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25 gennaio 2023

 

Concetti fondamentali della filosofia aristotelica di M. Heidegger

 

Iniziando, volevo anticipare alcune cose in modo da renderle più perspicue, comprensibili, quando tra breve le leggeremo. Heidegger sta per approcciare questioni notevoli. Una di queste dice che gli umani, in quanto parlanti, costituiscono una κοινωνία, una comunità di parlanti. Questo con Aristotele parrebbe essere qualcosa di inevitabile, non solo, ma dice che ciascuno parla sempre con qualcun altro, e cioè c’è sempre l’interlocutore. Non è possibile – questo lo aggiungo io – un parlare che non sia un parlare a qualcuno. È una cosa, d’altra parte, già nota agli antichi: il parlare è sempre un parlare di qualcosa. Questo parlare di qualcosa, per usare le parole di Platone, è un λέγειν τί κατά τίνός, un parlare di qualcosa verso qualche cosa, verso qualcuno; anche nel cosiddetto soliloquio io parlo sempre con qualcuno. Faccio un esempio banalissimo. Immaginate che io faccia una sciocchezza qualunque. E, allora, cosa faccio? Dico “guarda che scemo, hai fatto questa cosa…”. Anche in questo caso io parlo a me, ma a me in quanto qualcun altro, come se fosse quello furbo che dice a quell’altro “guarda che scemo…”: è sempre un parlare a qualcuno. Pare che non sia possibile un parlare senza che sia un parlare a qualcuno. È questo il senso della κοινωνία, della comunità dei parlanti: si parla sempre a qualcuno. Si parla a qualcuno, dunque, ma a che scopo? L’altra volta dicevamo come sia fondamentale nel λόγος, nel discorso, nel dire, l’όρισμός, la definizione, il definire, cioè, si parla per definire, parlando si definisce. Non si può parlare senza definire, senza dire che cos’è, e dire che cos’è è delimitare, determinare, porre un fine. Tra breve parlerà del τέλος, del fine, e del πέρας, del limite, che è ineliminabile dall’essere, qualunque cosa sia. Infatti, perché qualcosa sia, occorre che sia determinato, cioè, delimitato. Il contrario, cioè la negazione del πέρας, è l’πειρον, l’indelimitato, l’indefinito, l’infinito. Quindi, mi rivolgo all’ente per determinarlo, per finirlo, per comprenderlo, per dominarlo: conoscere è dominare. La κοινωνία è la comunanza dei parlanti dove ciascuno ha come fine, come τέλος, il dominio sull’altro, attraverso la sua conoscenza, attraverso la sua determinazione, la sua delimitazione. Una comunità di parlanti dove ciascuno di questi parlanti ha come obiettivo, come fine, come τέλος, il controllo dell’altro. Controllo inteso qui nell’accezione più ampia del termine. È per questo che dicevo che gli umani sono, sì, enti sociali ma non socievoli, perché hanno questo obiettivo, ciascuno nei confronti dell’altro. Questo comporta che se voglio dominare qualcuno, anche l’altro vuole fare la stessa cosa nei miei confronti, in un modo o nell’altro, ma è questa la intenzione. Infatti, Aristotele parlerà a breve dell’intenzione, della volontà di…, che è volontà di dominare l’ente. Rivolgersi all’ente non è altro che considerarlo – questo lo dirà – un utilizzabile: ciascun ente è tale, è in quanto è utilizzabile. Qui ci sarebbe da fare un discorso, che in parte abbiamo fatto sempre rispetto a Heidegger, quando parla della tecnica, della τέχνη, dove l’uomo diventa un fondo, qualcosa da utilizzare per altro, e questo sia in ambito sociale che personale. Comunque, l’altro è sempre un utilizzabile. Per che cosa? Aristotele parla di ἡδονή, di piacere, ma il piacere dove sta? Lui stesso lo pone, anche se non lo vede, nel determinarlo, nel delimitarlo, nel definirlo, cioè, nel controllarlo. Quando mi chiedo che cos’è una certa cosa, mi sto chiedendo in che modo posso utilizzarla, cioè in che modo posso controllarla, posso gestirla. Quindi, ciascuno nella κοινωνία vive in mezzo ai