INDIETRO

 

 

25 gennaio 2017

 

Su Internet potere trovare due interventi di Carlo Sini. Uno si intitola Logos Technè, l’altro Superstizioni. Questi due interventi ve li segnalo perché nel primo sembra che in alcuni punti citi testualmente dal nostro sito, proprio come un copia-incolla. Ora, sicuramente Sini non ha mai visto il nostro sito, però ci è arrivato questa volta dopo di noi, è curioso come dica esattamente le stesse cose. Nell’altro, invece, che si chiama Superstizioni, fa un discorso che, fino a un certo punto, anche quello riprende pari pari le cose che diciamo. Lui riprende il discorso di Heidegger sulla tecnica, che noi abbiamo discusso, giungendo a dire che la prima tecnica fondamentale è il linguaggio, anche questa cosa detta noi prima di lui. Poi, però, giunge a fare delle considerazioni piuttosto discutibili. Per esempio, si scaglia contro l’idea che le macchine possano mai pensare come gli umani, adducendo delle ragioni molto deboli per la sua tesi, e cioè il fatto che gli umani sono il prodotto di millenni di storia e tutta questa storia le macchine non ce l’hanno. Lui fa la solita battuta “le macchine sono programmate dagli uomini”, ma ribattiamo: e gli uomini? Non sono anche loro costruiti dagli uomini? Senza tenere conto del fatto che un uomo, sì, certo, quello che dice, quello che afferma, procede da millenni di storia e di cultura, però, in effetti, quello che è presente in lui non sono millenni di storia in quel momento mentre sta parlando, non potrebbe nemmeno tenere a mente tutto quanto, mentre una macchina, sì. Questo suo scagliarsi contro questa ipotesi, che le macchine non possano pensare come gli umani, non tiene conto di come è possibile che a un certo punto un pezzo di ferro incominci a pensare, perché anche l’umano è un pezzo di carne e di ossa, è di materiale diverso, ma questo cambia poco. Le reti neurali sono sostituite da fili elettrici e da interruttori, è la stessa roba. Anche i neuroni sono interruttori. Per Sini è assolutamente impossibile che le macchine possano pensare come gli umani, cose che contraddicono ciò che lui stessa ha detto, e cioè che di fatto non è possibile sapere cosa sia il pensiero. Dice che è impossibile che le macchine pensino come gli umani, e gli umani come pensano? Lo sappiamo esattamente cosa succede? Se non lo sappiamo come possiamo dire che le macchine non possano fare la stessa, se non sappiamo che cosa sia? Abbiamo dovuto risolvere questo problema anni fa, vi ricordate benissimo quando parlavamo delle macchine. Il fatto è che il modo con cui sono stati costruiti i computer riproduce il modo in cui pensano gli umani. Hanno dovuto risolvere tutta una serie di problemi, per i quali hanno contribuito Boole, con la sua algebra, con il calcolo booleano, dove si sono introdotti l’1 e lo 0 che ha semplificato le cose. E poi è stato necessario Turing, poi Von Neumann, e altri ancora. Alla fine si è costruito, e teniamo conto che siamo ai primi balbettii, ciò che le macchine potranno fare nel momento in cui avranno maggiore disponibilità di movimento… Turing dice che il modo con cui si addestra un bambino o una macchina è esattamente lo stesso. Certo, il bambino gattona, incomincia a sbattere contro lo spigolo, poi di qua, poi di là, prende una cosa e la mette in bocca, ecc., la macchina, invece, è lì ferma e immobile, non ha contatti con il mondo, non ha relazione con niente se non con il suo programma, che non può essere implementato da se stessa. Le macchine possono già implementarsi da sé, però occorre che abbiano l’occasione di farlo, se non ce l’hanno… È come un bambino messo in una scatola al buio per tutta la vita, mica impara a parlare, sta lì, come un vegetale.

