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24 settembre 2025

 

Agostino d’Ippona De Trinitate

 

15. 24. Il nostro verbo nasce forse dalla scienza sola? Non diciamo anche molte cose che non sappiamo? E quando diciamo tali cose non dubitiamo a loro riguardo, ma le diciamo ritenendo che siano vere. Supponiamo che per caso esse siano vere, esse sono vere nelle cose stesse di cui parliamo, ma non lo sono nel nostro verbo, poiché è vero solo quel verbo che è generato da ciò che si sa. Qui lui sta ponendo la questione essenziale, cioè, non fidatevi delle parole perché le parole mentono, perché le parole possono essere vere o false; l’unica cosa che è vera è la cosa, cioè, ciò a cui la parola si riferisce. Ma rimane il problema: chi garantisce che è vero? Non abbiamo nessun’altra garanzia: parlando, soltanto un Dio ci può salvare. La parola non offre alcuna garanzia, questo l’aveva già detto nel De Magistro, ma poi lo ripeterà spessissimo. Quindi, c’è la necessità di Dio per parlare, perché altrimenti saremmo in balia delle parole, cioè in balia dei molti, e i molti sono il problema. Infatti, alla fine lo dirà in modo assolutamente esplicito. 15.25. Come sarà simile alla scienza dalla quale nasce, se non ne riproduce la forma e se merita già questo nome di verbo solo perché lo si può riprodurre? Noi la chiamiamo parola soltanto perché riproduce la cosa: è questa la sua unica dignità. È come se si dicesse che bisogna già chiamarlo verbo, perché può essere verbo. Ma che cos’è questa cosa che può essere verbo e per questo già merita il nome di verbo? Che è, dico, questo qualcosa di formabile e di non ancora formato, se non un qualcosa del nostro spirito che con una specie di movimento incessante portiamo di qua e di là, quando pensiamo ora questo ora quello a seconda che lo scopriamo o ci si presenta spontaneamente? La parola è una forma. C’è un verbo vero, quando ciò che, come ho già detto, con una specie di movimento incessante… Non si sa bene cosa intenda qui con movimento incessante. …portiamo di qua e di là e si fissa su ciò che sappiamo, ne trae la sua forma, prendendone la piena rassomiglianza; cosicché quale una cosa si conosce tale anche si pensi, cioè tale sia detta nel cuore, senza pronunciare parola, senza che si pensi a una parola che senza dubbio appartiene a qualche lingua. Di conseguenza, anche se concludiamo, che si debba già chiamare verbo quel qualcosa del nostro spirito che può ricevere forma dalla nostra scienza, e ciò, anche prima che abbia preso forma, perché è già, per così dire, formabile, chi non vedrà quanto grande è qui la dissomiglianza con quel Verbo di Dio, che è nella forma di Dio, in tal maniera che non è stato prima formabile e poi formato, né può essere informe... Sta dicendo che la nostra parola ci appare vera perché si conforma a qualcosa che già sappiamo. Ora, questa idea di Dio naturalmente non possiamo farcela, perché non abbiamo presente Dio, non possiamo conoscerlo. Quindi, le nostre idee si rassomigliano alla cosa per la via della scienza, per ciò che sappiamo, ma rispetto a Dio non è così. E, infatti, prosegue: 16.25. Perciò quello si dice Verbo di Dio, senza che si possa dire pensiero di Dio, affinché non si creda alla presenza in Dio di qualcosa che cambi, e che ora si dia una forma per essere verbo, ora la riceva, la possa perdere e possa in qualche modo passare da una forma all’altra. Cioè, Dio non può essere soggetto alle variazioni della parola, al divenire della parola, deve essere da un’altra parte, al sicuro. Il Figlio di Dio non si chiama dunque pensiero di Dio, ma Verbo di Dio. Poiché il nostro pensiero costituisce il nostro verbo vero, quando termina a ciò che noi conosciamo e da esso prende forma. Il pensiero va e viene, ma il verbo, la parola che diciamo, quando termina dice il vero, ma termina su che cosa? Questo è il problema: su che cosa termina? Se è soltanto parola o pensiero non termina da nessuna parte, o termina nella doxa, che è l’ira di Dio, è il caso di dire; invece, la parola quando termina in Dio…. e come fa a terminare in Dio? Perché mi rivolgo all’interno