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24 novembre 2021

 

Porfirio

Commentario al Parmenide di Platone

 

Questa sera abbiamo alcune cose importanti da dire a partire da Porfirio, che legge il Parmenide di Platone. È interessante perché, leggendo il Parmenide, si avverte l’operazione, che è stata poi fatta nei secoli a venire, di cancellazione del pensiero di Parmenide a vantaggio della religione, che si è potuta costruire eliminando alcuni problemi. Quando sarà il momento, lo vedremo con Plotino. Ma vediamo cosa dice Porfirio. Incominciamo leggendo alcune cose dall’Introduzione di Pierre Hadot. Hadot è stato un filosofo francese, morto una decina di anni fa, particolarmente attento alla filosofia greca e che ha tradotto varie cose, soprattutto della Patristica, tra cui Porfirio, Vittorino, ecc. Ci si potrebbe chiedere se Porfirio, discepolo di Plotino… È stato Porfirio a sistemare tutta l’opera di Plotino e che l’ha trasformata nelle Enneadi che oggi conosciamo. …potesse come il nostro anonimo… Chiama “anonimo torinese” quello che in realtà appare essere Porfirio. “Torinese” perché è stata la biblioteca di Torino a scoprirlo, ecc. identificare l’Uno puramente Uno con l’Essere anteriore all’Ente. Ma risulta giustamente che Proclo e Damascio rimproverarono a Porfirio l’identificazione dell’Uno con questa entità che gli Oracoli caldaici denominano il Padre o l’παρξις (hyparxis)… ϒπαρξις è l’esistenza intesa come qualcosa di superiore. Ora l’παρξις, o l’esistenza, in una tradizione che si può considerare porfiriana e che è attestata da Mario Vittorino e Damascio, viene definita come l’essere puro, senza forma, anteriore ad ogni determinazione, e quindi all’ente. Qui si incomincia a cogliere la questione. Questo Uno, ricordate, nel Parmenide di Platone, nella prima ipotesi era considerato come un ente separato; però, lui giunge giustamente a considerare che se l’Uno fosse un ente separato sarebbe nulla, perché di lui non si potrebbe dire nulla, non si può determinare e, quindi, non c’è. Questa è una delle prime questioni che vengono considerate. E aggiunge: Al di là dell’ente si può concepire un Essere assoluto, come al di là della conoscenza ordinata ad un intellegibile, una conoscenza assoluta, libera dalla necessità di corrispondere ad un oggetto. Si incomincia a considerare – Hadot l’aveva notato – la possibilità dell’ente separato, che poi è Dio, naturalmente. Ma per fare questo occorrono alcune operazioni. A pag. 51. L’Essere puro e assoluto, senza soggetto e senza attributo, è il fondamento trascendente dell’Ente… Quindi, questo Essere puro, che non è in relazione con niente, dice, è il fondamento dell’Ente. … al cui livello avviene la prima composizione tra il soggetto e l’essere. In modo analogo esiste in ogni cosa prima un «fondamento originario che preesiste alla cosa», fondamento che è «essere puro», «che non è né in altro né soggetto di altro», che è solo essere puro, senza addizione. Quando questo essere puro e preesistente viene concretizzato e determinato dalle qualità e dagli accidenti inseparabili, la cosa si costituisce nella sua sostanza, c’è composizione tra il soggetto e l’essere. Questa opposizione ricorda evidentemente l’opposizione tra l’essere ideale della cosa e la cosa stessa. Si incomincia a vedere nel platonismo, in definitiva nella religione, la possibilità di separare l’Uno, cioè Dio, Essere separato, dall’Uno che partecipa delle cose, l’Uno secondario, diciamola così. Quindi, un Uno che è Dio, separato da ogni cosa, e un altro Uno che si aggancia ai vari sensibili. “L’παρξις si distingue dall’οσία L’esistenza si distingue dalla sostanza. …come l’essere preso isolatamente in se stesso si distingue dall’essere considerato in composizione con altre cose… L’παρξις … rappresenta il primo principio di ogni realtà; è per così dire una sorta