Siamo sempre con Heidegger, Seminari di Zollikon, a pag 200. Si tratta del sentirsi, che noi intendiamo quando domandiamo all’altro: Come si sente?, vale a dire: Come sta? Questa domanda non si riferisce necessariamente solo allo “stato di salute corporeo-inanimato”. Questa può informarsi della situazione propriamente fattuale dell’altro. Un tale sentirsi, però, deve essere distinto da ciò che, in Sein und Zeit, viene interpretato in quanto situazione-emotiva. Essa è l’essere-in-una-tonalità-affettiva, determinante-tonalmente l’esserci… questa domanda si rivolge all’essere in una tonalità affettiva che determina l’esserci … del suo rapporto, di volta in volta attuale, con il mondo, con il conesserci degli altri uomini e con se stesso. (pagg. 200-201) Qui c’è già in nuce tutta la questione che pone Heidegger rispetto alla psicoanalisi. Ha fatto delle critiche e ne farà delle altre perché, secondo lui, la psicoanalisi non tiene conto dell’essere dell‘uomo nel mondo, cioè di tutte quelle relazione che lo fanno essere quello che è. Non è che Heidegger sapesse moltissimo di psicoanalisi, in effetti, e da quel che ho letto nemmeno Medard Boss aveva una gran conoscenza della psicoanalisi. Secondo Heidegger, a psicoanalisi muove dall’idea che ci siano alcune cose che sono quelle che sono, isolate, isolate dal mondo, sempre nell’accezione heideggeriana. Pensate al concetto di rimozione. La rimozione è quell’elemento che, in seguito di un processo di rimozione, appunto, viene eliminato dalla coscienza e comincia a far parte da quel momento dell’inconscio che, come sapete, per Freud è determinato vuoi da ciò che è rimosso, vuoi dall’Es. ora, ciò che è rimosso è lì, è quello che è, come se non avesse più relazioni nel mondo e da quella posizione, in cui è apparentemente isolato, determina invece il comportamento della persona, indipendentemente dal mondo che circonda quella persona in quel momento. Questa è un po’ la critica che fa Heidegger che vale fino a un certo punto, però, sicuramente la psicoanalisi non tiene in conto di ciò che la persona è in quel momento per via delle relazioni che ha con il mondo in quel momento. Infatti, lui parla della dimenticanza, fa l’esempio di una donna che dimentica la borsa, o il classico esempio del dimenticarsi l’ombrello dallo psicoanalista. Per la psicoanalisi questo ha un significato, uno dei significati è che la persona vuole tornare indietro dal suo psicoanalista, sì, per riprendersi l’ombrello, però, non è tanto l’ombrello in quanto tale ma l’occasione per potere tornare indietro, quindi, mostrare che vuole tornare per parlare, o fare altre cose, cioè, questo gesto ha quel significato. Ma posta la questione in questi termini, adesso sto semplificando, il significato di questo gesto è isolato, cioè è quello, è avulso da un contesto generale, da ciò che la persona è in quel momento rispetto a tutto ciò che la circonda, che lo fa essere quello che è in quel momento. È questa l’“accusa”, l’obiezione che fa Heidegger, e cioè tenere conto, dice lui, che questo tizio dimentica l’ombrello, non perché è l’ombrello in quanto tale o perché c’è un significato, ma perché c’è qualche cosa in lui in quel momento che interviene a costruire una serie di scene, di situazioni, ecc., che lo portano a perdere la memoria dell’ombrello. Infatti, adesso leggiamo un passo a pag. 232. Boss: Secondo la teoria psicoanalitica, però, nel lasciar lì sbadatamente, per esempio, una borsa nell’andar via dalla stanza di un conoscente, si esprime l’inconscio desiderio di potervi ritornare. Com’è da descrivere fenomenologicamente un tale lasciar lì? Heidegger: Nel lasciar lì la borsa non si dà alcuna intenzione inconscia. Questa è la prima battuta di Heidegger. Piuttosto, l’andar via è del tutto diverso da quello che era l’andar via dal coiffeur. Cioè, è una situazione differente, il mondo in quel momento è diverso. Proprio in quanto l’uomo, presso cui le era in visita, non le è indifferente, il suo andar via è tale, che ella, nell’andar via, è ancora e più che mai e sempre di più lì. Heidegger sta incominciando a dire che non è che c’è il desiderio inconscio di tornare, ma non se ne è mai andata. Poiché ella, nell’andar via, è ancora a tal punto presso l’uomo, la borsa non v’è affatto. Non c’è la borsa in tutto questo, lei è ancora lì presso l’uomo. In tale andare via, la borsa resta giacente, in quanto ella, già nell’essere ancora in camera, era a tal punto presso il suo amico, che già allora la borsa non v’era affatto. Qui l’andar-dove non c’è affatto. (pag. 233) La borsa non c’era già da prima, quindi, ha continuato a non esserci, perché lei era presso il suo amico. Ciò non toglie che ci si può chiedere comunque perché ha lasciato lì la borsa, non è che tutti quanti che sono presso un amico lasciano lì qualche cosa. Se la medesima donna fosse andata via da qualcuno d’indifferente, per andare a fare la spesa in città, in tal