e lì c’è la parola autentica, che è la parola di Dio, è la parola che non mente ed è quella che garantisce che quello che dico sia vero, perché, torno a dirvi, non c’è nessun’altra garanzia se non questa. Perciò il verbo di Dio deve intendersi senza che vi sia pensiero da parte di Dio, così da essere una forma simile in se stessa, né informe, né formabile. E lui si premura anche di dire che il Verbo di Dio non è pensiero di Dio, perché neanche Dio può controllare il pensiero, per farla breve; mentre il Verbo sì, la parola è quella. È vero che anche nelle Scritture sante si parla di pensieri di Dio, ma nello stesso senso, assolutamente improprio, in cui in esse si parla pure di dimenticanza di Dio. Cioè: dice così, ma va interpretato. 16.26. Se dunque la disuguaglianza da Dio e dal Verbo di Dio è tanta adesso in questo enigma, nel quale tuttavia abbiamo riscontrato qualche somiglianza, dobbiamo dichiarare che anche quando saremo somiglianti a lui e lo vedremo come è nemmeno allora saremo uguali a lui per natura. Qui sta dicendo agli gnostici: badate che non sarete mai dèi, perché noi, sì, ci avvicineremo, ci assomiglieremo - qui naturalmente è tutto Plotino – ma non sarete mai l’Uno, ci si può avvicinare ma non si potrà mai essere l’Uno. 17.27. Ma la parola di Dio per esercitarci non ci fornisce delle verità esplicite, ma nascoste, che noi dobbiamo tirare fuori dal loro nascondiglio con un più grande studio. È perché voi possiate esercitarvi che Dio ha nascosto le verità dentro le allegorie. Per giustificare le allegorie, gli spostamenti, i fraintendimenti che compaiono continuamente nella Bibbia ma anche nel Nuovo Testamento, che cosa si inventa? Dio lo ha fatto non perché è un burlone ma perché ci esercitiamo, perché, come avrebbe detto Hegel, ci vuole la fatica del concetto: perché sia vero ci vuole il sacrificio. Ci vuole il sacrificio perché soltanto ciò che è ottenuto con il sacrificio ha valore. Perché Gesù Cristo si è fatto crocifiggere? Perché soltanto dalla sua sofferenza sarebbe sorta la verità, quella autentica, soltanto la sofferenza mostra il vero. E, quindi, il concetto, l’idea che sorge da una fatica vale di più di un’altra, magari migliore, che è venuta così, senza pensarci su due volte. 20.38. Ma è meglio dire, ritengo, che il Verbo è consiglio da consiglio, volontà da volontà… Per indicare come tutte queste cose continuino in fondo la Trinità, cioè, procedano l’una dall’altra. L’importante è che non ci sia un salto, un salto inspiegabile, indimostrabile, non argomentabile, in pratica ingestibile. …come è sostanza da sostanza, sapienza da sapienza, per evitare così quella opinione assurda, che abbiamo già confutata, secondo la quale il Figlio renderebbe il Padre sapiente e volente, se il Padre non possiede sostanzialmente il consiglio e la volontà. Come dire che per questo eretico la volontà gli è data dal Figlio, perché il Figlio è il prodotto della sua volontà. Quindi, la volontà non ce l’ha Dio, ma ce l’ha di ritorno dal Figlio. Acuta senza dubbio fu la risposta di un tale ad un eretico che gli domandava assai capziosamente se Dio ha generato il Figlio volendo o non volendo... Dunque, l’eretico dice “ha generato il figlio volendo o non volendo?”, questa è la sua domanda. …rispondere che lo fece senza volere significa porre in Dio un limite inconcepibile in lui; rispondere che lo generò volendo, sarebbe stato fare il gioco dell’eretico, che ne avrebbe concluso immediatamente, come con un ragionamento invincibile, che il Verbo è Figlio non della natura ma della volontà del Padre. Ma quello, con grande presenza di spirito, domandò a sua volta al suo interlocutore se Dio Padre è Dio volendo o non volendo, … Come se chiedessi a Dio: ma tu sei Dio perché lo vuoi o no? …rispondere che è Dio non volendo, significava porre in Dio una imperfezione che non si può ammettere senza grande follia; rispondere che lo è volendo significava mettere l’altro in condizione di replicare così: “Dunque, anche lui è Dio per sua volontà, non per natura”. Che restava dunque all’eretico se non tacere e vedersi, con la sua stessa