin dal suo inizio custodisce. /…/ Che cosa significa inizialmente la parola greca λόγος? con questa domanda ci interroghiamo già su che cos’è il λόγος? Per rispondere a questa domanda ci limitiamo a dare tre indicazioni che potrebbero mostrarci qualcosa della storia della parola λόγος. Le indicazioni sono scelte in modo tale che da esse risulti riconoscibile l’oscillazione di significato che caratterizza questa parola, così facendo impariamo anche a conoscere la difficoltà che si incontra se si vuole mettere in luce qualcosa di essenziale di ciò che la parola λόγος indica, l’interrogarsi su queste parole fondamentali deve mettere in conto che i rapporti posti inizialmente nel corso dell’interrogare si trasformano, innanzi tutto sembra che andiamo in cerca di qualche informazione intorno a questo termine, ci si affanna e ci si dà da fare a cercare qualcosa intorno alla parola e sulla storia del suo significato, infatti noi siamo coloro che hanno a che fare con questa parola, ma improvvisamente ci si accorge che è invece la parola e ciò che essa indica ad agire su di noi e a influenzarci prima ancora di avviarci verso una chiarificazione (stiamo chiedendo che cosa è il λόγος, ma chiedendoci questo noi siamo già presi in ciò che la parola λόγος autenticamente dice) /…/ Pag. 160: Il primo dei detti di Eraclito che scegliamo per spiegare la parola λόγος è il frammento 50: (la traduzione di Heidegger suona così) Se non avete ascoltato soltanto me ma avete prestato ascolto al λόγος, cioè disposti verso di lui, a lui attenti, il sapere consiste in questo nel dire dicendo la stessa cosa che dice il λόγος, che tutto è uno. (questo è il detto di Eraclito tradotto da Heidegger). Tenteremo di chiarire questo detto di Eraclito ricorrendo ad altri detti dai quali da punti di vista diversi è pensata la medesima cosa e nei quali soprattutto è usata la parola λγειν. Innanzi tutto non traduciamo il termine che costituisce l’asse portante del frammento 50 il termine λόγος, esaminando il detto evidenziamo solo le relazioni in esso presenti affinché l’approfondimento non vaghi nell’indeterminato, λόγος è per antonomasia Ð λόγος il discorso verte su “ascoltare” su un κοειν (acustico viene da lì) più esattamente il discorso verte su un aver già ascoltato proprio il λόγος, quindi il λόγος che può essere ascoltato e che viene ascoltato è dire, è comunicazione linguistica infatti il prestare ascolto degli uomini quale lo intende il detto consiste di suoni e voci. Eppure il detto di Eraclito comincia con un netto οχ (sarebbe il non) che rifiuta qualcosa che è in relazione con l’ascoltare umano, il detto inizia con l’espressione οχ(non a me, non prestate ascolto a quest’uomo qui) non a quest’uomo qui dovete prestare ascolto che non dovete stare a sentire il mio discorso per poi poter raccontare che avete ascoltato da Eraclito, οχ μο, non me dovete ascoltare dice Eraclito, è singolare anche il fatto che il pensatore comincia con un non e con una negazione, forse è proprio il destino dei pensatori dover sempre esordire con una negazione e con un rifiuto, perché il “sì” che pronunciano non ricada subito sul piano di quel che l’uomo sente tutti i giorni (la chiacchera, il cinema, la radio eccetera) ma in senso stretto il non e la negazione con i quali inizia il detto di Eraclito non sono proprio così negativi, non esprimono un mero rifiuto ma sono forse l’indice di una liberazione e di un salto. Avete ascoltato soltanto me oppure avete prestato ascolto al λόγος? (quindi fa una distinzione “avete ascoltato me che sto parlando o avete prestato orecchio al λόγος? Quindi λόγος non è ciò che io dico, non sono le mie parole) il λόγος è quindi qualcosa che può essere ascoltato una sorta di discorso e di voce ma non è evidentemente la voce di un uomo che parla con i suoni delle parole e attraverso la comunicazione linguistica. Chi parla dunque nella persona del λόγος? Quale voce ha il λόγος? Se non è una voce umana e se non è una voce sonora allora è una voce che si esprime senza ricorrere ai suoni? Esiste qualcosa di simile? E lo si può percepire? Voler sentire ciò che non emette suoni non è come voler costruire nell’aria? Sentire, udire significa percepire qualcosa con l’orecchio, sentiamo ad esempio il rumore che colpisce l’orecchio, ben diverso da questo udire senza partecipazione e ben diverso dal sentire involontario è invece l’udire nel modo del prestare