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24 luglio 2024

 

Plotino Enneadi

 

La volontà di potenza necessita di una garanzia. Se voglio imporre qualche cosa occorre che in qualche modo garantisca questo qualche cosa. Possiamo intanto dire questo: la necessità che ci sia un qualche cosa di trascendente nel dire ha strettamente a che fare con la necessità di imporlo. Quando si afferma qualche cosa, ciò di cui ci si accorge è che questa cosa che si sta affermando non sta ferma, anche se la affermo non sta ferma, produce altre cose, altri aspetti. È una cosa che si rileva facilmente in alcune situazioni. Quando qualcuno vuole spiegare qualche cosa non riesce mai a spiegare bene, manca sempre qualche cosa e, allora, aggiunge, aggiunge, aggiunge, aggiunge. È il modo in cui gli umani avvertono il problema del linguaggio, cioè, non si riesce mai a concludere una cosa, a dire che è così, perché poi viene in mente un’altra cosa, poi un’altra. Ciascuna volta si rileva che c’è sempre qualche cosa di inadeguato, non si riesce a dire tutto. Questo è il modo in cui gli umani avvertono il problema del linguaggio; non sanno nulla del problema del linguaggio, ma lo avvertono in questo modo. Anche molto banalmente, in una riunione di affari, uno deve convincere quell’altro della bontà del suo prodotto, del suo operato, anche in quel caso, dopo, sicuramente penserà: forse avrei fatto meglio a dire così, forse avrei fatto meglio a non dire questo, ecc.; cioè, questo discorso che lui ha avviato è come se non finisse mai, perché potrebbe andare avanti all’infinito. Questo è il modo, dicevo, in cui gli umani avvertono, senza saperne nulla pur avvertendolo, il problema del linguaggio, cioè di un qualche cosa che non si arresta mai. Si vorrebbe arrestarlo perché arrestare il linguaggio significherebbe finalmente affermare con assoluta certezza come stanno le cose, quindi, avere trovato la verità epistemica e, quindi, poterla imporre su tutti, esattamente come Dio. Ecco che incominciamo a avvicinarci al problema che lei ha posto, cioè a che cosa serve questo Dio, questa garanzia. Serve, lungo questa fantasia, ad assicurare la possibilità di chiudere il discorso. Lo dicevo forse la volta scorsa, è un esempio molto semplice ma abbastanza significativo, e cioè: non so come stanno le cose esattamente, non so se stanno così o se stanno cosà, ma in un modo devono stare. Uno potrebbe chiedere: perché? Perché devono stare in un modo? In effetti, non è stato sempre così. Questo modo di pensare è stato inventato; prima, presso i greci, non c’era questa esigenza - basti pensare a Eraclito, a Parmenide, ad Anassagora, ad Anassimandro -, non pare che ci sia mai la necessità di un assoluto; compare a un certo punto con Platone. Platone ha posto la questione, poi Plotino l’ha istituzionalizzata: la necessità che ci sia un qualche cosa, un riferimento ultimo. In fondo, il discorso di Platone è questo: le cose che vediamo, i sensibili, mutano, cambiano continuamente, non sono mai la stessa cosa, e questo lo si riscontra continuamente; dunque, non abbiamo nessuna garanzia che le cose stiano così, perché cambiano ininterrottamente. Quindi, per potere affermare qualche cosa con certezza, perché lui cercava questa certezza, tanti altri la cercavano, lui ha avuto quest’idea: l’unico modo per affermare qualcosa con certezza è che questa cosa non sia un sensibile, perché, se è un sensibile, è soggetto a qualunque cosa e cambia continuamente. Dunque, non dev’essere un sensibile, deve essere trascendente, qualcosa che va al di là del sensibile. Deve esserci, perché se tutte queste cose cambiano continuamente, un qualche cosa permane. Per esempio, il libro: possono essercene miliardi, e di fatto ci sono, diversi per la forma, per il contenuto, per la copertina, per quello che c’è scritto dentro, però l’idea di libro, quella permane. Quindi, dice Platone, da qualche parte questa idea c’è, ed è quella che consente di riconoscere questo aggeggio qui come libro, perché c’è l’idea del libro. Qualcuno potrebbe