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24 ottobre 2018

 

La struttura originaria di E. Severino

 

Tutto quello che abbiamo fatto in questi ultimi anni, le letture, queste riflessioni, hanno condotto a questo punto a una maggiore attenzione alla questione del linguaggio, alla sua struttura e alla volontà di potenza. Le ultime cose lette di Severino hanno messo in moto delle considerazioni che, forse, sono importanti. Non mi sono ancora perfettamente chiare in tutte le sfaccettature, angolazioni e articolazioni, però, mi fa piacere comunque esporvele così come sono per il momento, poi, magari, si preciseranno. Un aspetto riguarda la struttura del linguaggio e il suo funzionamento. Quando si parla di struttura del linguaggio si intende qualche cosa che lo fa funzionare nel modo in cui funziona. Quando si parla, invece, del funzionamento si allude alla volontà di potenza. Ciò che Severino, e prima di lui Heidegger e la semiotica, hanno posto una questione che conduce a qualche cosa che indica la struttura del linguaggio in modo più radicale. Come funziona il linguaggio lo abbiamo detto tante volte: ci sono delle informazioni, delle istruzioni per processare queste informazioni. È vero, ma non basta. Alla base di tutto ciò che qualche cosa di più profondo, che è stato scorto anche da molti altri. Tutto è incominciato con Hegel, con la sua dialettica. Per questo motivo sono andato a rileggermi la prefazione di Hegel alla Fenomenologia dello spirito, dove si pongono i tre momenti della dialettica: tesi, antitesi e sintesi. Avrete notato che sia in Heidegger, nella semiotica, Peirce soprattutto, e in Severino, c’è un elemento che ricorre continuamente: un elemento, la sua contrapposizione, il suo predicato, e poi il terzo elemento che è la relazione tra i due. È sempre lo stesso schema che si ripete da Hegel in poi. Si tratterebbe di vedere se c’è già traccia in Parmenide. Dovrei andare a rileggermi il poema di Parmenide, quelle poche cose rimaste, facendo attenzione a questo aspetto. Questo è il motivo per cui i libri veramente interessanti sono quelli che ogni volta che si leggono si possono leggere in mille modi diversi e dicono sempre qualcosa di importante. Se rileggessimo oggi Essere e tempo di Heidegger lo leggeremmo sicuramente in modo diverso da come lo abbiamo letto prima; è inevitabile. Questo è il circolo ermeneutico, tra l’altro. Dicevo, dunque, che c’è sempre questo schema, che è partito con Hegel, con la sua dialettica: tesi, antitesi e sintesi. Tesi è la posizione; antitesi, la contrapposizione; e, infine la sintesi, il mettere insieme, la relazione tra i due. Questo schema ci indica qualche cosa che è fondamentale per il linguaggio, per intendere forse meglio la sua struttura originaria, come dire Severino. Potremmo dire che la struttura originaria del linguaggio è la relazione, relazione posta in questo modo: si pone un elemento, ma questo elemento, per essere posto, deve essere un elemento linguistico. Se è un elemento linguistico deve rinviare a un altro elemento linguistico, e quindi c’è già la relazione. Chiaramente, questi elementi, della tesi e dell’antitesi, costituiscono una relazione. La relazione è una ma che comporta il due. Per questo accennavo a Parmenide, perché è il problema antico dell’uno e dei molti: come fa l’uno a essere anche molti. Lo avevamo visto bene anche in Peirce, vi ricordate, la sua tripartizione. Anche lui scrive la stessa formula, lo stesso schema: A è B, dove il primo lui lo chiama il qualisegno, la qualità, cioè, il quale, l’individuazione sensibile di qualcosa; il secondo elemento lo chiama sinsegno, quell’elemento che fa sì che ci sia segno, cioè, un rinvio, il primo deve rinviare al secondo, e lui già sapeva bene che se non c’è questo rinvio non c’è neanche il primo; poi, la terzialità, la parte più importante, perché è ciò che interpreta il tutto, e come lo interpreta? Lo interpreta in base a quella cosa che Peirce chiamava la verità pubblica, quella che Heidegger chiamava la chiacchiera, la Lebenswelt di Husserl, e cioè viene interpretato in base alle informazioni che si hanno, in base alla propria storia, alla propria tradizione, alle proprie usanze, al mondo di cui è fatta una persona, di cui è fatto l’esserci, direbbe Heidegger. È lei che interpreta, ma interpretare che cosa? Questo movimento tra qualcosa che si pone, che non potrebbe porsi se non ci