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25 marzo 2020

 

Scienza della logica di G.W.F. Hegel

 

Proseguiamo la lettura della Scienza della logica di Hegel, tendo sempre conto che il motivo per cui la stiamo leggendo è trovare nuove cose da pensare, da considerare, intorno alla questione del linguaggio. A pag. 153. La vera infinità presa così in generale quale un esserci che è posto come affermativo contro l’astratta negazione, è la realtà in un senso più elevato, che non quella che dapprima si era semplicemente determinata. La realtà ha acquistato qui un contenuto concreto. Non il finito è reale, ma l’infinito. A pag. 154. L’idealità può esser chiamata la qualità dell’infinità. Ma essa è essenzialmente il processo del divenire, e quindi un passaggio, come quello del divenire nell’esser determinato, passaggio che è ora da assegnare. Come togliersi della finità, vale a dire della finità come tale e in pari tempo della infinità a lei soltanto contrapposta, soltanto negativa, l’infinità è ritorno in sé, riferimento a se stesso, essere. Poiché in questo essere v’è una negazione, è essere determinato. Ma poiché l’infinità è inoltre essenzialmente negazione della negazione, cioè la negazione che si riferisce a se stessa, essa è quell’essere determinato, che si chiama esser per sé. Vediamo quindi che l’infinito non sia niente altro che ciò che necessariamente accompagna il finito e ne costituisce il per sé, cioè il significato. Quindi, siamo sempre nella posizione di intendere la questione di Hegel attraverso la linguistica, e cioè il significante, che ha un significato, e questo significato ritorna sul significante, solo che questo significato rappresenta l’infinito, infinito in quanto non è delimitabile. Quindi, il ritorno dell’infinito sul finito non è altro che il ritorno del significato sul significante. A pag. 155. Il finito è il suo proprio togliersi, racchiude in sé la sua negazione, l’infinità – unità dei due; si esce poi, oltre il finito, nell’infinito come nell’al di là di quello, - separazione dei due; ma al di là dell’infinito sta un altro finito (l’al di là, l’infinito, contiene la finità), - unità dei due; questo finito, però, è anch’esso un negativo dell’infinito, separazione dei due, ecc. Qui anticipa qualcosa che dirà a breve e cioè di come il finito e l’infinito di fatto non siano altro che l’in sé e il per sé. Ora, è chiaro che il finito ha come sua negazione l’infinito e che l’infinito ha come sua negazione il finito. Questo comporta che quando si pone l’unità dei due, unità come l‘infinito, di nuovo l’infinito avrà il finito come sua negazione e il finito avrà come sua negazione l’infinito. Si procede in questo modo, e cioè la negazione continua dell’elemento che deve essere tolto per potere stabilire in modo determinato un elemento… Ricordatevi sempre l’esempio che fa Severino: l’essere viene determinato come incontrovertibile dalla presenza del non essere come tolto. A pag. 159. La proposizione che il finito è ideale, costituisce l’idealismo. L’idealismo della filosofia consiste soltanto in questo, nel non riconoscere il finito come un vero essere. Ogni filosofia è essenzialmente idealismo, o per lo meno ha l’idealismo per suo principio, e la questione non è allora se non di sapere fino a che punto cotesto principio vi si trovi effettivamente realizzato. La filosofia è idealismo com’è idealismo la religione. Perocché nemmeno la religione riconosce la finità come un vero essere, come un che di ultimo ed assoluto, o come un che di non posto, d’increato, di eterno. L’opposizione di filosofia idealistica e realistica è quindi priva di significato. Anche in questo per Hegel non c’è alcuna opposizione, nel senso che è come se ponesse l’idealismo e il realismo come due momenti dell’intero, così come ha fatto in altre circostanze. Una filosofia che attribuisse all’esistere finito, come tale, un vero essere, un essere definitivo, assoluto, non meriterebbe il nome di filosofia. I principii delle filosofie antiche o moderne, l’acqua, oppur la materia, oppur gli atomi, son pensieri, universalità, idealità, non cose quali immediatamente si trovano, vale a dire nella loro individualità sensibile. Nemmeno quell’acqua taletica; poiché, sebbene sia anche l’acqua empirica, è però in pari tempo, oltre a questo, l’in sé o l’essenza di tutte le altre cose; e queste non sono indipendenti, fondate in sé, ma poste da un altro, dall’acqua, ossia sono ideali. Con questo ci sta semplicemente dicendo che anche nell’ambito filosofico porre il finito significa porre qualcosa di ideale, come se con il finito si immaginasse qualcosa che di fatto non esiste in quanto tale. Il finito esiste in quanto contrapposto all’infinito; come sappiamo, l’infinito