chiedere da dove viene questa idea, come te la sei fatta? Platone risponde: questa idea non appartiene agli umani, ma sta lassù, nell’iperuranio. Come dire che, a questo punto, sappiamo che i sensibili cambiano continuamente, quindi non possiamo affidarci ai sensibili, e allora dobbiamo necessariamente affidarci a qualcosa di trascendente. Che è quello che poi consente l’esistenza dei sensibili. Per Platone, le cose che vediamo, i sensibili, ecc., sono delle cose di second’ordine perché, appunto, mutevoli, transeunti, di second’ordine rispetto all’idea che è lassù e che, invece, è immutabile. Ed è immutabile perché non è un sensibile; potremmo dire, è immutabile perché fuori del linguaggio. Solo così è possibile pensare a qualcosa di immutabile, perché se è nel linguaggio è necessariamente in relazione a qualche cosa e, quindi, già è mutato. Ecco, allora, che incomincia la necessità di avere un qualche cosa di immobile, di identico a sé, che non cambia mai. L’idea del libro è l’idea del libro, che non cambia, l’idea quella è e quella rimane. Come dire in altri termini ancora, che la verità non può appartenere ai sensibili, perché sappiamo che si modificano incessantemente; quindi, se c’è una verità, e c’è perché tutti la cercano, quindi vuole dire che hanno l’idea della verità, questa verità deve esserci da qualche parte, immutabile, eterna. Lassù è l’unico luogo dove la verità può starsene tranquilla, senza essere offesa dall’alterità, da modificazioni. Ora, questa idea che è venuta a Platone e a nessun altro prima di lui, almeno non in questi termini, ha dato l’avvio a un pensiero che, torno a dire, non esisteva prima di Platone, quantomeno non in quel modo, che una verità debba esserci necessariamente, ma non può appartenere a questo mondo. Deve esserci, perché tutti la cercano e tutti si riferiscono a questa verità, che è un’idea, ma non è di questo mondo, perché tutto ciò che in questo mondo è sensibile e, quindi, è in continua modificazione, si altera. Se, invece, è lassù, rimane identico a sé. Questa è la prima cosa che si richiede a un’ipostasi: di essere identica a sé.

Intervento: Come si può credere a una cosa del genere?

Il discorso che fa Platone è per un verso molto semplice, perché alla domanda “come faccio a crederci?” lui obietterebbe “come faccio a non crederci?”, tutti pensano alla verità, tutti utilizzano la verità, nessuno sa che cos’è esattamente, perché ciascuno la attribuisce a un sensibile, ma questa idea tutti ce l’hanno, quindi da qualche parte ci deve essere.

Intervento: Non è detto.

No, ma il discorso che fa lui è questo: da qualche parte ci deve essere, perché se non avessi l’idea del libro io non riconoscerei questo aggeggio qui come libro, non saprei che cos’è. Come faccio a dire che è un libro? Perché c’è un’idea di libro. E quest’idea da dove mi viene? Wittgenstein risponderebbe: l’ho imparato. Certo, è il modo più semplice, ma per Platone la posta in gioco era più alta, ed era più alta perché lui pensava, attraverso la dialettica, di cogliere l’ente per quello che è. Naturalmente, cogliere l’ente per quello che è significa riferire questo ente a un’idea, perché sennò, se è un sensibile, non lo coglierò mai per quello che è, perché cambia interrottamente. Però, dice Platone, qualche cosa di fermo, di sicuro, ci deve essere, sennò non riusciremmo neanche a parlare, perché ogni cosa cambierebbe continuamente, non avremmo mai nessun riferimento fisso, stabile. Poi, su questo grosso modo verteva anche la sua disputa con i sofisti, che invece negavano questo, ovviamente. Infatti, lui non riesce a vincere i sofisti, perché i sofisti comunque gli mettono di fronte sempre l’alterità. Però, il successo del platonismo, e poi del neoplatonismo, risiede in buona parte nell’avere lasciato intendere la possibilità che ci sia un riferimento fisso, stabile, a cui potersi richiamare quando si afferma qualcosa. Per i sofisti questo non c’era e, infatti, loro giocavano con il linguaggio, ma non potevano affermare nulla con certezza; loro stessi negavano