caso, ella la borsa non la avrebbe dimenticata, bensì se la sarebbe portata via, in quanto la borsa pertiene al fare la spesa, nel quale rapporto la donna sarebbe allora effettualmente dentro. Cioè, sta dicendo che se questa donna è presa nel fare la spesa, e questo è il suo progetto, allora la borsa fa parte di questo progetto e, quindi, la borsa c’è. Se la donna, invece, è presa dall’amico, allora la borsa già non c’è, non le interessa. La cosa dell’intenzione inconscia è una spiegazione rispetto alla interpretazione fenomenologica. Quindi, qui abbiamo fatto un passo che ci sposta dall’interpretazione di un evento a una presa d’atto fenomenologica, direbbe Heidegger, di ciò che è accaduto per questa donna, di ciò che è uscito dal nascondimento ed è diventato manifesto per lei, e cioè l’esser lì con il tizio. Questo sposta dall’intenzione inconscia di lasciare lì la borsa al fatto che la borsa in quel momento per la donna non c’è. Quindi, non l‘ha lasciata lì perché non c‘era, quindi, non poteva lasciare niente. Questo è il discorso che fa Heidegger. Questa spiegazione è una pura ipotesi, in nessun modo promuove la comprensione del fenomeno del lasciar-lì stesso e in quanto tale. In effetti, tutta la psicoanalisi è ipotetica. Nell’ipotesi freudiana, il lasciar lì viene posto in rilievo come un fatto, e questo deve ora venire spiegato. Tale fatto del lasciar lì lo constatiamo dall’esterno. La donna stessa non lascia lì la borsa inconsciamente, in quanto essa non v’è affatto, e si può lasciar lì solo qualcosa che vi è. Boss: Come sta la cosa con il dimenticare qualcosa di penoso, che, secondo la teoria di Freud, è stato rimosso nell’inconscio? E qui si cita la rimozione in modo esplicito. Heidegger: Nel lasciare l’ombrello presso il coiffeur, non mi sono ricordato di prendermelo. Nel dimenticare qualcosa di penoso, non voglio ricordarmene. Qui non è la cosa a sfuggirmi di mente, bensì sono io che lascio che essa mi sfugga di mente. Questo lasciar sfuggire di mente accade in modo tale, che io mi introduca sempre di più in qualcosa d’altro, affinché quel che di spiacevole esca di mente. La penosità è, invero, già l’indice del fatto che ella è stata e viene assalita dall’evento penoso di gioventù. Lei, però, non si introduce in questa penosità. Pure, sa di questa penosità, altrimenti non potrebbe essere una penosità per lei. Sta dicendo che io so che cosa ho rimosso, altrimenti non l’avrei rimosso. È un eludere se stessi, in quanto sé che è costantemente assalito da ciò che è penoso. (pagg. 233-234) Quindi, che cosa fa, secondo Heidegger, la persona? Diciamo che elude una questione che conosce quasi eludendo sé in questa operazione. In questo eludere se stessa, ella è data a sé non tematicamente, e quanto più aziona questo eludere, tanto meno ella sa l’eludere, bensì è assorbita dall’eludere, irrifflessivamente. Questa è la spiegazione di Heidegger, di come lui intende la rimozione di Freud, e che adesso cerco di illustrarvi un po’ meglio. Dice In questo eludere se stessa, una persona elude una situazione penosa che conosce… In questo eludere se stessa ella è data a sé non tematicamente, come dire che questa donna si dà a sé ma non tematicamente. Per Heidegger non tematicamente significa non mettere qualcosa a tema, non porlo come una questione da interrogare; problematizzare è porre qualcosa come un problema da interrogare, tematizzare è accorgersi che c’è qualche cosa da prendere in considerazione, con cui confrontarsi. Quindi, è data a sé non tematicamente, non prende seriamente questa questione, non la affronta. … e quanto più aziona questo eludere, e tanto più si dà da fare per eludere questa cosa tanto meno ella sa l’eludere, cioè, non si rende più conto che sta eludendo, ha perso di vista, presa dall’eludere questa cosa, l’eludere stesso, non pensa più di eludere qualche cosa, bensì, dice, è assorbita dall’eludere, irrifflessivamente, come se diventasse questo eludere, cioè, non si accorge più che sta eludendo qualche cosa. Questa è la “spiegazione” di Heidegger della rimozione: la persona non si accorge più che sta eludendo qualche cosa. Dicendo che volendo dimenticare una cosa si dimentica di dimenticare. Heidegger fa tutto questo discorso perché considera che la teoria di Freud della rimozione è ipotetica, possibile che sia così ma è anche possibile che non sia affatto così. Per lui non è così, in effetti. Questa teoria della rimozione di Freud, per cui qualche cosa di penoso viene cancellato e, una volta cancellato, agisce sulla persona che, di fatto, non ne saprebbe niente, ma se non ne sa niente come fa ad agire questa cosa? Invece, per Heidegger questa cosa è sempre presente, non può cancellare qualche cosa che non sa, ovviamente. Può, però, eludere questo pensiero al punto tale di dimenticarsi di averlo eluso o che lo sta eludendo. questa è la posizione di Heidegger nei confronti di ciò che Freud chiama rimozione.