fosse quell’altro elemento a cui rinvia, e, quindi, alla relazione, all’unità che si crea tra questi due elementi. Questo ci mostra, almeno così parrebbe, la radice del funzionamento del linguaggio, e cioè il fatto che quando si pone qualche cosa non può porsi isolatamente, perché isolatamente non ci sarebbe, c’è perché è connesso, in relazione con un altro termine, cioè, con il termine cui rinvia. Questa relazione costituisce quel terzo elemento che consente a questo punto di partire, cioè usare questa relazione come se fosse un qualisegno, come se fosse un elemento che appare, e si riproduce il meccanismo all’infinito, come la semiosi infinita, di cui parla Peirce. Quindi, in questo modo pare di individuare qualcosa che sta proprio a fondamento del funzionamento del linguaggio: il porsi di qualcosa che ha come condizione il rinviare a un altro elemento, il quale fa esistere il primo, e la relazione che comporta questo movimento tra i due elementi. Qui interviene ciò che dice Severino. Anche lui pone in qualche modo la stessa questione, è sempre la stessa formula che insiste, A è B. Anche lui dice che non posso prendere la A e la B isolatamente, se le isolo si crea immediatamente una contraddizione, ma devo prenderle come una relazione. Quello che lui chiama il concreto, che cos’è se non la relazione tra due elementi che non possono essere isolati da questo concreto, dalla loro relazione (la lampada che è sul tavolo). Questo per dire che è un qualche cosa che da Hegel, perché è lui che ha avviato questo modo di pensare le cose, da Hegel in poi ha costituito non solo un riferimento per tutto il pensiero successivo ma anche ciò con cui il pensiero successivo ha dovuto confrontarsi, ha dovuto fare i conti. Come dire che oggi non è più possibile pensare senza fare i conti con questo, con il fatto che qualunque cosa si ponga, per poterlo porre questo qualunque cosa, deve essere in relazione con un altro elemento. E il fatto che sia in relazione non è né casuale né è scindibile. Come dicevo prima, evocando Severino, non posso isolare… certo, posso farlo, ma ciò che rende questi due elementi, una relazione, cioè li rende quello che sono, è l’essere tra loro in relazione e non isolati. Infatti, lui parla dell’astrazione dell’astrazione: quando cioè voglio isolare un elemento e prenderlo per quello che credo che sia isolandolo dal concreto, cioè, isolandolo appunto dalla relazione. La relazione non è niente altro che questo terzo elemento che compare nel momento in cui due elementi sono in relazione. Il fatto è che questi due elementi, qualunque essi siano, non possono non essere in relazione, cioè, se c’è un elemento necessariamente ce n’è un altro. Per una questione linguistica, non per qualcosa di strano: per potere porre qualche cosa, questo qualche cosa deve significare qualcosa, deve essere significante, ma perché possa essere significante deve esserci un rinvio, cioè “questo è questo”. ecco perché parlavo di struttura originaria del linguaggio, perché riguarda il momento in cui qualche cosa si pone: se si pone allora si pone necessariamente in questo modo, si pone come un elemento di un rinvio. Qualunque cosa non può stare senza un rinvio, e il rinvio è ciò che lo fa esistere. Ecco perché anche Severino insiste su questo aspetto che, tra l’altro, mi ha fatto riflettere intorno alla volontà di potenza. Lui lo poneva rispetto al principio di non contraddizione; tuttavia, non si riferiva unicamente a questo. Lui indica il principio di non contraddizione come la struttura originaria, e cioè per porre qualche cosa occorre che ponga anche il suo contrario, il suo contrapposto, per poterlo togliere. Questo cosa ci dice? Già Hegel poneva la questione in modo molto simile, e cioè la negazione di qualche cosa non devo toglierla ma viene superata, superata dalla relazione dei due elementi, cioè tesi e antitesi, attraverso quel processo che Hegel chiamava Aufhebung, letteralmente superamento, sollevamento. Quindi, anche per Severino occorre che ci sia quest’altra cosa per poterla togliere, ma deve esserci, perché solo a questo punto la prima è quello che è. A lui interessa in modo specifico il principio di non contraddizione; quindi, per potere affermare che questa cosa è questa, ci deve essere qualche cosa che dice di no, che non è vero che questa cosa è questa: ci deve essere ma devo toglierla. Sennò, e in questo aveva ragione