parlanti, ciascuno dei quali ha come proprio obiettivo dominare l’altro. Ma questo obiettivo di dominare l’altro è l’obiettivo del λόγος di determinare ogni ente che incontra, dominarlo attraverso la definizione, la determinazione, il sapere che cos’è. Che cos’è quest’altro che non capisco, che mi sfugge? Voglio sapere che cos’è, e l’όρισμός, la definizione, è ciò che consente di sapere che cos’è. Perché voglio sapere che cos’è? Per dominarlo. Nietzsche parlerebbe di superpotenziamento. La necessità dell’uomo di stare in mezzo agli altri è la necessità di avere altri da dominare: ecco perché vuole stare in mezzo agli altri, sennò non gliene importerebbe niente. Gli umani stanno insieme perché ciascuno ha l’esigenza, esigenza che viene dal fatto che parla, non è un ghiribizzo, ma poiché parla, poiché è nel λόγος, ha l’esigenza di dominare gli altri: è per questo che sta in mezzo agli altri e non vuole stare da solo, per cui quando è da solo si sente a disagio, inutile, cioè non ha niente da utilizzare, non ha altri da considerare degli utilizzabili e, quindi, si sente a disagio e corre immediatamente ai ripari trovando qualcuno da dominare. Fatte queste anticipazioni, passiamo alla lettura di Aristotele. A pag. 77. Aristotele definisce l’esserci dell’uomo come “una vita, e precisamente πρακτική, di un ente che ha il linguaggio”. Questo per Aristotele è l’esserci dell’uomo: l’agire di un ente che ha il linguaggio. Per farci un’idea concreta di che cosa Aristotele intende con essere ed esserci dell’uomo dobbiamo tentare un’interpretazione di questa definizione, che deve muoversi in una doppia direzione. Se la ζωή πρακτική (vita agente) viene determinata in quanto ψυχῆς ἐνέργεια, sarà necessario individuare 1. Il significato e il contesto materiale che si intende con ἐνέργεια, 2. Il contesto che si intende con ψυχή. ‘Ενέργεια è forse il carattere ontologico più fondamentale della dottrina aristotelica dell’essere. Ricordate nella Metafisica δύναμις, ἐνέργεια e ἐντελέχεια. Il termine contiene la parola originaria ἒργον. Generalmente ἒργον viene tradotto con forza ma Heidegger qui lo traduce in un altro modo, come l’“esecuzione autentica” e come il “prendersi cura”, quindi, la forza, l’agire, come il prendersi cura. Ne potremmo dedurre il modo del suo essere, nella misura in cui ogni ἒργον, in quanto ἒργον (prendentesi cura), ha la sua limitazione determinata conforme all’essere. Ciò che costituisce il suo πέρας (limite) è l’άγαθόν (non valore!). Da questo άγαθόν (bene) in quanto πέρας saremo condotti al limite eccellente di un essere che è definito in quanto κίνησις (movimento). Un limite così inteso di un essere così inteso è τέλος. Incomincia a dire che il limite, verso cui si tende, è il τέλος. Ma il τέλος, a sua volta, a che cosa punta? All’άγαθόν, al bene, ma al bene che esso stesso è il fine, è ciò cui si tende naturalmente. In altri termini, potremo indicare l’άγαθόν come ciò che dà soddisfazione. Ecco perché accosta il τέλος al πέρας, al limite: perché ciò che dà soddisfazione deve essere finito, non può essere infinito. Si pone una domanda: cos’è la vita? 1. Un modo dell’essere, caratterizzato dal suo “essere in un mondo”… Vivere è essere in un mondo, vivere è essere in mezzo agli enti, di cui sono fatto, io sono questo mondo, sono tutte queste cose che mi circondano. Lo dirà dopo: non c’è nessuna frattura, nessuna divisione, nessuna separazione fra soggetto e oggetto. 