INDIETRO

 

 

24 luglio 2019

 

Fenomenologia dello spirito di G.W.F. Hegel

 

Prima di iniziare volevo dire di una questione: quando si cerca qualche cosa o, come si suole dire, si desidera una certa cosa, accade che questa cosa che si desidera sia quella che è in virtù di un’altra cosa, è sempre in virtù di altro, perché questo è il funzionamento del linguaggio. Quindi, qualunque cosa io desideri, voglia, attenda, ecc., questa cosa mi rinvierà sempre a un’altra. Da qui l’idea che il desiderio sia senza fine. Non è che il desiderio non abbia l’oggetto, che sarebbe una contraddizione in termini, ma questa cosa che il desiderio desidera si mostra in quanto rinviante ad altro, per cui si sposta letteralmente su un’altra cosa. Ora, invece, se l’oggetto dell’interesse fosse il linguaggio, allora che succederebbe? Questo oggetto, a che cosa rinvierebbe? Rinvierebbe a se stesso. Rinviando a se stesso non avrebbe più bisogno di andare a cercare altre cose, perché è arrivato là dove è sempre stato. Come dire che, occupandosi del linguaggio, cioè, ponendo il linguaggio come oggetto della ricerca, dell’interesse, ecc., a questo punto il desiderio non ha più la necessità di cercare altre cose, perché si è attestato a questo punto su se stesso, e non c’è altro fuori da se stesso. Il linguaggio non può rinviare a un’altra cosa che non sia linguaggio e, quindi, ritorna sempre su se stesso. Se io mi occupo del linguaggio, l’oggetto rimane il linguaggio, nelle sue infinite varianti.

Intervento: Allora occorre togliere l’oggetto?