Severino, questa cosa non è quello che è, perché rimane in sospeso. Per fare un collegamento con Peirce, è come il qualisegno senza il sinsegno, cioè senza il rinvio a qualche cosa che fa essere il primo elemento quello che è. A questo punto si pone un’altra questione. Come ho detto all’inizio, sono questioni sulle quali ho appena incominciato a riflettere, quindi, c’è ancora molto da lavorare, Severino probabilmente ci potrà dare ancora delle indicazioni. Però, l’aspetto a cui alludevo è connesso con la volontà di potenza. C’è un punto nella nostra elaborazione che non soddisfaceva come avrebbe dovuto, e cioè la necessità che hanno gli umani di trovare il consenso a ciò che credono vero. Sì, si diceva, hanno bisogno del consenso perché questo rafforza la credenza, la superstizione, eliminando eventuali ostacoli. Il fatto è che qui Severino l’ha detto senza accorgersi, se lo leggiamo insieme con il Nietzsche della volontà di potenza, allora diventa tutto molto chiaro, e cioè che perché ciò che io affermo sia quello che è, occorre che io faccia esattamente la stessa operazione, e cioè ponga la contrapposizione, l’antitesi, per toglierla. Quindi, non è qualcosa che si aggiunge – io credo a qualche cosa, poi c’è qualcuno che mi mette i bastoni tra le ruote, e allora o lo inglobo o lo elimino –  ma che ci sia qualche cosa che lo nega è necessario, necessario per potere affermare come stanno le cose. Se è necessario che sia allora lo posso togliere; esattamente come Severino dice relativamente al principio di non contraddizione, che perché l’essere sia l’essere occorre che io tolga il non essere, ma per poterlo togliere devo mettercelo. Ci deve essere il non essere, perché l’essere è ciò che nega il non essere, per essere quello che è, sennò non è niente. E, quindi, deve porlo e poi toglierlo, superarlo, direbbe Hegel. Superarlo come? Con la relazione, ovviamente. Però, rispetto alla volontà di potenza, qui appare assolutamente necessario che ci sia l’oppositore. L’oppositore è ciò che garantisce che ciò che io affermo è quello che affermo, che le cose stanno così come dico io. In assenza totale di qualunque opposizione è come se si ricadesse nel problema che Severino rileva a proposito dell’essere che non ha a fianco un non essere e che, quindi, non può togliere l’eventualità di essere non essere. Allo stesso modo, riportandola alla volontà di potenza, non può togliere l’eventualità che ciò che affermo sia falso. Per avere la sicurezza che sia vero, ci deve essere la sua contraria che devo togliere e, quindi, ho necessariamente bisogno di un nemico. È una necessità, non è un qualche cosa che accade, che si incontra, è necessario che ci sia perché quello che dico sia assolutamente vero, ci deve essere qualcuno che dice di no, che ci sia realmente o idealmente, questo è irrilevante, ma sennò quello che affermo, così come per l’essere di Severino, non trova l’eliminazione di ciò che lo mette in pericolo, di ciò che lo mette in discussione, e quindi l’essere non esclude il non essere. Senza questa contrapposizione ciò che io affermo non esclude il contrario. La verità necessita del falso; senza il falso, come so che questa è la verità, se non so che cosa non è, se non so cosa devo eliminare. Quando lo so allora so che questo è vero perché so che la sua contraria è falsa e la elimino. È stata questa riflessione di Severino a farmi pensare alla volontà di potenza, perché funziona esattamente nel modo in cui lui descrive la necessità che ha l’essere di porre il non essere per toglierlo, ma per poterlo togliere, per confermarsi come essere, deve porre il non essere e, quindi, toglierlo. L’essere è quello che è e non è non essere. Se io non lo levo questo non essere mi ritrovo tra le mani un qualche cosa che può essere qualunque cosa, mentre a questo punto so che è l’essere, quindi, non è non essere. Mi è assolutamente necessario; per toglierlo, certo, ma mi è assolutamente necessario. La volontà di potenza necessita, allo stesso modo e per lo stesso motivo, di qualcuno o qualcosa che si contrapponga per potere confermare che ciò che affermo è quello che affermo. Quindi, anche la ricerca del nemico, per dirla in modo spiccio, è qualcosa che è strutturale al funzionamento del linguaggio, cioè, non posso non farlo. Il nemico può essere un’idea teorica, qualcuno che mi sta antipatico, può essere qualunque cosa, non ha importanza, però ci deve