ritorna poi sul finito e l’infinito diventa il reale: è l’infinito che è reale, non il finito. Il finito di per sé è sempre qualcosa in attesa di ulteriore determinazione. A pag. 161. L’esser per sé. Nell’esser per sé è compiuto l’essere qualitativo; esso è l’essere infinito. L’essere del cominciamento è privo di determinazione. L’essere del cominciamento, l’in sé, il primo momento, rimane senza determinazione; infatti, il significante senza il significato è privo di qualunque determinazione. L’essere determinato è essere tolto, ma tolto solo immediatamente. Esso non contiene quindi anzitutto altro che la prima negazione, immediata essa stessa. L’essere è invero anche conservato, ed ambedue, l’essere e la negazione, son nell’essere determinato uniti in una semplice unità. Ma appunto perciò sono in sé ancor diseguali l’uno all’altro, e la loro unità non è ancor posta. L’esser determinato è quindi la sfera della differenza, del dualismo, il campo della finità. la determinatezza è determinatezza come tale, un esser-determinato relativo, non assoluto. Qualcosa, in effetti, è sempre determinato in virtù di qualche altra cosa che lo determina, non è determinato per sé. E questo è ciò che accade nel primo momento, l’incominciamento: ciò che inizia è qualche cosa che attende di essere determinato da ciò che seguirà. A pag. 162. L’esser per sé è in primo luogo un immediato essente per sé, Uno. In secondo luogo l’Uno trapassa nella moltitudine degli Uno, - repulsione; il quale esser altro dell’Uno si toglie nella sua idealità, - attrazione. In terzo luogo la reciproca determinazione della repulsione e dell’attrazione, nella quale esse ricadono nell’equilibrio, e insieme con quella la qualità … passano nella quantità. Questo è il primo momento in cui incomincia a parlare della quantità che poi esplorerà in modo articolato nelle pagine successive. Dunque, dice che l’esser per sé è qualcosa che è per se stesso, è l’Uno, è identificato come Uno; ma questo Uno trapassa nella moltitudine degli Uno, perché in effetti questo Uno ha una sua contrapposizione, ma a che cosa si contrappone l’Uno? Ha come contrapposto un altro Uno. Quindi, è sempre Uno, ma questo Uno si moltiplica, diventa tanti Uno. Qui c’è quella che Hegel chiama la repulsione: questo Uno si scompone in vari Uno, perché ciascun Uno ha un suo opponente che è un altro Uno, ma tutti questi opponenti, questi altri Uno, di fatto, sono sempre Uno, ed ecco, quindi, l’attrazione, cioè ritornano ad essere Uno, perché ciascuno di questi è Uno. Repulsione e attrazione sono due momenti che verranno composti nell’integrazione. Diciamo infatti che qualcosa è per sé, in quanto esso toglie l’esser altro, la sua relazione e la sua comunanza con altro, in quanto cioè l’ha respinta e ha fatto astrazione da essa. L’altro è per lui soltanto come un tolto, come suo momento. L’esser per sé consiste nell’esser uscito al di là del termine, al di là del proprio esser altro, così da essere, come questa negazione, l’infinito ritorno in sé. Questo è praticamente il movimento di cui parla Hegel ovunque: ciascun elemento ha la sua opposizione, il suo negativo, ed è la prima negazione. Questa prima negazione è quella che accompagna necessariamente qualunque elemento perché possa determinarsi in quanto elemento. Poi, c’è la seconda negazione: questo esser altro ritorna da dove è partito, e cioè è il per sé che ritorna all’in sé, e quindi determina il qualche cosa. A pag. 163. La coscienza è così secondo il suo apparire, ossia è il dualismo di sapere, da una parte, di esser per sé, di aver l’oggetto idealmente in sé, di esser non solo presso cotesto altro, ma in cotesto altro anche presso se stessa. Questo è il modo con cui prosegue a dire come, in effetti, ciascuna cosa si mostra per quella che è a condizione di non essere quella che è, cioè, mostrandosi altro da sé. È un altro da sé che non può rimanere se non come momento, momento che viene tolto con l‘integrazione, con l’Aufhebung. Come si è già ricordato, l’esser per sé è l’infinità ricaduta nel semplice essere. L’esser per sé è questa infinità, il significato, che ricade nel semplice essere, cioè nell’elemento da cui si è incominciato, il significante. È esser determinato, in quanto che la negativa natura dell’infinità… Abbiamo visto che l’infinito è ciò che si oppone al finito, come sua negazione; negando questa negazione succede che l’infinito ritorna sul finito e l’essere diventa l’infinito. …che è negazione della negazione, nell’ormai posta forma dell’immediatezza dell’essere, è soltanto come negazione in generale, come semplice determinatezza qualitativa. Ma l’essere, in una tal determinatezza nella quale è esser determinato, è subito anche distinto dallo stesso esser per