di fondamento, di strutturazione posta alla base della costruzione nella sua interezza e in ogni sua parte. L’παρξις è la semplicità anteriore ad ogni cosa, a cui si sovrappone ogni composizione. Essa è l’Uno stesso che preesiste al di là di tutte le cose; è causa di ogni ousia, senza essere οσία”. Questo Uno, Dio, viene pensato come qualche cosa come l’esistenza stessa, un’esistenza che però non ha sostanza. Ricordate il problema dell’esistenza e della sostanza in Hegel, nella Fenomenologia dello spirito: non può darsi l’esistenza senza la sostanza, così come non c’è l’essere senza il non-essere, il significante senza il significato. Ciò che sta dicendo qui è come se indicasse nel significante un qualche cosa che può stare da solo, senza il significato. Questa che vi ho appena letto era una citazione da Vittorino. Traducendo Vittorino, abbiamo ricalcato sul termine exsistentia, il termine «esistenza». Di fatto questa traduzione presenta alcune difficoltà: nasconde il problema posto dalla definizione del senso esatto del termine παρξις. Damascio, nel testo che abbiamo citato, gioca sull’etimologia hyp-archein, definendo l’hyparxis come «cominciamento» o «principio» posto «sotto» la costruzione. Il miglior termine equivalente sarebbe allora «preesistenza», che avrebbe il merito di suggerire che l’παρξις è l’essere anteriore alla cosa-che-è. Si sarà certamente notato che Damascio, in questo testo, identifica l’παρξις con l’essere puro e con l’Uno. Questo ci riporta ai concetti incontrati a proposito della distinzione dell’essere e dell’ente. Ma questa identificazione di παρξις e Uno non ci deve ingannare. Nel complesso sistema di Damascio, l’Uno di cui si parla qui non è posto all’origine assoluta delle cose, ma al livello dell’intellegibile ed ha il suo analogo in ogni piano della realtà. Qui interessa intendere come si è costruita questa idea di una esistenza, per usare i termini antichi, senza l’essenza; come un significante senza significato. D’altra parte, qui c’è un problema: se io pongo Dio, l’Uno puro e assoluto, separato da ogni cosa, ciò comporta immediatamente che questo Uno non ha alcuna determinazione e non posso determinarlo perché non rinvia a nulla. Ma il problema è che, se davvero così fosse, io non potrei neppure affermare che questo Uno è separato perché non significherebbe niente, non sarebbe niente. Se dico che è separato da ogni cosa, sto già dicendo che non lo è, perché per poter dire questo Uno non può essere separato, deve avere necessariamente un significato; quindi, questo Uno, cioè Dio, dipende da ciò che è altro da lui e, quindi, Dio non è più l’assoluto ma è relativo. È un problema teologico grandissimo. E adesso come si fa? Se Dio non è più l’ente separato da tutto e da tutti, perché solo così è possibile pensarlo come un qualche cosa di assoluto, sciolto da ogni cosa, ma se fosse così non sarebbe conoscibile, non potrei neanche pori il problema. Se io mi pongo il problema, cioè se lo sto pensando è perché non è così, è perché Dio è relativo a qualche cosa, da cui trae la sua esistenza; vale a dire, c’è una sostanza, un significato, da cui trae la sua esistenza. Come dire che Dio esiste in relazione a ciò che Dio non è. Tutta la teologia che è venuta dopo si è appuntata sulla teologia negativa o apofatica, cioè quella teologia che dice ciò che Dio non è, perché dire ciò che Dio è comporta dei problemi. Il fatto è che allo stesso modo comporta dei problemi anche il dire ciò che Dio non è, perché per potere dire ciò che Dio non è devo sapere che cos’è, non posso negare qualcosa che non esiste, che non conosco. Questa potrebbe essere l’obiezione più forte all’esistenza del Dio così come è pensata comunemente, e cioè come un qualche cosa che è separato dagli enti sensibili, separato da tutto. Non può essere separato da tutto, non può essere separato dal suo