domanda, imprigionato in un legame insolubile? A queste obiezioni dell’eretico Agostino non risponde come avrebbe potuto, dovuto, alla domanda, e cioè se Dio è quello che è perché lo vuole oppure no. È semplice, Plotino in fondo suggerisce già la risposta: perché Dio è al di sopra di ogni volontà o non volontà; quindi, non è un problema che lo riguardi. Inoltre, il Verbo è Figlio non della natura ma della volontà del Padre. E, di nuovo, siamo al problema di prima. No, il Figlio non è un prodotto della volontà del Padre perché, di nuovo Plotino, sorge per processione, non è un atto di volontà. Cioè, l’intelletto per Plotino non è un atto di volontà dell’Uno, perché l’Uno non ha nessuna volontà. È questo avrebbe potuto rispondere Agostino: Dio è al di sopra della volontà, non può volere qualcosa; se volesse qualcosa mancherebbe di ciò che vuole. Inoltre, avrebbe potuto rispondere a una domanda con un’altra domanda, come avrebbe fatto l’antagonista dell’eretico: l’eretico gli fa la domanda e lui gli risponde con un’altra domanda. Ora, l’eretico avrebbe avuto buon gioco a dirgli: io risponderò volentieri alla tua domanda appena tu avrai risposto alla mia. In questo modo fa intendere, intanto, che sa perfettamente rispondere alla sua domanda, quindi è perfettamente padrone della situazione; inoltre, fa anche un richiamo a una correttezza dialettica, che il pubblico non può non apprezzare, mettendo a questo punto l’interlocutore nella condizione di dovere necessariamente rispondere lui alla domanda che gli è stata fatta per primo, e cioè: io rispondo volentieri appena avrai risposto alla mia. Andiamo all’ultima pagina, dove c’è una preghiera, che è emblematica di tutto De Trinitate e di tutto il pensiero di Agostino. Liberami, o mio Dio, dalla moltitudine di parole di cui soffro nell’interno della mia anima, misera alla Tua presenza e che si rifugia nella Tua misericordia. Infatti, non tace il pensiero, anche quando tace la mia bocca. Se almeno non pensassi se non ciò che ti è grato, certamente non ti pregherei di liberarmi dalla moltitudine di parole. Qui c’è il compimento del De Trinitate. Tu che sei l’Uno liberami dalla moltitudine di parole, liberami dai molti. Ma molti sono i miei pensieri tali quali tu sai che sono i pensieri degli uomini, cioè vani. Concedimi di non consentirvi e, anche quando vi trovo qualche diletto, di condannarli almeno e di non abbandonarmi ad essi come in una specie di sonno. Né essi prendano su di me tanta forza da influire in qualche modo sulla mia attività, ma almeno siano al sicuro dal loro influsso i miei giudizi, sia al sicuro la mia coscienza con la tua protezione. Parlando di Te, un sapiente nel suo libro, che si chiama Ecclesiastico, ha detto: Molto potremmo dire senza giungere alla meta, la somma di tutte le parole è: Lui è tutto. L’uno è il tutto, nella traduzione di Diels. Ecco, questa è la conclusione, ma direi anche il compimento del De Trinitate. In questa preghiera dice alla fine qual è la cosa veramente importante: liberami dai molti, liberami dalle parole, dai pensieri. Tutto questo, ovviamente, è fondamentale per intendere tutta la teologia. Pensate alla dottrina della salvezza, la cosiddetta soteriologia. La dottrina della salvezza è quella cosa per la quale e attraverso la quale il cristianesimo ha avuto così tanto successo, ma non tanto, e non solo, perché il cristiano immagina di venire salvato da Dio, ma perché così lui stesso può salvare gli altri. È a questo che serve la verità, la verità serve in quanto, conoscendo la verità, io posso salvare l’altro dalla ignoranza della verità, posso trarlo dall’abisso, dal fondo buio della sua ignoranza e portarlo verso la luce. Questo è ciò che fa l’evangelizzazione e la dottrina della salvezza è il fondamento di tutto il cristianesimo. Ma, torno a dirvi, è importante non tanto perché ciascuno può essere salvato, si senta salvato, salvabile, se si comporta bene, ma perché può salvare gli altri, non tanto dal peccato in generale, forse nel Medioevo sì, oggi no, nessuno pensa di salvare l’altro dal peccato, a meno che non sia un omosessuale