sé, che è soltanto esser per sé, in quanto la sua determinatezza è quella determinatezza infinita. Di nuovo la determinatezza dell’esser per sé è di essere infinito. Ciò nondimeno l’esser determinato è in pari tempo momento dello stesso esser per sé; perocché questo contiene ad ogni modo anche l’essere, affetto dalla negazione. Così la determinatezza, che nell’esser determinato come tale è un altro e un esser per altro, è ripiegata indietro nell’infinita unità dell’esser per sé, e il momento dell’esser determinato sta nell’esser per sé come esser per uno. Sta dicendo che questo ritornare del per sé all’in sé ha come risultato l’uno. Ne parlerà tra breve, l’Uno non è propriamente l’uno di cui parlano, ad es., Leibniz o Plotino o lo stesso Platone, ma la questione possiamo riassumerla brevemente così: per tutti costoro questo Uno non è mi posto come momento di una integrazione, cioè, non è mai posto come quell’elemento che si contrappone ai molti e integra i molti, per cui si passa dalla proposizione “l’Uno e i molti” alla proposizione che “l’Uno è molti”. A pag. 166. L’idealismo leibniziano sta più dentro ai confini dell’astratto concetto. Il soggetto leibniziano della rappresentazione, la monade, è essenzialmente un che d’ideale. Il rappresentare è un esser per sé, in cui le determinatezze non sono limiti, e così non sono un esserci, ma soltanto momenti. Quella del rappresentare è senza dubbio anch’essa una determinazione più concreta, ma che qui però non ha altro significato, che quello dell’idealità; perché in Leibniz anche l‘inconscio, in generale, rappresenta, percepisce. In questo sistema è dunque tolto l’esser altro… Ecco qui la questione che vi dicevo: è tolto l’esser altro e, quindi, è tolto ciò che gli si oppone, è tolto l’altro momento, altro momento che insieme con il primo compongono l’Aufhebung, l’integrazione, e che danno ovviamente il movimento dialettico. Potremmo dire che la critica che Hegel ha posto a quei filosofi che hanno posto l’Uno è di non inserire l’Uno in un movimento dialettico. A pag. 168, punto c) Uno. L’esser per sé è la semplice unità di se stesso e del suo momento, l’esser per uno. Dunque, semplice unità di se stesso e dl suo momento. Quindi, questa semplice unità di un elemento con se stesso e il suo momento, Hegel lo pone come uno, come unità. Non si ha che una sola determinazione, il riferimento a sé del togliere. I momenti dell’esser per sé sono ricaduti nella indistinzione, la quale è immediatezza o essere, ma una immediatezza, che si fonda sul negare, il quale è posto come sua determinazione. È una questione che ripete spesso: la determinazione di qualche cosa è posta dalla sua negazione, un elemento è determinato in quanto è negato il suo opposto. Ancora Severino: l’essere è quello che è perché non è ciò che non è. L’esser per sé è così un essere (un ente) per sé, e in quanto in questa immediatezza il suo interno significato sparisce, è il limite affatto astratto di se stesso, - l’Uno. Si può far notare in precedenza la difficoltà che sta nella seguente esposizione dello sviluppo dell’uno, nonché la ragione di questa difficoltà. I momenti, i quali costituiscono il concetto dell’uno come esser per sé, vi si presentano uno fuor dell’altro. E sono: 1) la negazione in generale, 2) due negazioni, 3) perciò di due, i quali son lo stesso, 4) e sono assolutamente opposti; 5) il riferimento a sé, l’identità come tale, 6) riferimento negativo, e pur nondimeno a se stesso. Qui fa l’elenco di tutti i passaggi che avvengono nel movimento dialettico individuando tutti i vari momenti. La ragione per cui questi momenti si presentano qui separati è che nell’esser per sé, in quanto è un esser (ente) per sé, entra la forma dell’immediatezza, la forma dell’essere. Questi momenti appaiono come separati in quanto li si pone come cose che sono, in quanto tali, o che sono per sé. Per questa immediatezza ciascun momento vien posto come una determinazione propria, come una determinazione che è; e pur tuttavia i momenti sono anche, in pari tempo, inseparabili. Quindi è che di ogni determinazione dev’esser anche detto il suo contrario. È questa contraddizione, che, nella natura o costituzione astratta dei momenti, produce la difficoltà. Immediatamente pone la questione dell’uno e dei molti. L’uno è il semplice riferimento dell’esser per sé a se stesso, dove i suoi momenti son ricaduti in sé, e dove perciò l’esser per sé ha la forma dell’immediatezza, e i suoi momenti quindi diventano ormai degli esserci che sono. Questo è fondamentale. L’uno dunque non è altro che il semplice riferimento dell’esser per sé a se stesso, l’esser per sé che si riferisce unicamente a sé. Però, dice, questo esser per sé ha la forma dell’immediatezza e, quindi, si