la possibilità di fare questo. È come se Platone, anche senza saperlo, perché non poteva sapere della volontà di potenza, avesse intuito, avvertito che è questo che gli umani vogliono, cercano: l’idea che ci sia una garanzia a quello che si dice, per cui se affermo una certa cosa, questa cosa è vera, o magari è falsa, ma se è falsa è perché un’altra è vera. C’è la verità. Se c’è la verità, allora posso pensare di possederla e quindi di imporla. Ecco il marchingegno che ha fatto sì che il platonismo, trasformatosi poi in neoplatonismo, abbia avuto e abbia ancora oggi così tanto successo. Tutti, parlando, è come se facessero sempre riferimento a una verità, sempre, necessariamente. Ora, potremmo anche dire che questo è inevitabile. Che cosa è inevitabile? Che parlando si utilizzino degli universali. Questo Aristotele ce l’ha spiegato per benino nei Secondi Analitici. Parliamo attraverso universali, perché l’universale è quella cosa che sta al posto di Dio, in fondo, è quello che è identico a sé e non muta, ed è eterno perché è sempre così. L’universale è quella affermazione che rimane la stessa, rimane sempre vera. Tutti gli animali sono mortali: sì, per quanto ne sappiamo, è sempre stata vera. Chiaramente, il problema che Aristotele solleva è che questo universale, che è posto necessariamente come una verità epistemica, è costruito attraverso l’induzione, cioè, attraverso l’analogia, è quindi costruito da tanti particolari. E questi tanti particolari quanti sono? E, poi, quali scelgo? Perché scelgo questi e non quegli altri? Come dire che questo universale è un costrutto, è una mia invenzione: non è un’ipostasi. E questo è importantissimo in Aristotele. Questa è la differenza abissale che c’è tra il discorso di Aristotele e quello di Platone e, soprattutto, poi, di Plotino. Plotino compie questa operazione, che era già in nuce in Platone, ma Plotino trasforma l’universale in ipostasi. Che cos’è l’ipostasi? È quell’elemento che è pensato fuori del linguaggio. Come fa Plotino a compiere questa operazione? Intanto, bisogna dire che ponendo l’universale come ipostasi si offre ai parlanti quella certezza che andavano cercando e che Platone ha incominciato a porre: c’è una verità lassù, non si sa bene quale ma c’è. Plotino costruisce una cosa formidabile per mostrare che cosa? Che esiste l’Uno, cioè, esiste il Bene assoluto, cioè la verità assoluta, dalla quale poi procedono tutte le altre cose, ma questa verità c’è necessariamente. Qual è il discorso che fa Plotino rispetto a Platone? Mentre Platone sostiene le cose che dice, un po’ utilizzando i miti, un po’ imponendole, così come racconti, un po’ come quando racconta dei miti, delle anime che vanno su col cocchio, e poi si scontrano, si rompono le ali e cascano di sotto. La differenza tra Platone e Plotino è che comunque Platone non pone come un’ipostasi quest’idea, questa verità che sta lassù; quindi, è qualche cosa ancora di argomentato, di argomentabile, insomma, non è così certo; anche se lui vuole farla passare come certezza, però, se si basa sui miti, lui stesso si accorge che, insomma, sì, dovrebbe essere così, però, vediamo. Invece, Plotino fa il passo successivo e dice: tutte le cose tendono a unificarsi e lo vediamo con la conoscenza, perché per conoscere qualche cosa dobbiamo unificare. Cos’è questo unificare? Tendere verso il bene – bene nella accezione più ampia – cioè, tendere verso qualche cosa che è superiore. Se unifico, l’unità che ottengo è superiore ai particolari, dice Plotino. È un po’ come l’idea dell’universale rispetto al particolare: l’universale sarebbe superiore a tutti i particolari. Quindi, questo processo di unificazione è qualche cosa che tende verso il bene, nel senso che tende a un qualche cosa che è migliore di tutti i particolari che l’hanno costruito. Ma questo bene – e qui riprende Platone, naturalmente – questo bene è un’idea. Ma questa idea da dove arriva? Perché abbiamo questa idea? Abbiamo questa idea perché noi veniamo da questo Uno: noi, per processione siamo stati pensati