2. Un ente cui nel suo essere in quanto tale ne va di questo essere in quanto tale, un ente cioè che si prende cura del suo essere. Cioè: un ente che pensa se stesso. L’essere proprio della vita è posto in qualche modo nel suo ἒργον in quanto τέλος. È posto nel suo prendersi cura in quanto fine. L’essere proprio della vita, dell’esistenza, è prendersi cura, occuparsi di…, avere a che fare con… All’interno di queste concrete possibilità dell’esserci, in base alle quali ogni esserci concreto si decide, Aristotele cerca le possibilità fondamentali. L’ultima possibilità fondamentale, nella quale l’esserci è in modo autentico, la designiamo come esistenza. Qual è l’ultima delle possibilità? L’avere a che fare con qualche cosa che porta all’άγαθόν, al bene, alla soddisfazione. L’esistenza in senso radicale è per i greci proprio quel modo dell’“essere nel mondo”, del permanere in esso, che motiva lo όρισμός Il definire le cose. Io definisco le cose perché sono nel mondo, perché incontro continuamente enti che voglio definire, che voglio dominare. …in quanto parlare con il mondo. L’esistenza, la possibilità fondamentale radicale dell’esserci, è per i greci ϐίος θεωρητικός: la vita permane nella contemplazione pura. La seconda direzione procede – ontologicamente contrapposta – dalla chiarificazione della ψυχή. La ψυχή è un’ούσία, i cui elementi fondamentali sono per Aristotele il κρίνειν e il κινεῑν, il “distinguere e determinare” e il “muoversi” nel mondo, l’“avere a che fare con il mondo”. Questi sono i caratteri fondamentali dell’essere: il distinguere e il determinare. Stando nel mondo, io faccio continuamente questo: distinguo e determino. Queste operazioni comportano il movimento, perché se distinguo separo una cosa dall’altra, quindi, instauro immediatamente un movimento. Io distinguo Cesare dal termosifone che gli sta dietro perché li separo. Se non li potessi separare, se non ci fosse cioè la discordia, come diceva Anassimandro, fra Cesare e il termosifone, allora saremmo nell’πειρον, dove c’è la concordia, dove non si delimita, non si determina, non si definisce nulla. Essi forniscono il terreno per l’ulteriore messa in evidenza dell’“essere nel mondo”… Tenete conto che a lui interessa sapere come gli umani sono nel mondo. Sembrano questioni astratte, filosofiche, ma in realtà il suo intendimento è molto pragmatico. Si sta chiedendo come ciascuno sta nel mondo, in che modo. …con un ulteriore sviluppo per la possibilità dello έρμηνεύειν (intendere). L’“ascoltare”, άκούειν, cil che corrisponde al parlare, è il modo fondamentale del “percepire”, l’autentica possibilità dell’αἴσθησις. La percezione percepisce ascoltando, ascoltando un dire. Nell’ascoltare sono in comunicazione con altri uomini, nella misura in cui essere-uomo significa parlare. Essere uomo significa questo. Per questo diciamo da anni che ciascuno non è altro che un parlante, ed è questo che lo definisce, con tutto ciò che questo comporta. L’esplicita accentuazione dell’άκούειν è un fatto singolare, dato che solitamente per i greci la possibilità fondamentale in quanto esistenza sta nel θεωρεῑν, nello όρᾶν (vista). A pag. 79. Aristotele mira solo a dire ciò che è ἒνδοξον, ciò che è implicito nell’essere naturale dell’esserci stesso, ciò che è ovvio. Che cos’è che è implicito in ciascuno, che non può non esserci? Questo è ciò che cerca Aristotele. Spesso però questo è proprio il più difficile a dirsi. /…/ Dobbiamo intenderci ora riguardo al λέγειν. Non possediamo ancora chiarezza riguardo a quel “parlare” che costituisce l’autentico essere dell’uomo. Certo, l’uomo è parlante, è ovvio, ma questo cosa comporta? Perché lo definisce in quanto tale? Che cos’è questo parlare? E come mai l’uomo è definito dal suo dire? Intendiamo considerare nel dettaglio il libro I, capitolo 2, della Politica. La definizione dell’uomo in quanto ζῶον λογον ἔχων compare qui con una finalità determinata, assieme alla dimostrazione che la πόλιςGeneralmente πόλις si traduce con città, ma qui possiamo intenderlo come κοινωνία, come comunanza di persone che lavorano per uno scopo comune. …che la πόλις è una possibilità ontologica della vita umana… Possibilità