pongono come degli esserci che sono in quanto tali. Questo rende conto del fatto che questi momenti non vengono colti come momenti di un tutto ma come astratti. A pag. 170. a) L’uno in lui stesso. In lui stesso l’uno in generale è. Questo suo essere non è un esserci, non è una determinatezza come riferimento ad altro, non è una certa particolare natura o costituzione. Consiste in questo: nell’aver negata tutta questa cerchia di categorie. L’uno non è quindi in alcun modo capace di diventar altro; è immutabile. Questo direi per definizione, cioè in seguito alle definizioni che lui ha posto. Stiamo sempre parlando di proposizioni e, quindi, questo uno non è un ente di natura, è un ente di ragione, è un concetto che lui stesso ha costruito e con il quale sta lavorando, potremmo dire, giocando. In questa semplice immediatezza la mediazione dell’esser determinato e dell’idealità stessa, e quindi ogni diversità e molteplicità, è sparita. Hegel pone questo uno come qualcosa che non dipende da altro ma è assolutamente per sé, ed è un per sé in quanto non c’è un altro al quale si riferisca. Nell’uno non v’è nulla. questo nulla, l’astrazione della relazione a se stesso, è qui distinto dallo stesso esser dentro di sé. È un posto, perocché questo esser dentro di sé non è più il semplice del qualcosa, ma ha la determinazione di esser concreto, in quanto mediazione. Come astratto, però, esso è certamente identico coll’uno, ma è diverso dalla sua determinazione. Questo nulla posto così come in un uno, è il nulla come vuoto. Il vuoto è pertanto la qualità dell’uno nella sua immediatezza. Ricordate che aveva posto anche l’essere come il vuoto, come il nulla. Se, come dice lui, togliamo questo uno dalla relazione con altro, ecco che ci ritroviamo di fronte a qualcosa di inevitabile: questo uno è quello che è sempre in virtù di altro, perché è un elemento e ciascun elemento è quello che è in virtù di un altro. Se togliamo quell’altro, cioè se diciamo che non è più per altro, allora è nulla, è il vuoto. A pag. 171. Nota. L’uno, in questa forma di un essere determinato, è il grado di quella categoria, che venne a presentarsi presso gli antichi come principio atomistico, secondo cui l’essenza delle cose consiste nell’atomo e nel vuoto (τό τομον oppure τά τομα τό χενόν). Quando l’astrazione è riuscita ad avere questa forma, ha raggiunto una maggiore determinatezza, che non l’essere di Parmenide e il divenire di Eraclito. Quanto essa si colloca in alto, col fare di questa semplice determinatezza dell’uno e del vuoto il principio di tutte le cose, col ricondurre l’infinita molteplicità del mondo a questa semplice opposizione, e coll’ardire di conoscer quella per mezzo di questa, altrettanto riesce facile al riflettere rappresentativo, di rappresentarsi qui gli atomi e lì accanto il vuoto. Non è perciò meraviglia che il principio atomistico si sia conservato in ogni tempo. Il parimenti triviale ed intrinseco rapporto della composizione, che vi si deve ancora aggiungere, perché si abbia l’apparenza di un concreto e di una molteplicità, è altrettanto popolare quanto gli atomi stessi e il vuoto. L’uno e il vuoto son l’esser per sé, il supremo qualitativo esser dentro di sé, caduto nella completa esteriorità. L’immediatezza o esser dell’uno, essendo la negazione di ogni esser altro, son posti come non più determinabili e mutevoli, epperò come tali che per la loro assoluta rigidità ogni determinazione, molteplicità o collegamento rimane una relazione affatto estrinseca. Questo nella posizione dei presocratici, cioè l’atomo e il vuoto sono posti l’uno accanto all’altro in una sorta di vicinanza, ma rimangono presi e intesi come astratti e non come momenti di un tutto, quindi, fuori dal movimento dialettico. A pag. 173. c) Molti uno. La repulsione. L’esser per sé dell’uno è ciò nondimeno essenzialmente l’idealità dell’esserci e dell’altro; esso non si riferisce come a un altro, ma soltanto a sé. Ma in quanto l’esser per sé è fissato come uno, come ente per sé, come un che di immediatamente dato, la sua negativa relazione a sé è in pari tempo relazione a un ente;… Cioè: il suo negativo, quando pensiamo all’uno, è anche lui un ente. …e poiché è anche negativa, quello, cui l’uno si riferisce, resta determinato come un esserci e come un altro; come quello che è essenzialmente relazione a se stesso, l’altro non è la negazione indeterminata, come vuoto, ma è parimenti un uno. L’uno è pertanto un divenire molti uno. Sta dicendo che questa relazione negativa a sé che l’uno ha con se stesso, cioè, ciò a cui si riferisce resta determinato come un esserci, l’uno, e come un altro, ma questo altro è un altro uno, cioè ciò che è in relazione con se stesso. Propriamente, però, non è questo un