significato; se lo separo, come abbiamo visto tante volte, cessa di esistere anche lui. Ma leggiamo direttamente dal testo di Porfirio, l’anonimo torinese. A pag. 59. Infatti Dio è per lo più indicibile ed innominabile, essendo al-di-sopra di tutto2, e pertanto si applica a lui la nozione di Uno non per un difetto della sua natura; giustamente questa nozione elimina in lui ogni molteplicità, ogni composizione, ogni varietà, e dà a pensare che egli è semplice, che non c’è niente prima di lui e che l’Uno è in qualche modo il principio delle altre cose. A pag. 61. …questa ipostasi inconcepibile è assolutamente differente da tutto, è priva di molteplicità, priva di attività, priva di conoscenza, priva di semplicità, priva di tutte le nozioni che vengono dopo di lui poiché egli è ed è conosciuto come superiore a tutte le cose; ovvero la causa di ciò potrebbe essere una certa piccolezza che sfugge alla nostra comprensione, per la nostra imperfezione. Non è Dio inconoscibile ma siamo noi che siamo incapaci di conoscerlo. Qui però c’è un’altra cosa: se io pongo Dio come l’Ente assoluto, sciolto da ogni connessione, irrelato, da una parte lo cancello, ma ho dall’altra un vantaggio, perché se dico che non è dicibile, non posso dirne nulla, quindi, non posso dirne nulla né a favore né contro. Se è indicibile non posso dirne niente, posso solo compiere un atto di fede. Quindi, porlo come indicibile è mettere al riparo questa idea da ogni possibilità di confutazione, quantomeno di discussione. E così non si potrà né cadere nel vuoto né osare attribuire a Lui alcunché, ma resterà solo da comprenderlo senza comprensione e pensarlo senza pensiero; grazie a questo esercizio potrai un giorno, se ti soffermerai sulle cose che attraverso Lui sono costituite, raggiungere l’indicibile prenozione che di Lui possiamo avere, che è rappresentata dal silenzio, senza che essa sappia ciò che tace, senza che abbia conoscenza di ciò che riflette, in una parola, senza che essa si renda conto di ciò che sia; essa, che è solo un’immagine dell’Indicibile, poiché è l’Indicibile in maniera indicibile e non l’Indicibile in quanto conosciuto… Ora, questo sarebbe il Commentario al Parmenide di Platone. Questo lo si vede solo alla fine. Il problema che pone Parmenide, e con lui gli eleati, è che ciascuna cosa è quella che è a condizione di non essere quella che è. Qui, invece, lui stacca le due cose, come poi farà tra l’altro Platone, cioè il bene dal male, l’Uno, il bene, dai molti, che sono il male. Vedete, quindi, l’urgenza, la necessità di tenere ben separato l’Uno dai molti, non deve esserci possibilità di contatto tra l’Uno, Dio assoluto, e i molti, il sensibile. Se ci fosse, allora questo Uno non sarebbe più assoluto ma in qualche modo dipenderebbe dai sensibili, ma questo non può essere, non può essere che Dio dipenda da noi, eventualmente è il contrario. Si è trattato, quindi, di compiere questa operazione di cancellazione del pensiero degli eleati – anche da parte di Platone e poi di Aristotele, tanto più poi con i neoplatonici – tenendo separati il bene dal male, meglio ancora, l’Uno dai molti. Non doveva esserci nessun tipo di contaminazione, nessuno; solo così era possibile mantenere l’idea del Dio. A pag. 67. …poiché Egli è sempre privo di relazioni con ciò che viene dopo di Lui, e sono coloro che da Lui sono stati generati che, divenuti da Lui dissimili, si sforzano di ritornare a Lui; e che credono che le relazioni nei suoi confronti siano reciproche, quando si rapportano a Lui. Dunque, è sempre privo di relazioni, è irrelato. Ma, come abbiamo visto, se è irrelato non posso neppure dire che è irrelato; se fosse irrelato non potrei dirlo, da che cosa è irrelato? Da niente. A pag. 71. Ma sento che mi sfugge la conoscenza a Lui propria, conoscenza che permane nella semplicità e nella mancanza di relazioni