ascolto a qualcosa. Prestare ascolto a qualcosa nel caso come si suol dire che siamo “tutt’orecchi” oppure può essere anche che il linguaggio, che nel velare è ancora più enigmatico che nel disvelare, dica che noi siamo tutt’orecchi proprio perché intenti ad ascoltare abbiamo dimenticato l’“orecchio” per cui non è tanto importante l’atto del percepire, quanto il fatto che quel che può essere percepito ci rapisce e ci coinvolge. Il prestare ascolto non dipende affatto da quel che ronza nell’orecchio, quel che si è avvertito e che può essere percepito l’atto del prestare ascolto non si sente già più anzi il prestare ascolto avviene laddove non ci colpisce nessuna percezione, là dove non risuona proprio nulla, questo prestare ascolto che propriamente non sente nulla lo chiamiamo “lo stare in ascolto in modo raccolto”, sembrerebbe quindi che noi sforziamo in modo particolare l’orecchio e l’udito e tuttavia che cosa sarebbe questo “raccolto ascoltare” se non fossimo già da prima attenti a un risuonare che riecheggia dentro di noi e che si mantiene in se stesso? che cosa sarebbe e come potrebbe destinarsi il raccolto ascoltare e il tendere l’orecchio se non fossimo già da sempre disponibili verso quel che può venirci incontro e che ci viene incontro? (ci sta dicendo che c’è qualche cosa in ciò che si dice a cui occorre prestare orecchio, che cosa potrebbe essere? Qui possiamo già anticipare ciò che dirà perché a che cosa occorre prestare orecchio? All’autentico, certamente, ma che cosa è autentico in ciò che si dice? Ciò che è autentico, ciò che occorre pensare è il domandare, è la domanda, è questo che per Heidegger è sempre ciò che costituisce l’autentico, ciò che occorre ascoltare in ciò che si dice “ciò che in ciò che si dice domanda”) /…/ Se così fosse allora l’udire, lo stare in ascolto, l’essere attenti a una cosa alla quale già noi apparteniamo, alluderebbero a una condizione di soggezione che non ha niente a che fare con la schiavitù perché tale soggezione originaria che equivale all’essere aperti verso l’aperto sarebbe la libertà stessa (la soggezione originaria che non è la schiavitù ovviamente equivale all’essere aperti verso l’aperto, per Heidegger “essere aperti verso l’aperto” è essere aperti alla domanda, al domandare) Se le cose stanno così chi è l’uomo? È l’ente che è dischiuso verso l’aperto e che proprio in conseguenza di questa apertura può in un certo qual modo anche chiudersi nei confronti dell’aperto nella misura in cui considera ciò che gli viene incontro esclusivamente come un qualcosa che gli sta di fronte e, come un oggetto, calcolando e progettando lo cattura afferrandolo con le proprie mani (e cioè presta attenzione non all’essere ma all’ente, questo essere raccolti nell’ascolto, lo si evince da qui, è l’essere aperti all’essere quindi al significato e non limitarsi all’ente cioè all’oggetto) Infine quest’ultimo “lo stare in ascolto in un modo raccolto” inteso come fare attenzione è una disposizione all’ascolto, l’autentico udire è il prestare ascolto con attenzione, è quell’attento ascoltare che non manca mai in ogni altra forma di ascolto e neanche nel mero percepire acustico ma che noi purtroppo abbiamo dimenticato, pertanto se noi partiamo dall’elemento acustico e seguiamo la scienza tecnica psicofisiologica tendiamo a collocare tutto nella testa perché crediamo erroneamente che l’udire sia quello che avviene mediante l’organo uditivo corporeo e che l’udire, nel senso del disporsi all’ascolto, sia naturalmente solo una trasposizione sul piano spirituale intendendo quel “naturalmente” solo in senso figurato (chiaramente c’è una critica a tutto il fisiologismo, psicologismo eccetera, sta dicendo non avviene nella testa, non ascoltiamo con le orecchie, con l’apparato uditivo ma ascoltiamo prestando attenzione a ciò che questo dire apre. Riprende il detto di Eraclito) “Se non avete ascoltato soltanto me ma avete prestato ascolto con attenzione al Λόγος quindi vi siete disposti all’ascolto e siete attenti allora …” Allora che cosa? (si chiede Heidegger) Σοφόν στν, vale a dire allora questo è vero sapere, (questo è il vero sapere, avere prestato ascolto al Λόγος) I termini σοφόν, σοφία hanno origine dallo stesso significato di τέχνη che vuol dire intendersi di qualcosa, aver pratica cioè la pratica che riguarda una certa cosa, sapendo che cos’è per l’uomo ciò di cui si è pratici, il termine σοφς si