dall’Uno ed esistiamo perché questo Uno ci ha fatti esistere. Come sappiamo questo? Lo sappiamo perché tendiamo sempre a unificare, tendiamo sempre all’uno senza raggiungerlo, ma vi tendiamo sempre. Noi possiamo conoscere le cose sempre unificandole, sennò non le conosciamo e, quindi, questo unificare è bene perché ci consente la conoscenza. Ma questo bene allude a un bene ancora superiore, un bene che non è modificato né modificabile da altro, perché se fosse modificato o modificabile non sarebbe propriamente un bene, sarebbe un bene passeggero. Ma se questo bene, invece, lo pongo come ipostasi, cioè come qualcosa che è quello che è per virtù propria, ecco che allora questo uno diventa quell’elemento, secondo Plotino, che è sempre mancato agli umani. Hanno sempre teso verso questo uno, in fondo, la verità, il bene, sono sempre stati indirizzati verso il bene. E lui giustifica anche questa cosa e si chiede: perché? Perché se veniamo dall’uno è rimasto il ricordo del bene assoluto, della verità assoluta, alla quale cosa si vuole di nuovo tornare. Per qualche motivo l’abbiamo abbandonata, ma vogliamo tornare, perché lì è il bene assoluto, che poi è diventato il paradiso per i cristiani. La questione della garanzia? Qui la garanzia diventa un problema, nel senso che è difficile provarla, dimostrarla. Certo, è utilissima la garanzia, perché è quella cosa che consente di pensarmi sempre dalla parte del bene, del giusto. Ma come lo dimostro? Come lo trovo? Qui Plotino compie un’operazione che poi si protrarrà per tutto il Medioevo e arrivata fino ad oggi: non lo posso dimostrare. Su questo si baserà anche Agostino: non lo posso dimostrare, lo devo sentire. In questo modo lui ha aggirato tutto il problema dell’argomentazione, della dimostrazione, anzi, se io chiedo una dimostrazione è perché, Agostino direbbe, Dio non mi ha dato la grazia. Plotino direbbe perché non mi apro al pensiero dell’Uno, quindi non posso sentirlo perché, di volta in volta, sono distratto dai sensibili. Ecco il modo in cui Plotino “dimostra”, tra virgolette perché non è una dimostrazione, ovviamente; ma è il modo che lui utilizza per cercare di convincere le persone che l’Uno è ciò che gli umani hanno sempre cercato, senza trovarlo, perché non si può trovare, perché non possiamo diventare Dio, ci possiamo avvicinare. Qui intervengono gli gnostici, i quali, invece, non erano tanto soddisfatti da questa cosa. Possiamo avvicinarci, ma senza mai diventare Dio, diceva Plotino; no, gli gnostici dicono “io voglio diventare Dio, io sono Dio” e, quindi, hanno posto la conoscenza al di sopra di ogni cosa, come il percorso per arrivare a essere Dio. Nel 1945-’46 a Nag Hammadi nel deserto, dentro una grotta sono stati trovati alcuni testi scritti in lingua copta; tra questi ce n’era uno in buono stato di conservazione, noto come Pistis Sophia. Pistis è la fede, Sophia è la conoscenza, quindi, una fede nella conoscenza. È esattamente la stessa cosa ripresa dall’Illuminismo: togliamo di mezzo Dio, perché Dio richiede una fede assoluta che non vogliamo concedere; e, allora, a che cosa diamo la nostra fiducia? Alla ragione, alla Sophia, quindi, una fede nella ragione. E, in effetti, l’Illuminismo sorge nel momento in cui, dopo il Rinascimento, quindi, dopo Ficino, Campanella, Cusano, c’è un forte ritorno del neoplatonismo. Questo neoplatonismo si porta con sé il rifiuto della fede in Dio, però trasformandosi immediatamente in gnosticismo. Ricordate il motto degli gnostici: sarete come dèi. Questa cosa non c’è nel neoplatonismo perché non sarete mai come dèi, perché non sarete mai l’Uno, l’Uno non potete neanche pensarlo. L’Uno, infatti, non si può né pensare né immaginare né concepire, non si può fare niente. Questa era la teologia negativa o apofatica, come la chiamavano: di Dio non si può dire qualcosa di positivo, perché qualunque attributo io gli fornisca lo sminuisce, perché attribuisco qualche cosa di umano, di sensibile, a un’entità che invece è al di sopra di tutto; quindi, posso avvicinarmi a lui soltanto