con gli oggetti conosciuti o ignorati, cosicché parlo attraverso formule oscure perché sono incapace di esprimere queste cose. È curiosa qui la formulazione: parlo in modo oscuro perché sono incapace. È vero, è incapace rispetto alla potenza e alla profondità del pensiero degli eleati, di Parmenide. E, quindi, attraverso l’oscurità del pensiero, si oscurano dei problemi. Perciò sarebbe meglio rinunciarci… anche lui vuole rinunciare. …piuttosto che dividere l’indivisibile. In ogni caso è necessario sapere che le cose che hanno origine da Lui nulla sono al suo confronto, a causa del carattere incommensurabile della sua ipostasi, con cui non coesistono né le cose che sono state da Lui generate né quelle che sono in Lui. Ne consegue che è impossibile raggiungere la sua conoscenza rimanendo attaccati alle cose che sono a Lui estranee; per riuscirei, è necessario, dopo aver abbandonato ogni cosa e persino se stessi, accostarsi a Lui senza pensare ad alcunché, poiché Lui è separato da tutte le altre cose; ed è separato non come una parte può essere separata dal tutto, mantenendo in esso l’impassibilità e lasciando da un lato una parte. Ed Egli non ha nulla in comune con ciò che è generato, al contrario anzi, ciò che è generato non è nulla in confronto a Lui, giacché Lui è pieno in sé della sua stessa Unità ed è al-disopra di tutto; per cui tutto ciò che è non è nulla in Lui. C’è un’insistenza qui, come avrete notato, sul fatto che deve essere separato dalle cose, come se, verrebbe da pensare, avessero avvertito, se non si tengono ben separati l’Uno e i molti, il pericolo vero e proprio di ritornare nella posizione di Parmenide, per il quale l’Uno “è” i molti. Ma, allora, il bene è il male, allora Dio è nulla, e questo per la teologia non è un grande successo. A pag. 83. Se è così, coloro che nella conoscenza di Dio dicono piuttosto quello che Egli non è, sono migliori di coloro che dicono quello che Egli è, anche se quello che dicono è vero, poiché non sono nella condizione di capire quello che dicono; infatti, se di Lui qualcosa riusciamo a comprendere, magari uno dei cosiddetti suoi predicati caratteristici, anche se attraverso metafore e allegorie, e attraverso esempi improntati alle cose di quaggiù, per ottenere una certa nozione di Lui, costoro allora, ritornando indietro sui loro discorsi, affermano che non è possibile prendere per buono ciò che è detto senza enigmi, ma che bisogna rinunciare a queste formule e alla stessa possibilità di comprendere Dio; si conclude anche l’insegnamento dei predicati che prima si diceva che appartenevano a Lui, conformemente alla tradizione. È chiaramente un invito a non pensare, un invito abbastanza esplicito; come dire: lui non è pensabile, quindi, è inutile tentare di coglierlo con il pensiero. Come accennavo prima, una cosa del genere ha dei grossi vantaggi. Immaginate l’idea di un bene assoluto, l’Uno, e che questo Uno sia separato da qualunque altra cosa e, quindi, non conoscibile. Ora, se non è conoscibile, se non attraverso l’abbandono di ogni conoscenza, ecc., cosa che evoca vagamente la filosofia orientale, posso far dire a questo Uno, a questo Dio, a questo bene, tutto ciò che mi pare, perché non è discutibile, non se ne può discutere perché non è dicibile e, quindi, mi metto al riparo da ogni possibile confutazione, da ogni possibile discussione. Tutto sorge in fondo da un’analogia, come sempre, che è partita, sì, da Parmenide… Ricordate cosa diceva nella prima ipotesi: è giusto dire che Uno non è i molti? E l’altro diceva: sì, l’uno non è i molti. È giusto dire a questo punto che bene non è male, che è il suo contrario? Eh, sì, come l’uno è il contrario di molti. E, quindi, è legittimata la separazione tra il bene e il male, tra l’uno e i molti. In fondo, l’uno e i molti non era una cosa che preoccupasse i neoplatonici, a loro preoccupava