collega al termine φιλÒσοφoj, il termine σοφία a φιλοσοφία, nel termine greco σοφόν risuona però sempre in riferimento al termine σαφς che significa luminoso, manifesto, chiaro (σαφς questo φς evoca il φως la luce, quindi il σοφόν è ciò che appare in luce, ciò che è chiaro. Qui c’è una notazione che fa Severino criticando in qualche modo Heidegger perché per Severino Heidegger ha posto troppo l’accento unicamente su λήθεια, sul disvelarsi, Severino invece accosta λήθεια e πιστήμη ma πιστήμη in accezione come l’intende lui cioè non l’episteme della scienza ma l’episteme come la verità, come l’incontrovertibile quindi ciò che appare, λήθεια ciò che si disvela riguarda l’episteme in quanto è ciò che, in quel momento apparendo, manifestandosi, non è negabile ma è quello che è) σοφόν στν ciò che è saggio, il sapere ma per i greci ciò che si deve sapere è proprio σαφς vale a dire “sta luminosamente manifesto di fronte a noi” (e qui aggiungiamo con Severino “stando manifestamente di fronte a noi nella luce è incontrovertibile, quindi è anche πιστήμη) Cerchiamo di chiarire il termine σοφόν nel senso in cui Eraclito lo intende con un accenno ai frammenti 32 e 112 ai quali però non possiamo dedicare una interpretazione dettagliata. Il frammento 32 suona: l’uno il solo che deve essere conosciuto si rifiuta di essere nominato e insieme però vuole essere nominato in quanto è appellabile col nome di Zeus “della vita” ossia di ciò che sorgendo illumina (Zeus originariamente era “ciò che illumina”) Da questo detto deduciamo per prima cosa che il verbo λγεσθαι, λγειν è chiaramente in relazione con νομα che significa nome, denominazione, ma per comprendere il termine νομα, nome, in modo adeguato e non in modo vuoto e banale, dobbiamo pensare a fondo uno dei suoi significati ancora in uso nell’espressione “avere un nome”, essere nominati nel senso di essere considerati, dobbiamo quindi pensare il nome nel senso di gloria intesa però in senso elevato e non come semplice essere famosi (qui c’è la questione importante, lui dice “l’uno il solo che deve essere conosciuto si rifiuta di essere nominato e insieme però vuole essere nominato, in quanto è appellabile col nome di Zeus cioè ciò che sorgendo illumina” si rifiuta di essere nominato e insieme però vuole essere nominato, cosa vi fa pensare questo? Sembra quasi evocare la relazione fra significante e significato, cioè il segno che al tempo stesso mostrando nasconde. In che modo si può fermare il segno? Come diceva De Saussure, nominando: “io nomino una cosa e in quel momento, la fermo, la fisso” è l’unico modo che ho per fermare qualcosa, nominandola. Ma nominandola già mi trovo preso in un differimento, quindi manifestandola, facendola venire alla luce al tempo stesso e proprio perché la faccio venire alla luce, questa cosa si sottrae. Quindi l’uno, il segno, è ciò che si manifesta sottraendosi perché nominando qualcosa non nomino mai la cosa di fatto, nominandola, qualunque cosa sia non la nomino in quanto tale ma lo sposto su un’altra cosa) pag. 163: Avere un nome, essere nominati significa dunque essere in luce, essere avvolti da luce (qui c’è un riferimento a ciò che dicevo prima, cioè nominare qualcosa è metterlo in luce, metterlo in luce e in quel momento si manifesta come ciò che è incontrovertibile, non posso negarlo. Qui c’è tutta la questione che pone Severino che è interessante ma lo riprenderemo) Infatti nominare è sinonimo di illuminare nel senso di portare alla luce e dell’entrare nel non nascosto (λήθεια: letteralmente “non nascosto”) per questo come si cercherà di mostrare il termine νομα viene messo in relazione al λγειν, al dire, anche se qui l’elemento puramente linguistico e grammaticale non è l’elemento primariamente essenziale, νομα diventa però successivamente a differenza da sema, diventa il verbo, una voce grammaticale che denota il sostantivo il nomen latino, ora però soffermiamoci sul termine τ σοφόν (il sapere) su ciò che veramente occorre sapere. Il sapere nel senso di τ σοφόν e σοφία è l’essere a conoscenza di, aver pratica di, tale sapere equivale in se stesso anche all’autentico esser pronti ad agire, a fare che si determina però a partire dal prestare ascolto, nel frammento 112 Eraclito dice: Il sapere autentico consiste nel dire e nel fare ciò che non è nascosto a partire dal raccolto ascoltare che è conforme e commisurato a ciò che si mostra sorgendo da