che riguarda l’essere di ciascuno: ciascuno è anche questo. …possibilità che è φύσει. Il termine φύσις non va inteso in questo caso nel senso moderno di quella “natura” contrapposta alla “cultura”, con cui poi si polemizza con Aristotele. Si tratta di una prospettiva superficiale. Φύσει ὅν è un ente che è ciò che è a partire da se stesso, in base alle sue proprie possibilità. Questo è ciò che intende con φύσις: un qualche cosa che è quello che è in base alle proprie possibilità. Potremmo dire che la cosa che meglio risponde alla φύσις è il linguaggio, che ha da sé le proprie possibilità, non ha bisogno di altro al di fuori di lui. In fondo φύσις significa questo: qualcosa che non ha bisogno di altro per essere. Ricordate il famoso esempio, che fa Aristotele, quando distingue la φύσις dalla τέχνη: φύσις è ciò che sorge da sé, come l’albero, che non ha bisogno di me per crescere; invece, il tavolo ha bisogno di qualcuno che lo costruisca, i tavoli non crescono sugli alberi, ci vuole una τέχνη, un’abilità, un sapere fare. È l’essere dell’uomo stesso che implica la possibilità fondamentale dell’”essere nella πόλις”. Sta dicendo fa proprio parte integrante di ciascuno il volere essere nella πόλις, nella comunità. Nell’“essere nella πόλις” Aristotele vede la vita autentica dell’uomo, e per dimostrarlo egli rinvia al fatto che l’essere dell’uomo è λόγον ἔχειν (provvisto di linguaggio). Questa definizione racchiude implicitamente in sé un modo fondamentale e del tutto peculiare dell’essere dell’uomo, caratterizzato in quanto “essere l’uno con l’altro”, κοινωνία. Questo ente, che parla con il mondo, è tale da essere nell’”essere con altri”. È chiaro che questo ente, che parla con il mondo, parla con altri enti: le altre persone sono altri enti. C’è poi una citazione. “Tra tutti i viventi solo l’uomo ha il suo esserci nel modo del “parlare di…”. Ora, è ben vero che l’espressione sonora tramite la voce (φωνή) è un segnale (σημεῑον) dello ήδύ (piacere) e del λυπηρόν (dispiacere), del piacevole e del doloroso, di ciò che solleva e incupisce l’esserci, ed è per questo che essa (la φωνή), in quanto modo della vita, è presente anche in altri esseri viventi (anche l’uomo possiede questa espressione sonora, però essa non è l’ἳδιον, il “carattere peculiare” che costituisce l’essere dell’uomo). La possibilità di essere degli animali è giunta da sé fino a questo modo di essere, ad avere cioè percezione di ciò che costituisce il benessere e il malessere, a essere orientati su di esso e a segnalarselo a vicenda. A pag. 81. Vedete dunque che in questa definizione, λόγον ἔχων, emerge un carattere fondamentale dell’esserci dell’uomo, l’essere l’uno con l’altro. Sta dicendo che il λόγος è sempre un parlare con qualcuno, non solo un λέγειν τί, cioè un dire qualcosa, ma un dire qualcosa rispetto a qualche cos’altro o rivolto a qualcun altro. Poco prima aveva detto della differenza tra gli uomini e gli animali. …l’unica qualità specifica dell’uomo, il fatto cioè di essere l’unico ad avere percezione del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto, e di questo genere di cose. Questo è ciò che in buona parte distingue l’uomo dagli animali: negli animali non c’è il giusto o l’ingiusto, non può esistere. Ovviamente non si tratta di un essere l’uno con l’altro nel senso dell’essere posti l’uno accanto all’altro, bensì nel senso dell’essere-parlanti l’uno con l’altro nel modo della comunicazione, della confutazione e della discussione. Questo è il modo in cui gli umani parlano: discutono, confutano, ma sempre con qualcuno. /…/ Tanto nella φωνή quanto nel λόγος si mostra una determinatezza dell’”essere nel mondo”, un modo determinato dell’incontro tra la vita e il mondo, nel primo caso nel carattere dello ήδύ e del λυπηρόν, nel secondo nel carattere