l’idea che l’Uno, il Dio, non fosse contaminato dai molti, cioè, non fosse una molteplicità, il molteplice, di cui parlava Aristotele, perché se è molteplice allora non è Uno e se non è Uno è tante cose e queste poi si diramano in tante altre cose e Dio diventa inconoscibile nel modo degli eleati, i quali avrebbero detto che non c’è nessuna possibilità di pensare l’esistenza di un Dio, perché tutto ciò che gli si attribuisce non ha nessun fondamento. Altro è, invece, come volevano i neoplatonici, imporre l’idea di inconoscibilità di Dio come ipostasi e non come il risultato di un pensiero. Se è posta come risultato di un pensiero, allora questo risultato giunge a concludere che di questo Dio non posso dirne nulla perché è nulla, non perché non posso conoscerlo, ma perché è nulla. Vale a dire, dico che è un entità separata, irrelata, che non ha relazione con niente e che, se non ha relazione con niente, è niente, perché è soltanto nella relazione con l’opposto che il primo elemento è quello che è. Una cosa del genere non è pensabile se non si intende il modo in cui il linguaggio funziona e agisce, e cioè che ciascun elemento che interviene nel linguaggio è quello che è in quanto non è ciò che non è. Ma le due cose non sono separate, sono sì distinte ma non separate né separabili, e cioè la A è non (non-A), è questo, e se non è questo non è niente, è nulla. Questa è la questione centrale perché la A possiamo porla come l’Uno e, quindi, secondo il principio di non contraddizione, non (A e non-A), ma questa A è quella che è per via del non-A che non è; quindi, la A è non-A ed è non-A nel momento in cui, senza non-A che nega, la A non esisterebbe, non potrebbe esistere. È per questo che dicevo che se Dio è pensato come irrelato non posso neanche dire che è irrelato. Questa A, se non c’è non-A, non posso neanche dirla, posso dirla in quanto esclude ciò che non è. È questo che gli eleati, Parmenide, Zenone, Melisso, avevano pensato: il problema del fondamento, quindi, della conoscenza. Lo vedremo leggendo il Sofista di Platone. Lì è in gioco proprio la questione della conoscenza e, quindi, di avere qualcosa di fondabile, perché ci si è accorti… lo sapeva già Eraclito, tutto scorre, πάντα ε. È questa la cosa certa, è questo che è immutabile, e cioè occorre un immutabile perché qualche cosa muti, e viceversa. Aveva colto bene Heidegger: Parmenide ed Eraclito sono le due facce della stessa questione. Ciò che gli eleati avevano inteso bene è che la A del principio di non contraddizione esiste in funzione del non-A: se tolgo non-A tolgo la A. Poi, con il principio di non contraddizione si è incominciato a tenere separate le cose, separando quindi il bene dal male, l’Uno dai molti, il positivo dal negativo. Hanno ragioni alcuni a sostenere che già Eraclito e Parmenide avevano posta la questione, poi non si è più aggiunto niente, si è rimasticato, rimaneggiato, rigirato, ma non si è aggiunto niente. La questione è quella ed è la questione del linguaggio, se non si intende questo non si va da nessuna parte, ci si limita a fare tutto quello ha fatto la filosofia dopo di loro, cioè cercare di dare un senso a questo squarcio che gli eleati hanno spalancato e che non è ricomponibile; se si parla non è ricomponibile in nessun modo. I neoplatonici, e dopo la Patristica, hanno compiuto questa operazione cancellando questo semplice fatto, che se Dio è pensato come irrelato allora non esiste. È una negazione dell’esistenza di Dio che è ancora più potente di quella di Severino, che l’aveva presa dalla parte del divenire: se c’è un divenire allora non c’è un Dio. Ma qui la questione è radicale: o Dio è in relazione a qualche cosa, per cui è quello che è in virtù di ciò che non è, di altro che non sia lui, e pertanto non è assoluto ma è relato, oppure semplicemente non è. Così come la A non è senza non-A.