se stesso. (interessante la traduzione che ne fa Heidegger, perché dice “il sapere autentico consiste nel dire e nel fare ciò che non è nascosto quindi ciò che appare a partire dal raccolto ascoltare che è conforme e commisurato a ciò che si mostra sorgendo da se stesso” cos’è che sorge da se stesso? La φύσις cioè ciò che non cessa di sorgere continuamente quindi vedete che l’ascolto, qui, lo stare ad ascoltare per Heidegger comincia a prendere forma, cioè ascoltare è avere cura, prestare attenzione a ciò che non cessa di sorgere) Il sapere autentico è in se stesso λγειν κα ποιεν “riunire e produrre” (cioè raccogliere in vista di una produzione) che in via del tutto preliminare traduciamo con dire e fare (λγειν ha a che fare col dire però Heidegger lo traduce molto spesso con “raccogliere” il dire è un raccogliere un qualche cosa, e ποιεν con fare, con la produzione, poesia eccetera) ma noi però lasciamo aperta la questione se queste osservazioni siano sufficienti per pensare adeguatamente il detto di Eraclito, infatti non sappiamo ancora in che senso λγειν significhi proprio “dire” e che cosa sia dire ma lo domandiamo, consideriamo però soprattutto che il sapere inteso come essere pratici di qualcosa dicendo e facendo (essere pratici di qualcosa dicendo e facendo) il sapere si muove e oscilla all’interno di un prestare ascolto κατά φύσις, (secondo la φύσις quindi secondo ciò che continua incessantemente a sorgere quindi che è conforme e che è commisurato a ciò che si mostra sorgendo da se stesso) In base a ciò il rapporto di disponibilità “l’ascoltare” sorge in un certo qual modo dalla φύσις. Si può “sentire” la φύσις? Dal frammento 50 abbiamo già appreso se deve esserci un sapere occorre ascoltare il Λόγος, secondo il frammento 112 (che è quello di prima “il sapere autentico consiste nel dire, nel fare ciò che non è nascosto eccetera”) l’ascolto è orientato verso la φύσις, forse che il Λόγος stesso verrebbe ad avere una maggiore affinità essenziale con la φύσις anziché essere affine al discorso, al linguaggio, all’espressione? (questo Λόγος che lui scrive con lambda maiuscola per indicare il Λόγος autentico cioè uno dei modi in cui si manifesta l’Essere, questo Λόγος comincia ad esser sempre più prossimo alla φύσις cioè a questo sorgere continuo del dire, per cui a questo punto potremmo quasi anticipare che il Λόγος, cioè ciò che dà il nome alla logica, il Λόγος è ciò che raccoglie, ciò che non cessa di sorgere incessantemente, cos’è che non cessa di sorgere incessantemente? La φύσις, certo, ma la φύσις è uno dei modi di dire l’essere quindi il significato, è il significato che non cessa di sorgere, che continua a sorgere. Ogni volta che ci si chiede il significato di qualcosa è in un certo modo come se si aprisse il vaso di Pandora, incomincia a sorgere e non finisce più, qualcuno potrebbe parlare di semiosi infinita. L’ingresso nell’autentico sapere consiste nel rapporto di disponibile attenzione nei confronti del Λόγος (quindi l’ingresso nell’autentico sapere consiste nella disponibilità nei confronti del Λόγος e di ciò che raccoglie l’essere, ciò che non cessa di sorgere, quindi di dirsi) Aggiungiamo il termine ingresso per chiarire che questo sapere non è fatto solo dall’uomo e da lui istituito ma che è esso stesso a venire verso di lui e ciò avviene proprio a partire dall’attento ascolto prestato al Λόγος e attraverso il λόγος (distingue tra il Λόγος come un aspetto dell’essere, qualcosa che appartiene a ciò che di più autentico si produce nel momento in cui qualcosa dell’essere si raccoglie nel dire, e il λόγος- minuscolo- come il discorso) Ma in che cosa consiste il sapere autentico, ammesso che esista? Eraclito dice: Ομολογεν σοφόν στν. Adesso arriviamo, μολογεν: Eraclito antepone ai termini σοφόν στν un termine che dovrebbe indicare in che cosa consiste il sapere autentico? Il termine μολογεν nel quale sono nominati sia il λγειν che il λόγος (λόγος viene da λγειν) a causa della disposizione delle parole viene a trovarsi nell’immediata vicinanza con Λόγος stesso /…/ Che cosa significa questo verbo? (μολογεν) stando letteralmente al significato essenziale esso vuol dire “dire la stessa cosa che dice un altro” ciò potrebbe significare soltanto ripetere pedissequamente e banalmente con le stesse parole ciò che è stato detto da qualcun altro (una specie di parafrasi) ma μολογεν non significa affatto questo dal momento