del “giovevole” (συμφέρον) e del “nocivo” (βλαβερόν). Questa parola συμφέρον dobbiamo ricordarcela perché apparirà più avanti in modo interessante, perché il giovevole (συμφέρον) è l’utilizzabile. Si tratta di determinazioni fondamentali: significano infatti che nel suo esserci naturale il mondo non è un dato di fatto di cui prendo conoscenza, non è una realtà fisica o empirica, ma “ci” è per lo più nel modo del giovevole e del nocivo, di ciò che solleva o incupisce l’esserci. C’è nel modo del συμφέρον, dell’utilizzabile. Se è utilizzabile gioisco, se non è utilizzabile mi incupisco. E questi caratteri dell’accesso si danno in primo luogo nell’”espressione sonora”, poi nel “parlare”, nella φωνή e nel λόγος. Assistiamo per una volta al modo in cui l’espressione sonora e il parlare si appropriano del mondo che incontrano nel suo “carattere d’esserci” prossimo e originario,… Ci sta dicendo che ci si appropria del mondo per comunicarlo ad altri. A che scopo? Per dire ad altri come stanno le cose. …in maniera tale che questi enti sono l’uno con l’altro. Il carattere d’esserci del mondo implica per l’appunto l’essere-riferito del suo “Ci” a molti, che sono l’uno con l’altro. Questo modo essente-ci anzitutto per molti, che vivono l’uno con l’altro, è da noi chiamato mondo circostante, cioè il mondo in cui mi do da fare innanzitutto e per lo più. È il mondo in cui ciascuno vive. È il mondo in cui ciascuno vive dicendo all’altro come stanno le cose. Osserviamo come queste due possibilità in cui il mondo ci si fa incontro nel suo esserci più prossimo siano, in quanto tali, i modi in cui i viventi sono l’uno con l’altro,… Nel dirsi continuamente, reciprocamente come stanno le cose. …in cui cioè si costituisce la κοινωνία. La κοινωνία è questo: una comunità di persone in cui ciascuno deve dire all’altro come stanno le cose. Il nostro prossimo compito sarà dunque quello di renderci conto che, in effetti, con le determinazioni dello ήδύ e del λυπηρόν si intendono momenti di incontro con il mondo, indirizzati all’”essere nel mondo”… Sono questi i modi attraverso i quali noi percepiamo il mondo: piacere e dispiacere, mi piace e non mi piace, mi è utile e non mi è utile. Se mi è utile mi piace, se non mi è utile non mi piace. Nel carattere dello ήδύ e del λυπηρόν il mondo è non-oggettuale, gli animali non hanno davanti il mondo in quanto insieme di oggetti. L’incontro con il mondo avviene qui nel modo di ciò che solleva e incupisce, si incontra il mondo in questo carattere in maniera tale che i viventi, parlando, immettono tale carattere direttamente nell’ente che “ci” è. L’ente non è mai da solo, non è mai puro, è sempre o gradevole o sgradevole, cioè, o utile o non utile. Non lo dirà in modo esplicito, ma è questo che fa esistere gli enti: una cosa c’è se è utile, se non è utile non c’è. Questo contesto emerge in tutta la sua evidenza se consideriamo con attenzione una definizione fornitaci da Aristotele nel libro I, capitolo 11, della Retorica, ovvero la definizione di ήδονή (piacere), concepita come un modo determinato dell’”essere nel mondo”, quello del “sentirsi bene”. Come ciascuno vuole stare nel mondo? Vuole starci bene. Certo, ma che cosa significa starci bene? C’è una citazione di Aristotele. “E’ dunque per noi assodato che il sentirsi bene in una situazione è uno specifico movimento dell’essere del vivente nel suo mondo, per la precisione κατάστασις άθρόακατάστασις è l’essere posizionato in un certo modo. La “catastasi” era anche una delle parti della tragedia, quella che precede la “catastrofe”; era il momento ritardante, che appunto ritarda la catastrofe per dare tempo allo spettatore di essere ansioso di vedere come va a finire. …“trasporsi completamente tutto d’un colpo”, nella possibilità effettivamente disponibile dell’esserci