Intervento: Rispetto alla questione del Dio irrelato, stavo pensando che Anselmo d’Aosta se ne era completamente disinteressato…

Non solo lui, tutti. È stata posta come un’ipostasi: è così, Deus vult. Nessuno si è mai interrogato, nessuno ha mai posto la questione in termini radicali: se davvero è relato non posso neanche dire che è relato. La teologia negativa, dire ciò che Dio non è: se posso dire ciò che Dio non è, è perché non è irrelato ma in relazione con una infinità di cose, dalle quali cose dipende la sua stessa esistenza. Qui occorrerebbe un teologo per vedere che cosa ha da obiettare. A pag. 83. Gli Stoici non ammettono che la conoscenza delle cose provenga da un ragionamento: ma Dio, che è al-di-sopra di tutto, non si può comprendere né con la ragione né con la pura intellezione; infatti, dice (Platone), l’anima inutilmente si sforza di conoscere la «quiddità» anziché la «qualità determinata»… Chiaramente, questa cosa che dice Platone si può intendere anche in altri modi, e cioè è il compito della metafisica sapere non quali sono le proprietà di una certa cosa ma che cos’è quella certa cosa, indipendentemente dalle sue qualità. …e cerca di possedere la conoscenza della natura, cioè del suo essere e della sua essenza; tutte le potenze conoscitive infatti ci rivelano solo le qualità, dunque ci dicono ciò che non cerchiamo e non ciò che ansiosamente cerchiamo. Qui ha definito bene la questione del linguaggio, ponendola naturalmente in negativo. Quando io voglio sapere che cos’è una certa cosa, naturalmente incomincio a dire tutto ciò che quella cosa non è; il problema è che non posso fare altrimenti. È soltanto dicendo tutte quelle che la cosa che mi interessa non è che decido che quella cosa che mi interessa è tutte queste cose, ma queste cose non sono quella cosa lì. Questo è il problema, e cioè il linguaggio. Quindi, ha perfettamente ragione: ciò che io cerco disperatamente non lo troverò mai. Perché? Che cosa cerco? Cerco qualche cosa che è pensato fuori dal linguaggio. Come posso pensarlo? Con che cosa? A pag. 89. Ma proprio perché viene da Lui, è Lui stesso un Uno; e proprio perché non coincide con Lui, esso costituisce un Uno-Ente, permanendo il primo solamente Uno; come infatti potrebbe l’Uno diventare Uno, se il Primo non fosse assolutamente puro, e il Secondo non più puro. Come dire che c’è il primo Uno, che è puro e in sé, irrelato, e poi compare un altro Uno, che invece è l’Uno che si attribuisce all’Ente e, quindi, non più puro; è diventato impuro a causa della contaminazione con l’Ente. Plotino ha poi lavorato molto su questo nelle Enneadi. …come infatti potrebbe l’Uno diventare Uno, se il Primo non fosse assolutamente puro, e il Secondo non più puro. Così si spiega anche perché il Secondo Uno è e non è allo stesso tempo il Primo Uno, poiché ciò che è dopo qualcosa e che viene da questa cosa, in qualche modo coincide con essa, da cui e attraverso cui viene, e, allo stesso tempo, è qualcos’altro che, non solo non coincide con ciò da cui proviene, ma anche è conosciuto con predicati opposti. Di nuovo interviene la questione, sempre negata, sempre temuta, sempre mantenuta a distanza. Questo Uno, che si contamina e diventa un Ente, cioè diventa molti, va costantemente tenuto ben separato dall’Uno puro. Per esempio, il Primo è un Uno-Solo, il secondo Uno-Tutto; quello un Uno senza sostanza, questo un Uno-sostanziale; questo essere sostanziale, questa «sostanzializzazione» intendeva esprimere Platone parlando di «partecipare della sostanza»: ma non avendo posto l’Ente come soggetto e avendo detto che esso partecipa della sostanza, ma avendo posto l’Uno, un Uno sostanzializzato e ha detto che questo Uno partecipa della sostanza. La cosa interessante è questo tentativo costante e infaticabile di tenere separato l’Uno dai molti: l’Uno non è i molti, non deve essere i molti, per nessun motivo e in nessun caso. A pag. 91. Guarda ora se Platone non sembra lasciar intendere questo, cioè che l’Uno che è al-di -sopra della sostanza e dell’ente, non sia né ente, né sostanza, né attività, ma piuttosto agisca e sia Lui stesso l’agire puro; di conseguenza Lui stesso sarebbe l’Essere che è prima dell’Ente; partecipando di questo Essere dunque, il Secondo Uno possiede un Essere derivato, e questo è il «partecipare dell’ente». Questo è il neoplatonismo. Ne consegue che l’Essere