essere. Solo a questo punto posso affermare con assoluta certezza che, nel caso di Severino, l’essere è, perché non è non essere. Questo è, ma non per virtù propria; no, è essere perché non è non essere. È questa la tesi fondamentale di Severino. Da qui, il principio di non contraddizione. Come vedete, sono questioni appena abbozzate, più che altro sono direzioni che mi è parso interessante porre ma che vanno ovviamente articolate e anche intese meglio. Però, qualche cosa si è precisato rispetto a ciò che si poneva prima, si è precisato rispetto sia alla struttura del linguaggio sia rispetto al suo funzionamento. Per funzionare necessita della relazione, cioè del porre un qualche cosa e necessariamente se lo pongo è perché c’è un’altra cosa che mi significa la prima, e questa relazione tra i due è inscindibile. Questo riguarda la struttura del linguaggio, la struttura logica. Severino la chiamerebbe la F-immediatezza, ciò che appare, il fenomeno; il funzionamento è quello per cui devo porre un elemento, contrario alla tesi, l’antitesi, per potere garantire la posizione della tesi. Non sono andato molto oltre queste cose, per il momento, ma conto, proseguendo la lettura di Severino, che altre cose qua e là possano accadere, come la lettura del poema di Parmenide. Non sono sicuro di trovarci chissà che cosa, però, non è impossibile. Parmenide è stato il primo a porsi la questione, l’essere è e non può non essere; poi, Platone l’ha aggiustata a modo suo, ma in Parmenide la questione era precisa: il problema dell’uno e dei molti è stato una spina nel fianco del pensiero da sempre, e lo è a tutt’oggi. Come fa una cosa a essere uno e a essere molti? Questo ce lo dice il funzionamento del linguaggio: fa che per essere uno, perché è uno, necessita di molti. Se pensate a de Saussure diceva esattamente questo, e cioè il significante è tale, individuabile in quanto tale, perché è in una relazione differenziale con tutti gli altri significanti. Che cosa ci sta dicendo se non che uno per essere uno deve essere necessariamente molti. Non c’è contraddizione per il semplice fatto che non stiamo parlando di enti metafisici, enti di natura, che quindi sono quello che sono e basta. Intanto, sono quello che sono all’interno del concreto, come dice Severino, del mondo, come direbbe Heidegger, o della verità pubblica, come direbbe Peirce. La cosa importante è che, appunto, non c’è contraddizione perché non stiamo trattando enti di natura ma enti di ragione, significanti. Un significante, lo dice la parola stessa, è significante – il primo come sostantivo, il secondo come verbo – è significante perché riferito a qualche cosa, sennò questo significato che ha da dove lo tira fuori se non da qualche altra cosa? Quindi, l’uno e i molti potremmo dire che è la “contraddizione” – tra virgolette perché non sono sicurissimo che si possa parlare qui di contraddizione – contraddizione del linguaggio, ciò di cui è fatto il linguaggio, che per essere ciascun elemento uno, è fatto anche di quell’altro, che lo fa esistere e, quindi, non lo possiamo togliere. Peirce aveva inteso molto bene questo, quando diceva: A è B, il primo è il qualisegno, è semplicemente il porsi di qualche cosa, la tesi, ma questo qualche cosa si pone perché è B, perché è B che ci dice che cosa è A, che la fa esistere in quanto A. Qui, naturalmente, c’è un problema perché come può porsi qualche cosa che, di fatto, ancora non si è posta se non in attesa di qualche altra cosa che sta arrivando? Eppure, funziona così, nel senso che qualcosa si pone – una parola, un pensiero – è già preso nel linguaggio. È questa la questione. Porsi una domanda del genere, quella di prima, indica la possibilità di uscire dal linguaggio, che ci sia un punto preciso in cui il linguaggio inizia. Ma, come diceva giustamente Heidegger, ciascuno nasce nel linguaggio, si è già lì, si è già dentro; nel momento in cui ci si accorge di qualche cosa è perché si è già dentro. Questo lo sapeva anche Peirce: non c’è il primo elemento. Perché ci sia il primo elemento è necessario che questo primo elemento sia già un elemento e, quindi, se è un elemento, è in connessione con qualche cosa, sennò non esisterebbe. Non c’è il primo da cui parte ogni cosa, il segno della creazione. Non c’è questa possibilità, siamo già sempre nel linguaggio. Non è che il linguaggio sia il pastore dell’essere, come diceva Heidegger; sì, anche, certo, ma