in questione, in modo tale che, nel far ciò, lo si percepisca”. Questo è il modo di sentirsi bene. Questa κατάστασις altro non significa che il sentirsi bene: essere sollevati tutto d’un colpo, una specifica leggerezza dell’“essere nel mondo”, che è implicita nella gioia. Quando si è così sollevati? In un’unica situazione: quando le cose vanno come voglio io. Λύπη è il contrario”. Data questa definizione del carattere fondamentale della ήδονή in quanto tale, potete comprendere quanto segue: “Se quindi ήδονή è qualcosa del genere (un movimento, un mutamento repentino dell’essere della vita), allora è manifestamente lo ήδύ “ciò che solleva” (al contrario del λυπηρόν “ciò che opprime”) il ποιητικόν ciò che può fare e produrre tutto questo ovvero il suddetto “sentirsi-situato”, la situazione, il modo del sentirsi-situato”. Cosa vuole dire sentirsi situato? Sentirsi a proprio agio. Quando ci si sente a proprio agio? Quando le cose vanno come voglio io. Se qualcuno opera in modo tale che le cose vadano non come voglio io, cesso di essere ben situato, sono mal situato, sono, come si suole dire, a disagio, non c’è più l’agio, c’è il dis- davanti che lo nega, disagio. Dobbiamo chiederci in che senso la ήδονή – che si riferisce a uno ήδύ che si fa incontro e lo indica ad altri – contribuisca propriamente all’”essere nel mondo” in quanto essere l’uno con l’altro. Le nostre considerazioni al riguardo troveranno poi il loro compimento in riferimento al λόγος. Fino a che punto, si sta chiedendo, il mio essere nel mondo dipende dal modo in cui mi sento situato? Se sono ben situato, se sono a mio agio, il mondo ha una certa forma; se mi sento a disagio, il mondo ha un’altra forma. Questo lo diceva nella Retorica. Stiamo cercando il contesto peculiare della concettualità, ma, nel farlo, siamo ricondotti alla definizione dell’essere dell’uomo – un essere che viene caratterizzato come vita che parla. Perché è questa la sua maledizione, e anche il fatto di poterlo dire: il fatto di essere una vita che parla. Le altre sono vite che non parlano, ma questo possiamo dirlo solo noi che parliamo, per loro tutto questo non esiste. Dobbiamo quindi esaminare il parlare, per vedere quali determinazioni ontologiche dell’uomo siano contenute nel λόγος. Cioè: fino a che punto il λόγος fa dell’uomo un uomo. Aristotele ricorre alla determinazione ontologica dell’uomo… Determinazione ontologica dell’uomo significa ciò che necessariamente appartiene all’uomo, cioè l’esserci dell’uomo. …in quanto ζῶον λόγον ἔχων: egli vuole mostrare che la πόλις, cioè un essere-assieme di tipo caratteristico, non è attribuita all’uomo dall’esterno, poiché, all’opposto, essa è la possibilità ontologica – φύσει –… Prima aveva parlato di φύσει, di qualche cosa che necessariamente appartiene all’uomo: la necessità di essere assieme agli altri. E abbiamo visto anche per quale motivo: per potere dominare gli enti, cioè, gli altri, che sono per l’appunto enti. …implicitamente racchiusa e inscritta nel suo proprio essere; la πόλις scaturisce da un determinato essere l’uno con l’altro, che, a sua volta, si fonda in un “avere in comune” qualcosa, e per la precisione, in senso specifico, in una κοινωνία del συμφέρον e dell’άγαθόν. Gli umani che cos’hanno in comune? Il συμφέρον, l’utilizzabile. Questa idea che ogni cosa deve essere un utilizzabile, che ogni cosa sia un utilizzabile, ed è quindi da utilizzare in vista dell’άγαθόν, della soddisfazione. Nell’avere in comune il mondo, in queste determinazioni, si fonda la possibilità determinata e limitata di un essere l’uno con l’altro eccellente, che è espresso dalla πόλις. Ed è appunto la κοινωνία άγαθοῦ (comunanza del bene) che Aristotele cerca di rendere comprensibile in base all’essere dell’uomo. Dunque la κοινωνία άγαθοῦ va ricondotta