dicendo ciò che lui non è. Il problema è che dicendo che non è questo, non è questo, alla fine non rimane nulla. E, infatti, hanno accostato Dio al nulla. Lo stesso Plotino lo dice rispetto all’Uno: è nulla, ma ciò nonostante è tutto. Ecco, quindi, il motivo del grande successo del neoplatonismo, che fornisce la possibilità di dire la verità assoluta, immaginando che ci sia, che esista la verità epistemica, quella che Aristotele negli Analitici Secondi giunge a considerare che non esiste, non è mai esistita e non potrà esistere mai, perché qualunque universale è fatto di induzione, è fatto di doxa. E, quindi, la verità epistemica non esiste, così come non esiste Dio per lo stesso motivo, allo stesso modo; è un’invenzione che, però, è straordinariamente funzionale alla volontà di potenza. C’è una verità assoluta perché c’è, come dice Plotino. Non posso dimostrarlo, ma posso sentirlo: se mi avvicino all’Uno, a Dio, lo sento; quindi, percepisco questa verità assoluta, percepisco soprattutto che c’è. È questa la cosa importante: sapere e potere affermare che c’è, non sapere che cosa è, ma sapere che c’è. Che è esattamente ciò che negavano i sofisti. È per questo che Platone ce l’aveva con i sofisti. Se c’è, allora è possibile affermarla e, quindi, è possibile dominare. Con i discorsi che facevano i sofisti non era possibile dominare niente, anzi, mettevano in evidenza l’impossibilità del linguaggio di affermare qualcosa con certezza; e per dominare io devo esibire una certezza, sennò non convinco nessuno. Ecco perché ha avuto tanto successo, mentre i presocratici no, non hanno avuto nessun successo, i sofisti meno che mai, perché quello che affermavano era proprio l’opposto dell’ipostasi: se ogni cosa è nel linguaggio non può essere ipostatizzato, perché se è ipostasi è fuori dal linguaggio e fuori dal linguaggio non sappiamo niente. Ecco, quindi, per rispondere alla sua questione, che è importante perché su questo verte in fondo tutto il pensiero occidentale. Ciò che stiamo facendo ultimamente è raccontare questa storia incredibile del pensiero occidentale, da Platone in poi, e di come questo pensiero, che oggi ci appare naturale e scontato. non è né naturale né ovvio né scontato, è stato inventato da Platone prima e da Plotino dopo, è un’invenzione. Così come dire “una verità ci deve essere”.

Intervento: Non possiamo farne a meno…

 No, non possiamo farne a meno, per due motivi, almeno. Il primo riguarda la volontà di potenza, perché senza la verità io non posso dominare nessuno; il secondo, invece, è un motivo diciamo teoretico, e cioè per conoscere qualunque cosa, e quindi per dominare, perché la conoscenza è dominio, devo comunque unificare, devo cioè riportare i particolari all’universale, sapendo tuttavia che questo universale non può essere una verità epistemica in nessun modo. Ma non posso non utilizzarlo, così come non posso non affermare delle cose mentre parlo, come sto facendo in questo istante: affermo cose, non posso non farlo se parlo. E qui, però, sta la differenza: sapere ciò che si sta facendo oppure no. Cambia tutto, perché noi, certo, utilizziamo gli universali, ma non come ipostasi. Certo, come forma sono delle ipostasi, nel senso che sono poste in quel modo, immaginate per quello che sono: quando dico qualche cosa io immagino, voglio che quella cosa che affermo sia la stessa anche dopo cinque minuti. Devo pensare che permanga come una ipostasi, pur sapendo che non lo è. Cos’è che cambia a questo punto? Cambia radicalmente l’approccio alle cose, alle questioni, quindi alle cose, quindi alle parole. Io mi approccio alle cose, quindi alle parole, sapendo che questo approccio avrà come risultato la produzione di altre parole; mentre nel luogo comune o nel pensiero religioso questo approccio ha come obiettivo lo stabilire come stanno le cose, invece, nel caso in cui noi ci troviamo questo approccio alle cose, quindi alle parole, è soltanto l’occasione per produrre altre parole, quindi altre cose da pensare, altre cose su cui riflettere, su cui lavorare.