divenire; perocché il divenire è un passare dall’essere nel nulla; l’uno, all’incontro, non diventa che uno. Rimane sempre uno. L’uno, il riferito, contiene il negativo come riferimento; lo ha quindi in lui stesso. L’uno, se si riferisce a sé in quanto uno, ha sempre se stesso, cioè uno, come riferimento, cioè, l’uno si riferisce sempre all’uno. Invece del divenire si ha dunque in primo luogo il proprio immanente riferimento dell’uno;… L’uno che continua a riferirsi a sé, cioè, si riferisce sempre all’uno. …in secondo luogo poi, in quanto cotesto riferimento è negativo e l’uno è insieme un essere, l’uno si respinge via da sé. Il riferimento negativo dell’uno a sé è repulsione. Qui abbiamo una forma singolare. L’uno che si riferisce a sé, dice lui, è repulsione, non integrazione ma repulsione, nel senso che, riferendosi a sé, deve porre se stesso, cioè l’uno, fuori di sé, perché in questo riferirsi a sé questo riferire, questo portare fuori, resta comunque un movimento che va dall’uno all’altro. È detta in modo un po' spiccio, però, se l’uno si riferisce a sé, cioè ha sempre come riferimento, in quanto negazione dell’uno, un altro uno, è come se producesse da sé un altro uno. Questa repulsione, in quanto è così il porre molti uno, ma per opera dell’uno stesso, è il proprio uscir fuori di sé dell’uno, ma un uscire in tali, fuori di lui, che non sono essi stessi altro che degli uno. L’uno produce altri uno; li produce in quanto sono la sua negazione, sono il suo riferimento. È questa la repulsione ne concetto, la repulsione in sé, dalla quale si distingue la repulsione seconda, che è quella che subito si affaccia alla rappresentazione della riflessione esterna. Questa seconda repulsione non è la generazione degli uno, ma è solo il reciproco tenersi lontani di tali uno che vengon presupposti e presi come già presenti. Si tratta allora di vedere in qual modo quella prima repulsione, la repulsione che è in sé, si determini a repulsione seconda, a repulsione estrinseca. A pag. 175. La repulsione dell’uno da se stesso è l’esplicazione di ciò che è l’uno in sé. Che cos’è l’uno in sé? È l’uno che ha come riferimento soltanto se stesso, ma, riferendosi a se stesso, produce un altro uno, l’uno al quale si riferisce, che è sempre se stesso. L’infinità poi, messa come un esser l’uno fuor dell’altro, è qui l’infinità venuta fuor di se stessa. È venuta fuor di se stessa per l’immediatezza dell’infinito, dell’uno. Questa produzione di uno che si riferisce a se stesso è infinita. Essa è tanto un semplice riferirsi dell’uno all’uno, quanto anzi l’assoluta irrelatività dell’uno; è quello per la semplice affermativa relazione dell’uno a sé; è questo per cotesta stessa relazione, in quanto negativa. Oppure la pluralità dell’uno è il proprio porre dell’uno. Questa pluralità dell’uno non è niente altro che l’uno che pone se stesso in quanto uno. Vedete che se l’uno pone se stesso in quanto uno già sono due uno. L’uno non è se non la negativa relazione dell’uno a sé, e questa relazione, epperò l’uno stesso è il Molti uno. Ovviamente, a questo punto l’uno è come se si “frammentasse” in tanti uno, perché ciascun uno si riferisce a sé in quanto uno e, quindi, ha sempre come riferimento un altro uno. Ma in pari maniera la pluralità è anche assolutamente estrinseca all’uno. È fuori dell’uno perché l’uno si riferisce a sé, perché è qualcosa che è dentro ma anche fuori di sé. Perocché l’uno è appunto il togliersi dell’esser altro, la repulsione è il suo riferimento a sé, e la sua semplice eguaglianza con se stesso. La moltitudine degli uno è l’infinità, come contraddizione che, quasi neutrale, produce se stessa. A pag. 177. Ma nella pluralità l’uno distinto ha un essere; l’esser per uno, com’è determinato nell’escludere, è quindi un esser per altro. Ci sta dicendo che questo uno è per uno, nel senso che si riferisce a sé, ma riferendosi a sé si riferisce ad altro perché questo altro uno è, per l’appunto, un altro uno. Ciascuno viene così respinto da un altro, vien tolto e reso tale, che non è per sé, ma per uno, e precisamente un altro uno. Qui si pone una questione interessante: questo uno è necessariamente per sé, perché si riferisce a sé, ma riferendosi a sé si riferisce ad altro. Sta qui la questione della parola, nel senso che parlando io intendo dire una certa cosa, mi riferisco a quella certa cosa, che è quella certa cosa, ma riferendosi a quella cosa è già un’altra cosa, già si è spostata su un’altra cosa, nel senso che quella stessa cosa è già un’altra cosa. Gli uno non soltanto sono, ma si conservano per mezzo del loro scambievole escludersi. Ora in primo luogo, quello in cui gli uno dovrebbero aver il fermo punto d’appoggio della lor diversità contro il loro esser