e, allora, questo è un peccato, lo sanno tutti: è un peccato e, allora, bisogna salvarlo. Ma chi mi autorizza a fare una cosa del genere, a fare una stupidaggine di tali proporzioni, se non la consapevolezza di muovermi per la verità? L’altro in quanto tale, ma Agostino stesso lo dice tantissime volte, già Paolo lo diceva, non ha nessun interesse, dell’altro non importa niente a nessuno, anche perché non sa assolutamente né chi è né cosa vuole, né cosa fa, niente. È un’idea, l’altro è un’idea. Ma la sua funzione è quella di essere salvato ed è una funzione fondamentale, alla quale nessuno rinuncia. Ma per salvare si deve partire dalla presupposizione che l’altro sia nell’errore, nel peccato, nell’ignoranza, e il salvare l’altro dal peccato appare l’attività più importante da compiere. Lo stesso Dio, se non avesse da salvare qualcuno, non servirebbe a niente, assolutamente a niente. Mi sto ripetendo, ma è un concetto importante: la stessa persona, se non ha nessuno da salvare, se non ha la possibilità di salvare qualcuno, salvarlo in termini generali, lei stessa è nessuno: cosa sto a fare al mondo se non posso salvare qualcuno? Salvare qualcuno, si, certo, dalla sua ignoranza, ma l’ignoranza da dove viene? Dai molti. Sono i molti la base dell’ignoranza, perché i molti sono quella cosa che impedisce la certezza, la verità epistemica. I molti sono il problema che va risolto, naturalmente, eliminandoli e Agostino lo risolve con una preghiera a Dio: “Salvami tu dai molti!”, lo dice chiarissimamente. Quindi, è dai molti che occorre essere salvati, cioè, da ciò che impedisce la verità epistemica, da ciò che la rende impossibile. Dopo che Aristotele ha mostrato chiaramente l’impossibile tanto della logica formale quanto della logica modale, il problema si è fatto pressante e anche importante, tanto che si è dovuto leggerlo unicamente attraverso i neoplatonici. Aristotele ha mostrato l’impossibile del necessario, cioè, non c’è nulla di necessario. Ma, se non c’è nulla di necessario, allora non c’è neanche la verità epistemica perché, per essere tale, occorre che sia necessaria. E come ha fatto Aristotele a mostrare l’impossibile del necessario? Aristotele ha fornito un’argomentazione molto stringente. Se P, una variabile, è necessario è anche possibile perché, se dicessimo che non è possibile, dovremmo dire che P è impossibile, ma abbiamo appena detto che è necessario e, allora, non può accadere questa cosa, quindi, non può non essere possibile. Ma il possibile indica che qualcosa può essere ma anche non essere, perché il possibile indica esattamente questo: ciò che può accadere e ciò che può non accadere. Quindi, nel necessario c’è anche il non possibile che sia. Dunque, il necessario si porta appresso inesorabilmente una autocontraddizione. La questione dell’universale, dei particolari, è la stessa cosa, soltanto riferita alla logica formale. Anche l’universale, essendo i particolari, non può mai essere determinato con certezza, cioè, è autocontraddittorio: l’universale è i particolari. Che è esattamente quello che diceva Aristotele rispetto all’entelechia della δύναμις e dell’ἐνέργεια: nella δύναμις c’è l’ἐνέργεια, e viceversa, cioè, sono la stessa cosa. È questa la questione drammatica di tutto il pensiero occidentale, la cosa che ha poi costretto ad abbandonare Aristotele e prendere solo Platone come riferimento ultimo e prioritario su tutto. Perché in Platone questa cosa non c’è, non esiste; in Platone questo paradosso, questa antinomia, non esiste, perché l’identità, cioè l’universale o la certezza, quindi il necessario, è posto fuori dal linguaggio, quindi non c’è nulla che gli si oppone. Aristotele non lo toglie dal linguaggio e, lasciandolo nel linguaggio, necessariamente giunge a questa conclusione: che ciascuna cosa è quella che è in quanto non lo è. Questa è la differenza fondamentale tra Platone e Aristotele. Quindi, ecco la preghiera di Agostino: “Liberami dai molti”. È importante anche quello che dice subito dopo. Tu resterai, solo, tutto in tutti e senza fine diremo una sola parola, lodandoti in un solo slancio e divenuti anche