Intervento: Però, anche noi l’abbiamo ancora questa necessità.

Questa necessità è una necessità posta dal linguaggio stesso. Proviamo a precisare questa cosa che lei sta dicendo, che è importantissima. In ambito teoretico noi rileviamo che ciascun atto di parola si dice; dicendosi, si porta appresso il significato, sennò non sarebbe una parola, sarebbe un rumore. Dico Cesare, ma detto così non è che significhi granché, perché posso intendere con Cesare lei che è qui di fronte, posso intendere il conquistatore delle Gallie o qualcuno che ha conosciuto trent’anni fa. Cesare da solo, cioè come uno, non sta, nel senso che, se io dico Cesare, questo dire Cesare ha un senso, ha un significato. Il senso possiamo intenderlo letteralmente come la direzione verso il rinvio. A cosa mi rinvia questa parola Cesare? Perché deve avere un rinvio, sennò non significa niente. Quindi, Cesare, per me, è una serie di determinazioni: un amico, un uomo che sta qui di fronte, che ha fatto con me un percorso, tante cose, tante determinazioni. Ora, queste determinazioni per me sono Cesare, perché Cesare in quanto tale, senza determinazioni, è nulla. Cesare è l’uno, i molti sono le sue determinazioni. Quindi, ci troviamo di fronte all’uno, che non possiamo evitare, perché dicendo, ciò che accade immediatamente è la presenza dell’uno, del significante, il quale però non esiste senza significato, senza determinazioni. Quindi, c’è l’uno nel dire, c’è necessariamente; sarebbe l’in sé per Hegel, mentre i molti sarebbero il per sé, cioè, la determinazione dell’uno fa diventare l’uno, cioè l’in sé, effettivamente in sé, lo riconduce all’uno. Questo è il motivo per cui Beierwaltes attribuisce ancora ad Hegel una sorta di neoplatonismo e, come ho forse già detto, non ha neanche tutti i torti. Questo non toglie nulla al merito di Hegel, naturalmente, però, pone una questione che merita di essere considerata. Ma al di là di questo, dunque, parlando c’è uno, il significante, la parola che si dice, “Cesare”, che è quella. Ma questo uno non è niente senza le determinazioni. E quando io dico Cesare, dicendo Cesare, molte di queste determinazioni appaiono simultaneamente, perché sono quelle cose che chiamiamo fantasie, sono la mia idea di Cesare, che non sta lassù, naturalmente; l’idea di Cesare è fatta di determinazioni, ma queste determinazioni per me sono Cesare. Però, questo comporta un problema, come dire che i molti, cioè le determinazioni, sono l’uno. Eraclito lo aveva inteso: ἒν πάντα εἰναι, l’uno è tutte le cose. Aristotele nelle Categorie riprende la questione: la sostanza, l’uno, è ciò che se ne dice, cioè, è tutte queste altre cose, l’uno è i molti. Ora, detto questo, abbiamo detto una cosa importante, cioè che l’uno è necessariamente i molti, perché le determinazioni di Cesare per me sono Cesare. Se mi chiedessero che cos’è Cesare, io direi tutte le determinazioni, non posso fare altro. Quindi c’è l’uno, cioè Cesare, ma questo uno non può andare in nessun modo senza le sue determinazioni, che sono l’uno, cioè, i molti sono l’uno. Questi molti non ci sono senza l’uno, perché questi molti sono la determinazione di Cesare. Ecco, allora, che in ciascun atto di parola c’è un uno ma ci sono anche molti. E qui sta il problema grandissimo, perché da allora, dai presocratici in poi, e in buona parte – lo vedremo poi leggendo Porfirio – con Aristotele, tutto il pensiero non ha fatto altro che tentare disperatamente di separare l’uno dai molti, perché se l’uno è i molti