negati, è l’esser loro… Si negano l’uno con l’altro, si negano in quanto l’uno si riferisce a se stesso e, quindi, si riferisce a un altro uno. Questo essere in sé è che sono uno. Ma tutti sono uno. Tutti questi vari uno che si producono dall’uno sono sempre uno. Nel loro essere in sé gli uno son lo stesso, invece di trovarvi il punto fermo della lor diversità. Sono tanti uno, ma tutti questi uno sono sempre uno. In secondo luogo il loro esser determinato e il loro rapportarsi l’uno all’altro, vale a dire il lor porre se stessi come uno, è il reciproco negarsi. Ciascuno si pone come uno e, ponendosi come uno, si pone come differente dall’altro. A pag. 179. È un’antica proposizione che l’uno è molto, e specialmente, che il molto è uno. A questo proposito è da ripetere l’osservazione, che la verità dell’uno e del molto espressa in proposizione appare in una forma inadeguata, che questa verità è da comprendere e da esprimere soltanto come un divenire, come un processo, cioè come repulsione e attrazione, e non come l’essere, quale in una proposizione vien posto come quieta unità. Qui c’è un’obiezione a Parmenide, il quale pone l’essere e il non essere non come due momenti dell’intero ma come due elementi separati. Fu dianzi menzionata e ricordata la dialettica di Platone nel Parmenide circa la deduzione del molto dall’uno, vale a dire dalla proposizione: L’uno è. L’interna dialettica del concetto è stata esposta. Facilissimo è intendere la dialettica della proposizione, che il molto è uno, come riflessione estrinseca; ed estrinseca dev’esser qui, in quanto che anche l’oggetto, i molti, è il reciprocamente estrinseco. Questo confronto, tra loro, dei molti fa subito vedere, che l’uno è assolutamente determinato come l’altro; ciascuno è uno, ciascuno è uno, ciascuno è uno dei molti… Sottointeso: uno. …è esclusivo degli altri. Sottointeso: uno. …per modo ch’essi sono assolutamente lo stesso, e che non si ha assolutamente che un’unica determinazione. È questa la questione: questi molti uno continuano ad essere sempre uno. A pag. 180. b) L’unico uno dell’attrazione. La repulsione è il frammentarsi dell’uno anzitutto in molti, il contegno negativo dei quali è privo di resultati, perocché essi si suppongono l’un l’altro come esistenti; essa non è che il dover essere dell’idealità, la quale vien realizzata nell’attrazione. La repulsione passa nell’attrazione, i molti uno passano in un unico uno. Tutte e due, la repulsione e l’attrazione, son dapprima diverse, quella come realtà degli uno, questa come lor posta idealità. Dunque, i molti uno sono molti in quanto si respingono, perché un uno non è un altro uno, sono vari uno che intervengono perché, come abbiamo visto, l’uno ha come sua opposizione un altro uno, ma che è sempre se stesso. Quindi, c’è una repulsione perché si producono molti uno, ma tutti questi uno continuano ad essere sempre uno, cioè ad essere sempre se stesso. A pag. 181. L’unico uno è ora l’idealità realizzata,… Mentre i vari elementi che intervengono sono “reali”, l’uno è un’idealità, è un’idea, è l’universale. …l’idealità posta nell’uno. Cotesto uno è attraente per la mediazione della repulsione. Esso contiene questa mediazione in se stesso come sua determinazione. Non inghiottisce così gli uno astratti, in sé, come in un punto, vale a dire, non li toglie in maniera astratta. In quanto contiene nella sua propria determinazione la repulsione, questa conserva in pari tempo in lui gli uno come molti. Per mezzo del suo attrarre esso mette assieme, per così dire, qualcosa; acquista un ambito o un riempimento. È così in lui, in generale, una unità di repulsione e di attrazione. Ecco, questa è l’unità, sarebbe l’intero, l’unità di repulsione e attrazione, del fatto che l’uno sono molti e i molti sono uno. Questo è interessante perché, in effetti, anche se naturalmente Hegel non ne tien conto, pone la questione del linguaggio, del suo funzionamento, o, più propriamente ancora, potremmo quasi dire, la condizione del suo funzionamento, cioè che i molti siano uno, ma che questo uno sia i molti, nel senso che ci sia continuamente questo movimento dialettico che consente il movimento del linguaggio, di ciascun atto di parola nel linguaggio. Questo perché ciascun atto di parola è se stesso, ma, come abbiamo visto in varie occasioni, è se stesso in quanto altro da sé; è se stesso, cioè è uno, ma è uno perché è molti. Il significante è uno, è l’immanente, è ciò che ci appare, che si manifesta, ma è uno a condizione di essere molti, di avere un significato, che è molti perché il significato è molte cose; ma questi molti rimangono uno quando tornano nel significante, significante che a questo punto è uno a condizione di essere molti e i molti sono a condizione di