Intervento: Heidegger dice che nel dimenticare qualche cosa di penoso io non voglio ricordarmene. Qui c’è un accento posto sulla questione della responsabilità: sono io che non voglio ricordare quella cosa. La rimozione non è un evento che capita malauguratamente, è qualcosa che “voglio” che accada, cono io che ho deciso che accada, però, immediatamente dopo, perché questa cosa possa funzionare, è come se io non dovessi più rendermi conto di averlo voluto. È questo che in un certo senso dimentico, la mia volontà. Quello che dimentico è la volontà di aver voluto dimenticare. Ciò che viene rimosso non è tanto la situazione penosa, l’evento traumatico, quanto la volontà.

Esattamente, è questo che dice Heidegger, lui non conosceva molto bene la psicoanalisi, perché se consideriamo ciò che esattamente diceva Freud rispetto alle situazioni traumatiche post-belliche, allora lì il discorso si fa più complesso. Perché una persona dovrebbe la famosa granata che li è scoppiata vicino? Questo evento di per sé non ha a che fare con questioni morali o altre cose, è semplicemente un evento traumatico che, dice Freud, viene rimosso. Qui sarebbe un pochino più difficile per Heidegger fare lo stesso discorso. Come abbiamo detto varie volte, la questione a Freud sfugge perché, di fatto, ciò che la persona vuole ripetere non è l’evento traumatico in sé, del quale potrebbe importargliene molto poco, ma il controllare qualche cosa della quale in quel momento ha perso totalmente il controllo. Qui occorrerebbe vedere bene, la questione non è semplice. Certo, la posizione di Heidegger, come dice giustamente Sandro, è interessante perché pone la questione della responsabilità, cioè io ho voluto, come se dicesse effettivamente “io ho voluto rimuovere”, mentre per Freud questa volontà non c’è, è semplicemente un effetto del funzionamento della psiche, senza aggiungere altro, funziona così, perché non si sa, per una sorta di economia della psiche, per evitare la ripetizione di qualche cosa di penoso; cosa che poi lui stesso mette in discussione in Al di là del principio di piacere, cioè, non c’è soltanto il piacere che dirige l’uomo ma c’è qualche cos’altro, che è la volontà di potenza, che a lui è sfuggita totalmente. Per Freud non c’è la volontà, è un effetto dell’economia psichica, che vuole mantenere un certo equilibrio, una certa uniformità; quindi, tutto ciò che va al di là deve essere ricondotto a una sorta di equilibrio.

Intervento: la volontà di potenza…

La volontà di potenza può pensarla come la volontà di controllare qualche cosa che sfugge al controllo. Quindi, l’esempio che fa Freud, cioè la granata che esplode, in quel momento sicuramente ho perso il controllo di tutto, non ero più padrone di niente, quindi il ripetere questa cosa mi consente di economizzarla, cioè, di gestirla al meglio, volta dopo volta, in modo da farla cessare di essere un evento traumatico. Più ci ripenso e meglio la conosco e meno diventa traumatica, le cose che conosco sono sempre meno traumatiche di quelle che conosco. Aggiungo degli elementi: ah, ecco, è successo questo e poi quest’altro, quindi, avrei dovuto fare così ma non l’ho fatto per cui la prossima volta magari… L’evento perde della sua drammaticità, poi chiaramente intervengono altre cose, non è soltanto questo.