accadono problemi devastanti: non c’è più la possibilità dell’inferenza; cioè, c’è l’inferenza, ovviamente, ma non può più garantire niente; perché se io dico “se A allora B”, se questo A non è A ma anche non-A, e B non è solo B ma è anche non-B necessariamente, allora dire che “se A allora B” significa molto poco, e soprattutto non c’è nessuna garanzia che questa appartenenza, questa inerenza, sia valida, vera. Capisce che, se mettiamo in discussione la validità stessa dell’inferenza, diventa un problema parlare: che cosa stiamo dicendo, cosa affermiamo? Aristotele lo aveva intuito, quando introduce quella parola greca, ύμάρχειν, che, se si va a vedere l’etimo, il significato più antico è proprio comando. Non c’è nessuna possibilità di stabilire una connessione, una inerenza, una appartenenza, non c’è, devo imporla: tu A sarai B. Perché? Perché ho deciso così. L’unica “validità” tra virgolette a questo punto ché è una validità particolare, che può avere l’inferenza è il fatto che io imponga che questa inferenza sia quella che è, cioè, che sia vera, sennò non c’è. La stessa cosa avviene ed è avvenuta e continua ad avvenire in ambito scientifico, matematico soprattutto. Abbiamo parlato spesso della teoria dei limiti. Se io dico che qualcosa tende a qualche cos’altro, come nella teoria dei limiti… per esempio posso dire che nel limite per x che tende a 1, x diventa 1. Come diventa 1? Perché? Se tende a 1 non è mai 1. Ma io faccio come se fosse 1, compiendo un inganno, naturalmente. Quindi, potremmo dire tranquillamente che tutta la matematica è fondata su un inganno. Ma anche tutto il pensiero è fondato sullo stesso inganno, e cioè sulla fiducia, sulla fede nel sapere, di un sapere che è come se fosse autogarantito. È la ragione. Nella iconografia rinascimentale compare ogni tanto la dea ragione. È una dea perché è stata messa al posto di Dio, e ha la stessa funzione di garantire che ci sia la verità, e cioè che l’inferenza dica la verità. Se A allora B vuole dire che se c’è una A allora c’è una B. Per Aristotele non era proprio così. Sì, lo dico, certo, ma è perché lo impongo io. In effetti, tutto sta in questo aspetto particolare, teoretico, dell’uno e dei molti. Cesare è uno ma non esiste senza i molti, senza i molti non c’è nessun Cesare. Quindi, l’uno è i molti, come esattamente diceva Eraclito. I molti sono l’uno per forza, perché sono il significato dell’uno, che non può stare senza di loro. Ciascuno dei due si co-appartiene, direbbe Heidegger, cioè, se tolgo uno tolgo anche l’altro, se tolgo l’uno scompaiono i molti, se tolgo i molti scompare uno. E questo, in effetti, è ciò che chiamiamo il problema del linguaggio, che non ha una soluzione, perché non esiste una soluzione, perché il linguaggio è così per potere funzionare. Perché qualcosa mi appaia in quanto qualcosa, occorre che ci sia questa distanza tra l’uno e i molti, cioè che ci sia l’uno e che ci siano i molti, sennò non mi appare niente, sarei come un bruco, al quale non appare il prato, non gli appare niente, perché non può apparire. Perché qualcosa possa apparire – su questo Heidegger ha insistito molto e aveva ragione – perché qualcosa sia qualcosa, occorre questa distanza, distanza tra l’uno e i molti, o tra l’uno e il due, è la stessa cosa. È questa la storia che dovremmo raccontare, una storia incredibile, straordinaria, una storia che mostra come ciò che riteniamo normale, naturale, ecc., sia un’invenzione, un’invenzione avvenuta più o meno venti secoli fa.