è duplice: il primo preesiste all’Ente, il secondo è quello che è prodotto dall’Uno che è al di là; e l’Uno è in assoluto esso stesso l’Essere, in qualche modo è l’Idea dell’Ente… Questa idea dell’Ente viene dall’Uno. È un rifacimento anche della dottrina platonica delle Idee …dunque il Secondo Uno è stato generato partecipando di questo Essere, e ad esso è abbinato l’essere [secondo] derivante dall’Essere [primo]; come se tu pensassi «essere bianco». Ritorno a dire che qui tra le righe – non poi tanto tra le righe – c’è un invito a non pensare, perché non è pensabile. Questo è stato il colpo di genio: non puoi pensare Dio perché non è pensabile. Perché non è pensabile? Perché noi siamo inferiori e non abbiamo la capacità, la forza di pensarlo. Questo è il massimo a cui sono arrivati: se smetti di pensare di conoscerlo allora forse un giorno potrai accedere a Dio. A pag. 93. Qual è questa Intelligenza che afferma che una cosa è il pensiero ed un’altra il pensato? E che vede sia quando il pensiero si unisce al pensato sia quando non può farlo? È chiaro che questo è l’atto che sta al di sopra degli altri, che li trascende tutti, che usa tutti gli altri come strumenti, che è in contatto con essi secondo un modo di identità senza però essere contenuto in alcuno di essi. Infatti ognuno degli altri atti è fissato a qualcosa e ad essa totalmente ordinato, sia secondo la forma sia secondo il nome; ma questo non è l’atto di nulla, poiché non ha forma, né nome, né essenza. E non è tenuto in alcunché, non si forma grazie a qualcos’altro, poiché è per essenza impassibile e per essenza inseparabile da sé; e non è né intellezione né intellegibile né sostanza, ma al-di-sopra di ogni realtà e privo di ogni relazione. Qui c’è un altro elemento che interviene nella teologia, e cioè che Dio non è separabile da sé. In questo senso è irrelato, perché se fosse relato vorrebbe dire che si separa da sé, cioè, ha se stesso come contrapposto. Invece no, deve essere Uno assoluto, irrelato, privo di ogni relazione. Se è in relazione con qualche cosa ritorna immediatamente il problema di prima: è ciò con cui è in relazione che lo fa esistere in quanto tale, così come la A esiste in quanto negazione di non-A, esiste solo in questo, se la A non è questo non è niente, non c’è nessun modo di dirla, di pensarla, di farci alcunché. Nella conclusione si vede bene la separazione del pensiero di Porfirio da Parmenide. A pag. 97. E da questo punto di vista, l’Intelligenza è nello stesso tempo in quiete ed in movimento, in sé ed in altro, è un tutto ed ha parti, è identica e diversa; ma considerata come l’Uno nella sua purezza, come l’Uno autentico ed originario, l’Intelligenza non è né in quiete né in movimento, né identica né diversa, né in sé né in altro. E poiché non è né un oggetto di pensiero, né un soggetto che agisce, né verso se stessa né verso qualcos’altro... Qui si interrompe il testo, non c’è più niente. Qui c’è la separazione netta. Parmenide dice che è nello stesso tempo in quiete e in movimento, è in sé e in altro, è quello che è e altro da sé. Porfirio dice che non è né una cosa né l’altra, non è in movimento né in quiete, non è identica e non è diversa. Questo comporterebbe la conclusione che, quindi, non è. Che, in effetti, è la conclusione cui era giunto Parmenide quando nella prima ipotesi parlava dell’Uno che non è i molti: se io lo escludo dai molti non lo posso determinare, non essendo in relazione con niente, e se non ha nessuna determinazione è niente. E, invece, qui, riprende proprio la questione: toglie all’Uno tutte le determinazioni, riducendolo a niente, per cui Dio sarebbe niente. Tutto questo ha un unico interesse, che è quello di mostrare come già con il neoplatonismo, ma lo abbiamo già visto con Platone e con Aristotele, c’è stata una lotta contro gli eleati, come se fossero il male, e come poi, di fatto, nessuno sia mai riuscito ad opporre al pensiero degli eleati delle obiezioni teoreticamente solide, che avessero un senso. No, semplicemente: non è così. Perché? Perché no. Porfirio mostra esplicitamente, dice che l’Uno non è quello che diceva Parmenide, e quindi è questo e anche quest’altro, cioè, è sé e altro da sé. No, non è una cosa né l’altra, non ha nessuna relazione, è indeterminato, cioè, è niente. Ma è un “niente” per l’Intelligenza, questa è l’obiezione dei neoplatonici, è