Intervento: Sono casi differenti, il dimenticare l’ombrello e l’evento traumatico di cui abbiamo parlato adesso. In questo ultimo caso non so nemmeno se si possa parlare di rimozione.

Freud lo fa, ascrive a questi processi il processo di rimozione; infatti, è un ripensamento delle cose che dice Freud, e Freud dice questo, che questo evento viene rimosso ed è ciò che ha innescato tutto ciò che poi andrà a considerare nel saggio che ho appena citato. Perché lui lo cita? Perché va contro la sua prima posizione, che diceva che in ambito psichico vige il principio di piacere, e cioè che la persona è alla ricerca di tutto ciò che gli fa piacere, è questo che vuole raggiungere ed è questo che vuole ripetere. Poi, avendo a che fare con soldati che tornavano dal fronte con queste nevrosi post-traumatiche, questo gli scombina tutto. Ripete qualcosa che non gli ha fatto piacere, perché lo ripete, attraverso la rimozione? Tra l’altro, ci sarebbe da fare dei distinguo, ci sono molti soldati che hanno vissuto scene molto traumatiche e non è successo assolutamente niente, come mai? Ci sono altri elementi che intervengono e che concorrono. Come direbbe Heidegger, non è possibile isolare l’elemento da tutto il resto, neanche quello traumatico, perché quell’elemento è traumatico in quanto inserito all’interno del mondo di quella persona, per questo è traumatico.

Intervento: Freud però considerava il contesto…

Il contesto, certo, era la guerra, ma per lui questo episodio traumatico comportava un’obiezione alla sua teoria del principio di piacere. È per questo che l’ha considerata altrimenti non l’avrebbe mai presa in considerazione. Stiamo riconsiderando la posizione di Freud tenendo conto che anche un evento traumatico, ed è per questo che per alcune persone è traumatico e per altre no, certo, lo è sull’istante, però, non succede nulla dopo, un brutto ricordo come tanti. Per esempio, mio padre ha fatto la guerra, si è trovato in situazioni che potevano essere molto traumatiche, però, non ha subito questo genere di traumi. Poi, che la cosa rimanga, perché qualche cosa in effetti rimane e determini altre cose, questo sì perché fa parte del mondo di quella persona, il suo progetto non può non tenere conto di tutto ciò che la persona è. Se noi teniamo sempre conto di ciò che dice Heidegger dell’esserci nel mondo, adesso, qui con tutto ciò che con questo comporta, tutta la mia storia, allora tutto ciò che accade accade all’interno di questo mondo. Per Freud non è così, per Freud l’evento è isolato e isolabile e, in quanto tale, l’evento determina questo altro evento. Non tiene conto del fatto che questo evento è stato traumatico, non ne fa menzione nel suo testo del fatto che questo evento è stato traumatico per questa persona, perché per questa persona è stato traumatico e per quella che gli era vicina no, non ha creato nessun trauma? Quindi, c’è qualche altra cosa, non basta questo. Lui ha isolato questo elemento, perché a lui interessava per una sua teoria, gli interessava per il suo progetto. Questa questione che affronta Freud del trauma di guerra è all’interno di un suo progetto e questo suo progetto non tiene conto di ciò che Heidegger sta dicendo, e cioè che è nell’esserci che tutto ciò può accadere, sennò non accade niente, neanche l’evento traumatico.

Intervento: sembra problematico a questo punto il parlare di nevrosi di guerra.

Sì, si fa perché questa cosa ha avuto avvio in quella occasione ma probabilmente avrebbe potuto essere anche un’altra, forse, ma qui siamo nel campo delle ipotesi. Ma le ipotesi possono essere d’aiuto se fanno notare che andare dritti in una certa direzione può essere problematico se questa direzione non tiene conto di molte altre. Se questo evento traumatico non fosse stato una bomba esplosa ma un camion che ha tamponato la sua macchina, magari sarebbe stato sufficiente per mandarlo fuori di matto.