all’essere dell’uomo – un’operazione che Aristotele conduce tornando al fenomeno del λόγος. Sempre lì si va a parare. Quando si incomincia a riflettere sulle questioni, come hanno fatto gli antichi e pochi altri, a un certo punto cosa interviene, che cosa si trovano di fronte, cosa devono pensare, cosa devono affrontare? Il λόγος; è sempre questo. Emerge così che la κοινωνία, che costituisce la “casa” (οίκία), è possibile solo sul fondamento del λέγειν, ovvero in base al dato di fatto fondamentale che l’essere dell’uomo è parlare con il mondo, il che significa: esprimersi, parlare con altri. Parlare con il mondo è parlare con altri. Parlare non è primariamente e anzitutto un processo dato, cui si aggiungono in seguito altri uomini, di modo che soltanto allora esso diventerebbe un parlare con altri parlanti, poiché, al contrario, il parlare è in se stesso in quanto tale un esprimersi, un parlare l’uno con l’altro con altri parlanti, ed è quindi il fondamento, conforme all’essere, della κοινωνία. La κοινωνία è parlare l’uno con l’altro, anche nel soliloquio parlo sempre con qualcuno, che sono sempre io. A pag. 85. Il mondo esiste per questo “essere in esso”, non già di tanto in tanto e occasionalmente, poiché esso, al contrario, “ci” è costantemente. Il mondo in cui viviamo c’è sempre, non possiamo esimerci dal mondo, perché il mondo sono io, io sono questo mondo, se cancellassi il mondo cancellerei simultaneamente anche me. La domanda è solo come questo esserci del mondo venga determinato in senso primario. In che modo gli umani sono nel mondo? Ci sono nel modo della loro soddisfazione, del loro piacere, di ciò che piace e di ciò che non piace, di ciò che è utile e di ciò che non è utile. Il mondo “ci” è nella vita in modo tale che esso sempre, in qualche maniera, riguarda la vita, l’“essere nel mondo”. Il mondo in cui sono situato mi riguarda. Caratterizziamo questo riguardare, ovvero il fatto che la vita viene riguardata dal mondo in cui è, come un modo determinato del farsi incontro del mondo nella vita. Il mondo mi riguarda perché questi enti, di cui il mondo è fatto, sono quelli con cui parlo continuamente, sono quelli che io “devo” dominare. Il mondo, in quanto mondo riguardante un vivente, viene incontrato nella direzione dell’“essere in esso”… Ciascuno lo incontra in quanto è già nel mondo. Anche un bambino che nasce è già nel mondo, è già nel linguaggio. …si fa incontro, cioè concerne l’“essere in esso” del vivente. Se diciamo che il carattere del farsi incontro del mondo è il riguardare, dobbiamo però sottolineare anche che, per lo più, mi si fanno incontro molte cose che non mi riguardano per nulla, ovvero che proprio nella vita quotidiana il mondo esiste in modo tale che esso, per me, per il mio essere in e con esso, è senza importanza, non mi importa: l’essere senza importanza in quanto carattere dell’esserci del mondo circostante. È uno dei modi: ci sono delle cose a cui ciascuno non importa assolutamente niente. Quando dico: “Questo non mi riguarda”, ciò non significa che “questo” non “ci” sia, poiché, al contrario, proprio allora concedo al mondo il fatto di esserci. C’è in quanto non mi interessa. In ciò consiste il carattere specifico della quotidianità. Se quindi l’essere senza importanza è un carattere della quotidianità della vita che determina il mondo nel suo esserci, e se l’essere senza importanza, come tale, diviene comprensibile come qualcosa che non mi riguarda, allora si evidenzia per l’appunto il fatto che l’esserci interpreta il mondo in quanto qualcosa che lo riguarda. L’esserci dell’uomo interpreta il mondo in quanto qualcosa che lo riguarda. Che cosa lo riguarda? Ciò che può essere utilizzabile. A pag. 86. L’essere-aperto dell’essere del mondo ha in Aristotele la sua autentica possibilità fondamentale