essere uno, cioè che ci sia il significante. A pag. 182. Secondo questa determinazione esse sono inseparabili e in pari tempo determinate una rispetto all’altra come dover essere e termine. Il loro dover essere è l’astratta determinatezza loro in quanto sono in sé, la qual determinatezza però è con ciò assolutamente rimandata al di là di sé, e si riferisce all’altra, e così ciascuna è per mezzo dell’altra come altra. Qui sta parlando della repulsione e dell’attrazione. Sta dicendo come ciascuna delle due presupponga necessariamente l’altra. A pag. 183. La repulsione relativa è il reciproco tenersi lontani dei molti uno già dati, che s’hanno a trovare come immediati. Ma che vi siano molti uno, è la repulsione stessa;… La repulsione non è nient’altro che il fatto che ci siano molti uno, che ciascun uno si riferisca a sé, in quanto uno ma sempre come altro uno. …il presupposto, che la repulsione avrebbe, non è che il suo proprio porre. Questo presupposto è il proprio porre gli uno l’uno accanto all’altro, quindi, come tanti uno. Inoltre la determinazione dell’essere, la quale, prescindendo da ciò che gli uno son posti, spetterebbe agli uno, - cotesta determinazione per cui essi sarebbero già in precedenza, appartiene parimenti alla repulsione. Nel momento in cui si pone uno si sono già posti altri uno, quindi, sono già da sempre lì. Il repellere è quello, per cui gli uno si manifestano e si conservano come uno, quello per cui essi, come tali, sono. L’essere degli uno è la repulsione stessa. Questa non è così un esserci relativo dirimpetto a un altro esserci, ma si riferisce interamente solo a se stessa. L’attrazione è il porre l’uno come tale, il porre l’uno reale, rispetto al quale i molti, nel loro esserci, vengon determinati solo come ideali e dileguantesi. Così l’attrazione presuppone subito se stessa, nella determinazione cioè degli altri uno, come quella che è ideale;… Ci sta dicendo che il movimento dialettico è tale per cui l’uno si pone in quanto se stesso, quindi, si pone come uno, ma ponendosi come uno incomincia a porre molti uno; ora, questi uno vengono tolti ed ecco che allora ritorna sull’uno che cosa? La sua molteplicità, la sua infinità, e tornano i molti. Quindi, dice giustamente, l’attrazione presuppone subito se stessa: perché ci sia l’uno è necessario che questo uno abbia già fatto tutto il suo percorso, cioè, si sia mostrato come molti, i quali a loro volta si sono mostrati come uno; solo a questo punto l’uno è quello che è. È il principio del movimento dialettico, che è un altro modo per dire che il tutto, l’intero, deve già essere presente perché ogni movimento possa compiersi. …mentre cotesti uno debbon essere d’altra parte per sé, e per gli altri (e quindi anche per un qualunque attraente) debbon essere repulsivi. Se sono vari uno è chiaro che sono repulsivi, sennò non sarebbero tanti uno. Se sono tanti uno è perché il loro essere è quello di essere repulsivi, cioè si allontanano gli uni dagli altri. Contro questa determinazione di repulsione gli uno ottengono l’idealità non già soltanto per la relazione all’attrazione: essa, piuttosto, è presupposta, è la in sé essente idealità degli uno, in quanto come uno (compreso quello rappresentato come attraente) sono indistinti l’uno dall’altro, ossia sono un solo e medesimo uno. Ecco, questo è ciò che vi stavo dicendo, e cioè il fatto che questi uno, al termine del movimento dialettico, sono l’uno e, quindi, questo uno è tutti questi molti uno, che si sono tolti per tornare all’uno. In quanto l’uno come tale è il venire fuori di sé, in quanto non è esso stesso se non il porsi come il suo altro, come il molto, e il molto non è parimenti se non questo ricadere in sé e porsi come il suo altro, cioè come l’uno, e appunto con ciò il riferirsi soltanto a se stesso, il continuarsi ciascuno nel suo proprio altro, - con questo si ha già in sé inseparabilmente e l’uscir fuori di sé (repulsione) e il porsi come uno (attrazione). Cotesto si ha però come posto nella repulsione e attrazione relative, vale a dire in quelle che presuppongono degli uno immediati, esistenti; ciascuna di coteste determinazioni è allora in se stessa questa negazione di sé, e quindi anche la continuità di sé nella sua altra. Sta precisando in modo molto netto il funzionamento del movimento dialettico. Con ciò lo sviluppo dell’esser per sé è compiuto e giunto al suo risultato. L’uno, in quanto si riferisce a se stesso infinitamente (cioè come posta negazione della negazione), è la mediazione ch’esso si respinge da sé come suo assoluto (cioè astratto) esser altro (i molti), e in quanto si riferisce a questo suo non essere, negativamente, togliendolo, - appunto in ciò non è che il riferimento a se stesso. Come dire che l’uno