Intervento: ci sono infinite situazioni che possono essere traumatiche.

Diciamo che quelle di guerra sono all’ordine del giorno, sono le più frequenti, ma questo non significa niente. Poi Heidegger aggiunge un altro elemento. Dice, infatti La rappresentazione teoretico-scientifica che nel dimenticare e rimuovere debba darsi un ricettacolo fisico o psichico… l’inconscio …al cui interno il dimenticare possa venire gettato, ha senso solo a partire da un serbare. La rappresentazione di un ricettacolo può essere motivata soltanto a partire da un potere serbare. In effetti, dove si conserva la rimozione? Nell’inconscio, è li che permane. Non si può, all’inverso, derivare il serbare da un ricettacolo. Un “engramma” non è mi un serbare qualcosa in quanto qualcosa. Un engramma è una trasformazione fisiologica, ma un serbare è un rapporto con qualcosa, vi appartiene una comprensione dell’essere. L’elemento corporeo dell‘uomo non può mai venire considerato come qualcosa di meramente semplicemente-presente, se lo si vuole considerare conformemente alla cosa… L’elemento del corpo, una parte del corpo, non può mai essere considerato come un oggetto, dice Heidegger … se l’elemento corporeo dell’uomo lo pongo in quanto qualcosa di semplicemente-presente, l’ho già fin da principio distrutto in quanto corpo. (pag. 234) In quanto corpo. I tedeschi distinguono tra Körper, il corpo inanimato, fisico, quello della medicina e Leib, che è il corpo vivente. Qui lo intenderei come distrutto in quanto corpo vivente, cioè, lo considero come un oggetto, al pari di qualunque altra cosa. Ritorniamo a pag. 201. La situazione-emotiva fonda il sentirsi bene e sentirsi male di volta in volta attuale, da parte sua, però, essa è, a sua volta, fondata nell’essere-esposto dell‘uomo all’essente nella sua totalità. Cioè, nell’essere in relazione con il resto del mondo, con tutto ciò che lo circonda. Con ciò è già detto che a questo essere-esposto (esser-gettato) appartiene la comprensione dell’ente in quanto ente; … cioè non posso comprendere l’ente se non nell’essere gettato di volta in volta, nell’essere nel mio progetto … allo stesso modo, però, non si dà nemmeno un comprendere che non sia già un comprendere gettato. Sta dicendo che per comprendere qualche cosa occorre che questo ente, che voglio comprendere, sia all’interno del progetto, ma non è all’interno del progetto se io non mi trovo già gettato in questa cosa. È questo che dice quando, in modo non antropomorfico, dice “le cose mi parlano”, che io sono già gettato verso queste cose e queste cose appaiono perché io sono gettato verso di loro. C’è questo doppio movimento. Esser-gettato e comprendere si coappartengono reciprocamente in una coappartenenza, la cui unità è determinata attraverso il linguaggio. Esser-gettato e comprendere si coappartengono per via del linguaggio. Linguaggio deve venire qui pensato in quanto dire, in cui si mostra l’ente in quanto ente, vale a dire, a partire dal suo riguardare l’essere. Sappiamo che quando Heidegger parla dell’essere parla del Dasein, dell’esserci. Solo sul fondamento della coappartenenza di esser-gettato e comprendere… cioè, io comprendo solo se sono gettato verso qualche cosa, se sono gettato nel progetto, allora comprendo, allora so che cos’è questa cosa, non che cos’è questa cosa in quanto tale ma so che cos’è perché l’enticità di questo ente mi è data dal trovarmi all’interno del progetto, è il progetto che dice che cos’è questa cosa. … attraverso il linguaggio in quanto dire-originario, l’uomo può avere rivolta a parola dall’ente. Che è come dire che in questa coappartenenza di essere gettato e di comprendere che io ho la parola rivolta dall’ente, solo a questo punto l’ente mi dice qualche cosa, perché è qualche cosa ed è qualche cosa perché viene compreso all’interno del progetto, allora mi parla, mi parla nel senso che da quel momento è un ente, è un qualche cosa, e dal momento in cui è qualche cosa io sono in relazione con questo qualche cosa. È in questo senso che occorre intendere il fatto che l’ente mi parla, il fatto che io sono in relazione con l’ente. Con ciò, sebbene solo a grandi tratti, è