noi una sola cosa in Te. Signore, unico Dio, Dio Trinità, sappiano esser riconoscenti anche i tuoi per tutto ciò che è tuo di quanto scritto in questi libri. Se in essi c’è del mio, siimi indulgente. Una sola parola. In fondo, Dio è l’unica parola, perché, lui lo dice continuamente, le parole ingannano, si alterano e, quindi, c’è una parola, ma dove la troviamo? Chiaramente, non possiamo aspettarci da Dio che ci dia la parola autentica, ma lui ce lo fa sapere attraverso la parola che abbiamo nel cuore, non ha altro modo di comunicare. Questa preghiera conclude molto bene, esponendo la questione di cui si tratta in tutto il De Trinitate. Perché in tutto il De Trinitate non fa altro che dire che sono tre, ma è Uno. E per potere affermare che sono tre ma uno è necessario che questi tre siano della stessa sostanza, cioè, processioni, uno procede dall’altro: stessa sostanza e non tre dei. Da lì si è avviato tutto il pensiero semiotico della tripartizione, perché è il tre che garantisce che i due elementi, cioè il Padre e il Figlio, non siano la stessa cosa, e cioè che l’universale non sia i particolari, ma sia soltanto l’universale, cosa che lui dice ininterrottamente per tutto il libro: il Padre è il Padre è solo il Padre, il Figlio è solo il Figlio, e così lo Spirito Santo; mantenendo questa netta e irrinunciabile distinzione tra gli elementi come la possibilità della verità epistemica, perché altrimenti non è possibile. Se una cosa è necessariamente ciò che non è, quale verità epistemica posso fondare? Del De Trinitate di Agostino ovviamente abbiamo letto soltanto poche cose, quelle che a noi interessano, e ciò che a noi interessava era esattamente questa cosa sotto forma di preghiera nell’ultima pagina: “Dio salvami dai molti”, per indicare qual è il vero problema. Parmenide, siamo sempre lì: l’uno e i molti. Se l’uno è i molti, come dice Eraclito, ciascuna parola che io formulo, dico, esprimo, enuncio, accenno, è necessariamente autocontraddittoria. Sapete trarne le immediate conseguenze di una cosa del genere, del fatto che ogni parola che dico è autocontraddittoria?

Intervento: Che non si può stabilire un significato.

Sì o, meglio, si possono stabilire tutti i significati che si vuole, ma non quello unico. C’è un capitolo nei dialoghi di Agostino proprio sull’ordine. Forse, un’occhiata può essere utile, perché, in effetti, è l’ordine ciò che consente la computazione, il calcolo, quindi il controllo, il dominio. Se non calcolo, non domino. E qui, ne “L’istruzione Cristiana”, titolo che c’entra poco con quello originale di “De Doctrina Christiana”, fa un lavoro interessante perché affronta anche il problema della dell’interpretazione, perché se il riferimento è la Parola di Dio, allora la Parola di Dio deve essere univoca, cioè, deve mostrare un significato univoco e non plurimo. Ma le parole che utilizzo per interpretare, quelle chi le interpreta? Si rischia di cadere nel cattivo infinito e, quindi, è necessario che ciascuna parola che utilizzo per interpretare un brano della Bibbia sia certa oltre che certificata. E, quindi, abbiamo bisogno di Dio, cioè, di pensare che sia Dio a ispirare la parola vera, autentica. Il problema è sempre lì, cioè anche nel problema della interpretazione della Bibbia vale la preghiera di Agostino, cioè “liberami dai molti”, cioè dalle molte interpretazioni – è poi di questo che si tratta - per giungere a un’unica interpretazione. Infatti, lui lo dice continuamente; c’è, per esempio, quel brano della Bibbia dove dice che Dio ha creato una creatura che è maschio e femmina insieme, praticamente un androgino; oggi direbbero un transessuale. Qui c’era il problema: se Dio ha creato a immagine sua, allora Dio è androgino? Capite immediatamente la drammaticità della cosa e Agostino chiude subito la questione dicendo che va interpretato. Questo per dire come ci siano brani nella Bibbia che assolutamente non concordano con la dottrina cristiana cattolica, quindi, vanno interpretati, ma per interpretarli ci vuole una parola vera, una parola autentica, una parola inequivocabile, che solo Dio può garantire.