il linguaggio è ciò in cui ciascuno abita, ciò di cui ciascuno è fatto, è ciò che gli consente di pensare di essere quello che è. Poi, se pensate bene, in tutta la semiotica contemporanea, da Greimas allo stesso Jakobson, c’è sempre questa figura del triangolo, tre elementi, anche se è vero che Greimas, nella Semantica strutturale, lo dice esplicitamente: ci sono due elementi, ma questi due elementi sono in relazione e da quel momento sono uno, non sono più due elementi. Sta dicendo esattamente quello che ci dice Severino quando dice che questi due elementi non sono isolabili dal concreto, che è questa lampada che è sul tavolo. Non li posso isolare, se li isolo mi trovo un’altra cosa, che non è più quella di prima. Quella di prima è quella che è perché mi mostra questi due elementi in quanto in relazione, non in quanto uno più l’altro. No, questi elementi in relazione e, quindi, è la relazione propriamente ciò che appare. Anche quando Severino parla del problema del nulla parla di una questione che ha la stessa conformazione di ciò che stiamo dicendo. Nella sua argomentazione per risolvere l’aporia del nulla non a caso cita Fredegiso di Tours che nel De nihilo et tenebris pone come irrisolvibile la questione. Lo ricorda anche Severino, la questione era già stata posta da Platone dopodiché nessuno l’ha risolta, è rimasta lì irrisolta, per lo più accantonata. Severino la risolve come? In un modo che è emblematico. Intanto, enunciamo la contraddizione: se io parlo del nulla parlo di qualcosa, ma se è qualcosa allora non è nulla; quindi, di che cosa parlo? Parlo del nulla o di qualcosa? Questo, per dirla in due parole, il problema del nulla. Lui dice che bisogna distinguere: quando parliamo del nulla parliamo di qualcosa che significa nulla, significa un elemento linguistico. Non è il nulla assoluto, il nihil absolutum, perché se fosse il nulla assoluto non ci sarebbe nessuna parola, non potrei né nominarlo né pensarlo, né porlo in nessun modo. Quindi, non si tratta del nulla assoluto quando si enuncia questo paradosso, questa autocontraddizione del nulla, perché quando parlo del nulla, di cui sto parlando, siccome ne parlo è un significante, significa qualcosa e, se significa qualcosa, è un elemento linguistico. E, quindi, sto semplicemente giocando con il linguaggio. Il nulla assoluto non è niente altro che ciò che è stato posto come non essere, solo che questo non essere è ciò di cui ho bisogno, quindi, è già qualche cosa. In ogni caso, quando io parlo del nulla, parlo di un significante, parlo di qualcosa di linguistico, cioè, esiste in quanto significante, perché, appunto, se fosse il nulla assoluto non si porrebbe nessuna questione, quindi, nessun paradosso, di nessun tipo. Parlando del nulla parlo di qualche cosa che, ovviamente, allude al non essere, che è ciò di cui ho bisogno per stabilire l‘essere. Ecco perché il nulla è così importante, come aveva già rilevato Heidegger nella sua prolusione alla metafisica del ’39, Was ist Metaphysik?, dove pone la questione del nulla come qualche cosa che concerne necessariamente l’essere. Severino articola meglio e di più la questione ponendo il nulla come necessario a stabilire l’essere: se non c’è il nulla non c’è neanche l’essere. Se non c’è l’essere non c’è neanche il problema, non potremmo neanche stare qui a parlarne. Leggiamo le parole di Severino a questo riguardo. Siamo a pag. 216. Se il significato “nulla” contraddice dunque la positività del suo significare… Se contraddice il fatto che significando qualcosa e, quindi, non è più nulla. …è proprio per questa contraddizione – che è autocontraddizione in quanto il significato “nulla” sia inteso come sintesi di quella positività e del contenuto significante – che può sussistere il principio di non contraddizione. È proprio perché significa qualche cosa che esiste il principio di non contraddizione, se fosse il nulla assoluto non ci sarebbe né il principio di non contraddizione, né l’essere, né nient’altro. È cioè necessario, affinché si possa escludere che l’essere non sia – che cioè sia non essere – che il non essere sia; ossia che sussista il significato autocontraddittorio in cui consiste quell’essere del non essere. Se il significato “nulla” non valesse come questa autocontraddittorietà… Per Severino il nulla è l’autocontraddittorietà, è l’essere che è il non essere, è nulla, sì, ma un nulla significante. – se il