mostrato l’ambito a cui appartiene qualcosa come lo stress con tutte le sue variazioni. Lo stress possiede il carattere fondamentale della sollecitazione di un avere-rivolta-la-parola. Che cos’è lo stress? Dice che è una sollecitazione, quindi, lo pone in un modo diverso dalla psicologia, che lo pensa, sì, come sollecitazione ma come sollecitazione traumatica, qualcosa che comporta delle conseguenze: una persona stressata è nervosa, infastidita, ha una serie di acciacchi. Questa sollecitazione, che comporta poi lo stress, dice “è un avere rivolta la parola”. Questa sollecitazione viene dall’ente, è lui che mi sollecita, che mi dice delle cose, me le dice perché io sono in relazione con l’ente, quindi, mi sollecita. Quando dicevamo tempo fa che io sono qui in questo momento, di fronte ho Cesare, alla mia sinistra c’è Teresa, Sandro, davanti a me c’è il posacenere, sta dicendo Heidegger che io sono sollecitato da tutte queste cose perché io sono in relazione con tutte queste cose in questo momento, per me sono quelle che sono perché sono in questo momento in questo tipo di relazione. L’essere in questo tipo di relazione, quindi essere sollecitato da Cesare che mi guarda, da Sandro che tossisce, Teresa che scrive appunti, ecc., ecc., questo per Heidegger è lo stress. Quindi, capite, che è un’accezione molto differente da quella della psicologia, quindi Heidegger non la considera affatto una cosa traumatica nell’accezione negativa psicologica, è semplicemente un aver rivolta la parola dalle cose con le quali sono in relazione, che mi sollecitano, quindi. Una tale cosa è possibile solo sul fondamento del linguaggio. Linguaggio non viene qui inteso in quanto facoltà della comunicazione, bensì in quanto manifestatività originaria di ciò che è, custodita dall’uomo in modi diversi. Sta dicendo che queste relazioni, che io ho con tutte le cose che ho elencate, sono fatte di linguaggio. In quanto l’uomo è conessere … conessere intendetelo come l’essere in relazione con il suo mondo … restando essenzialmente in rapporto con gli altri uomini, il linguaggio è, in quanto tale, un colloquio. Qui si potrebbe agganciare il detto di Wittgenstein per cui il linguaggio è pubblico, per lui non esiste il linguaggio privato. Hölderlin dice: “Dacché siamo un colloquio”. Più chiaramente, si deve dire: in quanto siamo un colloquio, all’esser uomo appartiene il conessere. Cioè, in quanto siamo un colloquio, in quanto siamo continuamente in relazione con l’altro, in questo all’esser uomo appartiene l’essere insieme con l’esserci necessariamente, appunto con il suo mondo. Come sopra si è detto, lo stress appartiene alla connessione essenziale di sollecitazione e corrispondenza, … Questo mi sollecita e io corrispondo, con il linguaggio, ovviamente, non ho altri strumenti. … vale a dire, alla dimensione del colloquio in senso ampio, che include anche un “parlare” con le cose. Quante volte uno se la prende con il computer! E gli dice delle cose che non stanno né in cielo né in terra. Il colloquio, a sua volta, costituisce l’ambito fondamentale, entro cui diviene possibile un’interpretazione. L’interpretazione, di cui si parla tanto, ha come condizione il trovarsi all’interno di un ambito e che questo ambito è definito dl colloquio, cioè dall’essere sempre in relazione con altro. In tal modo, il “circolo ermeneutico” non è un circulus vitiosus, bensì, una costituzione essenziale dell’esser uomo; esso caratterizza la finitezza dell’uomo. Il circolo ermeneutico… ogni volta che interpreto qualcosa, leggo un testo, come questo qua. L’ermeneuta cosa dice? Dice che mentre lo leggo lo interpreto ma questa interpretazione che faccio, mano a mano modifica lo stesso testo e me che lo leggo, quindi, c’è un continuo rinvio. Il libro che leggo io lo interpreto, interpretandolo lo modifico, modificando il libro modifico anche me e la mia interpretazione. Questo è il circolo vizioso. L’uomo, nel suo supremo essere in sé, è delimitato proprio dal suo essere-aperto per l’essere. Questa è la finitezza dell’uomo. Detta in termini più spicci, la finitezza dell’uomo significa non potere uscire dal linguaggio. Tutto qui.