nel λόγος, poiché nel λόγος colui che “vive in un mondo” si dedica al mondo, lo ha lì davanti, e in questo averlo lì davanti in senso proprio è e si muove. Ciascuno è e si muove nel λόγος, nel dire, nel linguaggio, non ha un altro modo per esistere. A pag. 87. Nella Retorica, libro I, capitolo 11, Aristotele fornisce una definizione di ἡδονή, che è nostro compito comprendere in modo più preciso. “Ciò che può dare forma, in quanto gradevole, a ciò che si fa incontro nel mondo”… Cos’è che è piacevole? Ciò che può dare forma, in quanto gradevole, a ciò che si fa incontro nel mondo. È la gradevolezza di ciò che mi si fa incontro che determina il modo del mondo in cui io sono. Lo diceva prima: non esiste il mondo come entità fisica, il mondo esiste in quanto io sono situato in un certo modo, ed è questo il mondo che io incontro. …non necessita di essere direttamente presente, può anche solo annunciarsi, così come il λυπηρόν può solo minacciare. Questo carattere del “può” specifica ulteriormente l’esserci del mondo – un carattere su cui ora non posso soffermarmi di più. Lo ήδύ, ciò che “solleva”, incontra nella direzione della διάθεσις del “sentirsi-situati”, in modo tale, quindi, da dare forma a una determinata situatività: nella direzione della situatività, che, nella misura in cui “ci” è, è tale da costituire l’ente nella sua possibilità ontologica più propria, presso di sé, presso ciò che è proprio dell’animale conformemente al suo essere. L’esserci è sollevato, leggero, è autenticamente se stesso. Sembra che non dica nulla e invece sta dicendo una cosa importante. Sentirsi situati: questo dà una forma a una determinata situatività, a un determinato sentirsi situato nel mondo, tale da costituire l’ente nella sua possibilità ontologica più propria. È la mia situatività, il modo in cui mi sento situato nel mondo, che, per usare le parole precise, costituisce l’ente nella sua possibilità ontologica più propria. La possibilità più propria dell’ente di essere qualche cosa è data dal modo in cui io mi sento. La possibilità ontologica, la possibilità di essere più propria, sta nella situazione in cui io mi trovo. Ora, se noi accostiamo questo, la situatività, al συμφέρον, di cui parlavamo prima, all’utilizzabile, allora la cosa assume un altro aspetto, perché allora la possibilità ontologica più propria di qualcosa consiste nell’essere utilizzabile: è questo che gli dà la consistenza ontologica, che lo fa esistere in quanto esistente. A tale proposito per comprendere il contesto specifico, bisogna prestare attenzione a quanto segue: se lo ήδύ incontra e dà forma a una situatività, allora lo ήδύ incontra un animale che è già nel modo del trovarsi-situato nel mondo. Una determinata situatività è già data in anticipo, di modo che la formazione di un determinato sentirsi-situato da parte dello ήδύ significa che un trovarsi, che viene riguardato dallo ήδύ, si traspone situativamente in un trovarsi nuovo, determinato dallo ήδύκατάστασις: 1. Il “trasporsi” in un sentirsi-situato,… Il piacevole è questo: un trovarsi, un sentirsi ben situato. Mi ritengo autorizzato a fornire questa doppia traduzione in base un contesto fondamentale della vita: tutti i modi della vita sono caratterizzati dal fatto che il modo dell’essere, qui, è un sentirsi-situato nel modo del “portare in una situatività ed essere in essa”. Questa è un’altra questione complessa. Tutti i modi della vita sono caratterizzati dal modo in cui io sono, in cui io mi sento situato. Dice tutti i modi della vita sono caratterizzati dal fatto che il modo dell’essere, qui, è un sentirsi-situato nel modo del “portare in una situatività ed essere in essa”: nel trovarsi, quindi, situati in un certo modo. Qualche cosa accade ed ecco che vengo trasposto in una situatività favorevole, giovevole.