che se facciamo rigorosamente attenzione, ci accorgiamo che il λγειν, il dire e il λγειν in generale non può essere inteso nel senso dell’espressione linguistica e della comunicazione (quindi μολογεν “dire lo stesso” “comunicare lo stesso” lui dice no, il λγειν non ha nulla a che fare con il raccontare qualche cosa, con il discorso eccetera) Il termine μολογεν, dire la stessa cosa che dice un altro, non va compreso neppure nel senso che qualcuno intenderebbe la stessa cosa che intende qualcun altro in modo che chissà dove, chissà quando emergono due opinioni identiche (due persone dicono la stessa cosa). Ομολογεν significa piuttosto trovarsi nella stessa posizione dell’altro nei confronti di ciò che l’altro dice, concordare con lui ed essere d’accordo con ciò che è detto dall’altro, μολογεν quindi è ammettere che ciò che l’altro dice si mostra come qualcosa che per il modo in cui si mostra richiede accordo, concordare e ammettere ciò che l’altro dice è quindi in sé già essere d’accordo con l’altro, μολογία è l’accordo, concorda e ammette, dunque l’accordo non consiste nel fatto che nell’uno e nell’altro c’è ed emerge la stessa opinione (badate bene le finezze di Heidegger) ma nel fatto che nell’uno e nell’altro uomo in quanto diversi convergono su qualcosa, nell’ammettere quella medesima cosa che li concerne entrambi (come dire che si mantiene l’identità nella differenza, questo è molto derridiano perché ve lo rileggo “l’uno e l’altro uomo in quanto diversi convergono su qualcosa” c’è una differenza che converge sull’identità) Ομολογεν “dire la stessa cosa che dice un altro”, ogni identità e soprattutto l’identità dell’μολογία si fonda su una diversità (sulla differenza, quindi l’identità è fondata su una differenza. Qui non è casuale che stiamo parlando di Eraclito, perché Eraclito fra le cose i frammenti rimasti, le cose più note che dice, dice anche questo, che πόλεμος è il padre di ogni cosa, πόλεμος cioè la guerra, cosa significa questo? Che ogni cosa per essere quella che è deve opporsi a tutto ciò che quella cosa non è, quindi per essere quello che è deve contrastare tutto ciò che le si oppone, e che cosa si oppone a ciò che è? Ciò che quella cosa non è. Quindi questa identità di una certa cosa è tale perché è in conflitto con tutto ciò che è altro. Eraclito dice che perché una cosa sia identica a sé, sia quello che è, occorre che si opponga a qualunque altra cosa, cioè a qualunque cosa che non è quella cosa, quindi una certa cosa è quella che è per via di una differenza da tutte le altre cose. Un significante è quello che è in una relazione differenziale di tutti gli altri significanti, e questo è De Saussure) Solo il diverso può essere identico, il diverso è l’identico in un rapporto sempre diverso con il medesimo (che è esattamente quello che dice De Saussure: il significante è quel significante solo in relazione a tutti gli altri significanti, cioè preso in una relazione differenziale) proprio a quest’ultimo, proprio dal fatto che è “medesimezza” dipende il diverso nella sua diversità e l’identità dell’identico acquista qui il suo valore, una proposizione ancora impensata ma deve essere enunciata proprio ora perché appartiene alla “logica” rettamente intesa (“rettamente intesa” significa che la logica dei vari manuali non è rettamente intesa) essa dice: quanto più originaria è la medesimezza del medesimo (potremmo dire la stessità dello stesso) tanto più essenziale è la diversità nell’identità e ancora più profonda è l’identità dell’identico μολογεν σοφόν στν il sapere autentico consiste nell’accordo che concorda e ammette (Concorda cioè mette insieme l’identico e il differente, mette insieme. A questo punto, tentando una forzatura per il momento, ma fino a un certo punto, mette insieme l’immanente e il trascendente, il significante e il significato, cioè compone il segno, l’uno di cui diceva prima Eraclito. Concorda e ammette, concorda e li mette insieme, ammette cioè la differenza e l’identità come due elementi inscindibili, non c’è identità senza differenza, non c’è differenza senza identità. Nominando qualcosa lo nomino in quanto è quello che è, lo faccio diventare qualcosa di immanente, nomino il significante per così dire, lo dico nominando, è quello che è perché lo nomino, nominandolo lo differenzio da qualunque altro, e se non ci fossero questi altri da cui si differenzia non ci sarebbe neppure lui.