nulla fosse, nel senso che è corretto riconoscere –, e se dunque il nulla fosse soltanto quell’assoluta negatività, per la quale esso vale come significato incontraddittorio (“nulla” come momento dell’autocontraddittorietà) escludere che l’essere sia nulla sarebbe un non escludere nulla, poiché l’esclusione non avrebbe un termine su cui esercitarsi: il nulla non apparirebbe nemmeno. (Ma è anche chiaro che la supposizione stessa che il nulla sia soltanto quell’assoluta negatività, per la quale esso vale come significato incontraddittorio, è chiaro che questa supposizione stessa è autocontraddittoria, in tanto che si può dire che il nulla non è proprio nulla, in quanto il nulla è manifesto, e quindi è questo non esser proprio nulla). Andiamo a pag. 222. L’assolutamente altro dall’essere, in quanto altro dall’essere, non è un essere; ma in quanto è significante come l’assolutamente altro dall’essere è un essere, una positività. Ecco, qui c’è ovviamente una contraddizione. La positività di questo significare non è inclusa in ciò che questo significare significa, non determina ciò che questo significare significa. Se sto parlando del nulla sto parlando di qualcosa, non del nulla assoluto, sono due cose diverse. La contraddizione del “nulla” sta appunto in questo, che il significare è il significare dell’assolutamente non significante; non sta nel fatto che il non significante significa il significante (ha il significato di “significante”), ma che il non significante è significante come non significante. Il nulla è significante in quanto non significante. È questo il suo significato, che non vuol dire che è nulla, il nulla assoluto, perché abbiamo visto che se significa, significa qualcosa. Diciamo che qui c’è una distinzione tra valore linguistico, semantico, e il valore metafisico del termine “nulla”. Se lo poniamo metafisicamente, cioè come l’incontraddittorio, questo nulla è niente, non possiamo farne niente, né dirne, né parlarne. Invece, ne parliamo ma ne parliamo in quanto elemento linguistico, in quanto qualcosa che significa e ciò che significa è questa parola “nulla”. A pag. 223. Pertanto, o non si dà alcuna consapevolezza del nulla – e non sussiste nemmeno questa aporia – o, se questa consapevolezza sussiste, il negativo è con ciò già in sintesi con il positivo. Ecco, il nulla è necessario perché l’essere sia. Porre un elemento comporta il porre già un altro elemento. In questo caso il nulla rispetto all’essere. Se non pongo il nulla, ciò che l’essere non è, non c’è neanche l’essere, perché non escludo che l’essere non sia, e se non lo escludo è possibile, e se è possibile è un problema. A pag. 228, Il nulla e la contradizione. L’autocontraddittorietà – ogni significato autocontraddittorio – è il nulla stesso. Per Severino l’autocontraddittorietà è il nulla. Se qualcosa è autocontraddittorio è nulla, non il nulla assoluto ma il nulla in quanto qualcosa che significa nulla, che rinvia a quest’altra parola che si chiama “nulla”. A chiarimento di questo teorema si considerino, ad esempio, i seguenti significati: “Triangolo non triangolare”, “Rosso non rosso”, “Qui non qui”, “x non è x”, ecc. … Porre ognuno di questi significati autocontraddittori significa porre il nulla. Se io dico “Rosso non rosso” sto dicendo nulla. Il principio di non contraddizione, affermando che l’essere non è non essere (dove il “non essere” vale sia come negatività assoluta che come il contraddittorio di un certo positivo), esclude appunto che il positivo sia autocontraddittorio, o che l’autocontraddittorietà sia. L’essere è essere, sì che l’autocontraddittorietà è il nulla: un essere che non sia (o che sia il suo contraddittorio) non è. Non è, sempre non nell’accezione del nulla assoluto, del quale sappiamo che non possiamo dire assolutamente niente, ma di questo concetto, di questa parola che è il nulla. Dice, infatti, la riga dopo porre il nulla non è un porre nulla. Più chiaro di così! Porre il nulla non è un porre nulla, perché se pongo il nulla pongo qualcosa, quindi, non è un porre nulla. … così porre l’autocontraddittorietà non è un non porre nulla. I significati autocontraddittori sono infatti presenti, e pertanto sono. L’aporia dell’essere dell’autocontraddittorietà è la stessa aporia dell’essere del nulla. Ciò vuol dire che – come per il significato “nulla” – il significato “autocontraddittorietà” è un significato autocontraddittorio.