niente per la nostra intelligenza, perché siamo limitati; se, invece, fossimo illimitati, che non si neanche bene cosa voglia dire, allora comprenderemmo Dio. E, allora, il suggerimento qual è? Quello di non pensare, perché se pensi ti accorgi che non puoi niente. Cosa che avevano fatto gli eleati: sì, non c’è assolutamente nulla. Per potere mantenere l’idea che ci sia qualcosa, è necessario non pensare. Per potere mantenere l’idea che il principio di non contraddizione sia fondato è necessario non interrogarlo. La stessa cosa per l’analogia, per l’induzione, come diceva Platone, anche per l’induzione non si deve andare oltre nell’interrogare le cose, occorre porre un limite. Lo stesso Tommaso poneva un limite al pensiero, altrimenti ci si accorge subito di una inevitabile regressione all’infinito, e quindi dice “No, bisogna fermarsi”; il problema è eventualmente dove. In tutto ciò che stiamo vedendo c’è una sorta di filo che attraversa e che ci dice che non si deve andare oltre un certo limite; ne va della fondabilità del pensiero stesso, e lo vedremo bene nel Sofista. Il Sofista pone la non fondabilità del pensiero: non è possibile trovare un fondamento, un fondamento che non sia la chiacchiera. Il fondamento c’è e può intendersi semplicemente come una o una serie di proposizioni che sono la premessa per le conclusioni cui giungo; quello che Leibniz chiamava principio di ragione e, in parte, ciò che Aristotele chiamava principi primi – in parte, perché i principi primi rappresentavano il fondamento del pensiero intero. Il fondamento sono quelle proposizioni che rendono conto del perché affermo quello che affermo. Ora, se non c’è il fondamento o se non è reperibile in modo ultimativo, allora quello che affermo che valore veritativo ha? Sì, certo, può avere valore funzionale rispetto a quello che sto facendo; anche stabilire che due assi valgono più di due sette ha un valore funzionale se si gioca a poker, sennò non significa niente. Come dire che tutto il pensiero occidentale è stato costruito sull’avere mentito sugli eleati, considerati addirittura, come è stato fatto recentemente, dei pazzi. Certo, avevano detto chiaramente, a chiare lettere, che il pensiero non è fondabile. Ma il problema non è tanto della fondabilità del pensiero in quanto tale, è che non posso fare credere che io ho un fondamento in ciò che dico: come posso far credere ad altri della verità di quello che dico? Come posso ottenere che gli altri facciano quello che io voglio? A questo serve il fondamento, non ha, direbbe anche Nietzsche, alcuna aura teoretica straordinaria. È lo stesso motivo per cui non si interroga la scienza, non tanto da parte degli scienziati, che non sono in condizioni di farlo. Affermare che la scienza non ha alcun fondamento scientifico è una banalità. Non posso attribuire alla scienza un fondamento scientifico, mi troverei preso in una regressio ad infinitum: la scienza necessita di un’altra scienza che fornisca il fondamento, ma quest’altra? È una banalità, dire che la scienza non ha alcun fondamento scientifico, non ce l’ha e non può averlo. Quindi, ha un altro fondamento. Quale? Ce lo dice Aristotele, ce lo dice Platone: l’induzione, παγωγ. Torno a ripetere, visto che l’ho già detto: siccome questa mattina è sorto il sole, è sorto anche ieri, l’altro ieri, ecc., e siccome non abbiamo motivo di pensare che domani sarà diverso, allora sorgerà anche domani. È possibile, certo, ma non è una certezza. Anche in questo caso non si deve pensare, non si deve andare oltre un certo limite, è come con Dio, è la stessa cosa: c’è il fondamento ma non è pensabile, non è dicibile, non è visibile, non è niente, ma c’è. Però, ho bisogno di un sistema che mi consenta di fornire alle mie argomentazioni un fondamento, per cui ecco la logica, che è quella trappola che apparentemente dà un fondamento alle mie argomentazioni, apparentemente. Anche la logica sappiamo perfettamente che non ha nessun fondamento logico, necessariamente, sarebbe lo stesso problema di prima: la logica della logica della logica, ecc., all’infinito. Mercoledì prossimo affrontiamo la questione della conoscenza, della possibilità della conoscenza, leggendo il Sofista di Platone. Dopo leggeremo le considerazioni che fa Heidegger, che ci ha sempre fornito delle occasioni per riflettere ulteriormente. E lo farà anche questa volta.