si riferisce continuamente a se stesso… Potremmo dirla così: i molti uno, scomporre l’uno nei suoi molti, cioè la repulsione, è propriamente l’astrazione, mentre l’intero non è che l’uno che è ritornato avendo integrato in sé i molti, cioè, è l’uno che è diventato molti e i molti che sono diventati uno. A pag. 185. E l’Uno è soltanto questo divenire, in cui la determinazione ch’esso comincia, cioè che vien posto come immediato, essente, e che parimenti come risultato sarebbe tornato ad essere l’uno (vale a die l’uno altrettanto immediato, esclusivo), è sparita. Il processo, ch’esso è, lo pone e da ogni parte lo contiene solo come un tolto. Non ci sono più questi altri uno, non ci sono più nel senso che posso porli, coglierli, solo astrattamente. Ricordate Severino: la questione dell’astratto e del concreto: nel concreto ho soltanto l’uno, anche se posso naturalmente astrarre i vari momenti e coglierli come astratti. È esattamente quello che diceva Severino con la lampada che è sul tavolo: questa lampada che è sul tavolo è il concreto, e ciò che è; ma naturalmente questo è fatto di molti uno, cioè, di molte altre proposizioni, che sono tolte ma che devono esserci perché la proposizione “questa lampada che è sul tavolo” sia il concreto, sia effettivamente ciò che è. Determinato in sul principio questo togliere solo come un togliere relativo, come relazione cioè a un altro esistente … esso si mostra insieme come tale che passa nella infinita relazione della mediazione per mezzo della negazione delle estrinseche relazioni d’immediati e di esistenti, e come tale che ha per resultato appunto quel divenire, che nella instabilità dei suoi momenti è il precipitare, o meglio il fondersi con sé nella semplice immediatezza. Ecco il concreto. Fondersi con sé nella semplice immediatezza, il fondersi di tutti questi elementi astratti nella immediatezza: questo è il concreto. Questo essere, secondo la determinazione che ha ormai acquistata, è la quantità. Quindi, questo essere, secondo questa determinazione, questa fusione, per usare le sue parole, di tutti gli elementi astratti nel concreto, ha ormai acquistata, dice, la forma della quantità, e non più la qualità. È chiaro che qui qualità e quantità sono posti come l’in sé e il per sé. La qualità è il quale, cioè l’individuazione di qualche cosa, mentre la quantità rappresenta il per sé, cioè il significato della qualità, ciò che quindi rappresenta l’infinito e, pertanto, un numero indeterminato di cose di cui è fatto, per esempio, un significato. Questo esser altro si toglie nell’infinità dell’esser per sé, il quale ha realizzato come uno e molti e come lor relazioni quella differenza che ha in sé e dentro se stesso nella negazione della negazione, ed ha elevato il qualitativo a vera unità, vale a dire ad unità non più immediata, ma posta come accordantesi con sé. Quindi, non più immediata come qualità ma, come sta per accennare, si pone a questo punto la questione della quantità, del significato, del per sé. Questa unità è pertanto α) essere, però come affermativo, vale a dire come immediatezza mediata con sé per mezzo della negazione della negazione: l’essere è posto come l’unità che penetra attraverso le sue determinatezze, limiti, ecc., i quali son posti in lui come tolti;… Questo il primo momento: l’essere, come ciò che si afferma, vale a dire, ciò che si afferma immediatamente è quello che è in quanto si sono tolte, attraverso le negazioni, tutte le sue contrapposizioni. β) esser determinato o esserci: esso è secondo cotesta determinazione la negazione o determinatezza qual momento dell’essere affermativo, negazione o determinatezza che non è però più l’immediata, ma la riflessa in sé, non quella che si riferisce ad altro, ma quella che si riferisce a sé; è l’assoluto esser-determinato, l’esser-determinato in sé, - l’uno: l’esser per altro come tale è esso stesso esser in è;… L’in sé, abbiamo visto prima, adesso è il per sé, che si determina poi, alla fine, come autocoscienza; un’autocoscienza che prende atto del proprio lavorare per costruire il concetto. γ) esser per sé, come quell’essere continuantesi attraverso la determinatezza, nel qual essere l’uno e lo stesso essere in sé determinato son posti come un tolto. L’uno è in pari tempo determinato come uscito fuor di sé e come unità; l’uno quindi, il limite assolutamente determinato, è posto come il limite che non è un limite, che è nell’essere, ma gli è indifferente. Anche l’essere uno, l’essere per sé, sono posti come un tolto. E questo avviene nell’integrazione, nell’Aufhebung. Anche il significato alla fine è posto come un tolto. Il per sé non resta se non come condizione dell’in sé; resta ovviamente, perché se non ci fosse l’in sé non esisterebbe.