No, non è che tolgo l’oggetto. Sto dicendo che l’unica ricerca, dalla quale si possa trarre soddisfazione, è la ricerca intorno al linguaggio. Il desiderio cerca la soddisfazione nel suo raggiungimento, cioè nel raggiungere il suo oggetto, ma sappiamo che questo oggetto del desiderio è quello che è in virtù di altro e, quindi, devo spostarmi su altro: la soddisfazione è sempre rinviata ad altro. Nel caso del linguaggio la soddisfazione è raggiunta in quanto il linguaggio non può che lavorare su se stesso. Quindi, è ciò che non illude, è ciò che non tradisce, perché si è sempre lì e, quindi, la soddisfazione è in un certo senso sempre garantita, perché questo lavoro sul linguaggio non rinvia ad altro che non sia linguaggio. Detto questo, vediamo di concludere il capitolo. Siamo a pag. 105. Con ciò… Il “ciò” sarebbe il fatto che c’è questo movimento tra l’in sé e il per sé, per cui l’oggetto in quanto tale perde la sua essenzialità. Con ciò l’oggetto è tolto nelle sue determinatezze o nelle determinatezze che dovevano costituire la sua essenza… In questo movimento l’oggetto non è più essenziale. Prima era l’Io, e poi l’Io è diventato inessenziale in quanto soggettivo; ma anche l’oggetto, perché l’oggetto è quello che è rispetto a un qui e a un ora, ma abbiamo visto che il qui e l’ora, che fanno dell’oggetto quello che è, sono propriamente indeterminabili e, quindi, anche l’oggetto diventa inessenziale. Punto 41. Dunque la singolarità sensibile… La singolarità sensibile è ciò che mi appare nell’immediato. …dilegua bensì nel movimento dialettico della certezza immediata, e diviene universalità, ma universalità soltanto sensibile. Qualche cosa mi diviene sensibile nel momento in questo qualcosa mi diventa un significato. L’opinare è dileguato, e il percepire prende l’oggetto com’esso è in sé o come Universale in generale; in esso, quindi, la singolarità sorge come singolarità vera, come esse-in-sé dell’uno, o come esser-riflesso in se stesso. Soltanto quando c’è questo riflettersi su sé allora l’in sé diventa il sé. Ma si tratta ancora di un esser-per-sé condizionato, accanto al quale viene a trovarsi un altro esser-per-sé, cioè l’universalità che, opposta alla singolarità, è da questa condizionata. Quindi, abbiamo la singolarità dell’oggetto della percezione, ma l’universalità, cioè il significato, che ci consente di sapere che questo qualcosa è qualcosa. Siamo sempre alla questione di Parmenide: l’uno e i molti. La singolarità, per cui questa cosa mi si presenta come uno, ma, per il solo fatto di percepirla, non è più uno, perché per percepirla deve essere posta come un universale, come un significato, e in quanto significato non è già più uno ma una moltitudine. Questi due estremi… La singolarità e l’universalità. … che si contraddicono, non stanno soltanto l’uno accanto all’altro, ma sono in un’unità; o, il che è lo stesso, ciò che quei due hanno a comune, l’esser-per-sé, è affetto dall’opposizione in generale, ossia neppure è un esser-per-sé. Non è un esser-per-sé perché è anche un singolare, è universale ma anche singolare. Ci sono queste due cose che sono simultanee. La sofisticheria del percepire cerca di salvare questi momenti dalla loro contraddizione e di tenerli fissi mediante la distinzione dei riguardi, mediante l’anche e l’in quanto; così come cerca infine di cogliere il vero mediante la distinzione dell’inessenziale e di un’essenza a questo opposta. Da sempre gli umani cercano l’essenziale, che cosa è proprio di una certa cosa, eliminando l’inessenziale, cioè tutto ciò che non è proprio di questa cosa deve essere tolto: per esempio, ciò che io penso di questa cosa deve essere cancellato. Solo, tali espedienti, anziché tenere in scacco l’illusione possibile nell’assumere, si dimostrano essi stessi nulli; e il vero, che deve venir guadagnato con questa logica della percezione, dimostra, sotto un medesimo e identico riguardo, di essere il contrario, e di aver quindi a propria essenza l’universalità priva di distinzioni e di determinazioni. Questa operazione non riesce perché a questo punto, se tengo distinto l’universale dal singolare, perdo le determinazioni particolari; però, se mi appunto sul singolare mi perdo l’universalità. Queste vuote astrazioni della singolarità e della ad essa opposta universalità… Questo accade se si vogliono tenere separate, astratte, direbbe Severino. …così come dell’essenza che è congiunta con un inessenziale, di un inessenziale che è nello stesso tempo tuttavia necessario, sono le potenze nel gioco delle quali consiste l’intelletto percettivo, non di rado chiamato il sano intelletto umano o buon senso; esso, che si spaccia per una solida e reale coscienza, è, nel percepire, soltanto il gioco di queste astrazioni; e laddove esso opina di trovarsi nella condizione più ricca, trovasi invece nella più povera. Sbattuto qua e là da queste essenze nulle, dall’una vien gettato nelle braccia dell’altra; con la sua sofisticheria esso si dà cura di tener saldo e di affermare ora l’uno, ora proprio l’altro opposto; ma così si mette contro la verità, e la sua opinione della filosofia consiste nel credere ch’essa abbia a che fare soltanto con enti di ragione. In effetti la filosofia ha anche a che fare con simili enti, e li riconosce per le pure essenze, per gli elementi e le potenze assolute; ma così essa li conosce in pari tempo nella loro determinatezza e, quindi, li domina;… Non li conosce soltanto in quanto significati universali, generali, ma anche nella determinazione particolare, singolare e universale. …l’intelletto percettivo li prende invece per il vero, e da essi vien gettato da un errore nell’altro. Sia che si appunti su una cosa, sia che si appunti sull’altra, comunque perde di vista il vero; il vero non è altro che la sintesi, l’accadere di queste due cose simultaneamente. Che poi non sono altro che il mio dire e il ciò che dico. Le due cose sono sempre queste: il mio dire è il singolare, perché io dico una cosa, ben precisa; il ciò di cui dico è l’universale, perché si riferisce a cose che, per essere cose, devono essere significati. Quindi, questo singolare, il mio dire, viene affetto dall’universale, ma questo universale affetta il singolare, perché, una volta che questo significato si è posto, modifica anche la singolarità. Quest’intelletto non giunge alla consapevolezza che tali essenze semplici sono quelle che dominano in lui, anzi opina di avere sempre a che fare con un contenuto e con una materia compatti, così come la certezza sensibile non sa che la vuota astrazione del puro essere è la sua propria essenza;… La vuota astrazione del puro essere, cioè, l’essere è nulla. Vedete da dove arriva Heidegger. L’essere è nulla, è vuoto, perché non c’è materia, non c’è sostanza, è la condizione perché ci sia qualche cosa, come un universale; l’universale è vuoto in sé, non definisce nessuna cosa. Ha la necessità che ci sia la singolarità, e la singolarità ha la necessità che ci sia l’universalità, sennò è singolarità di che? …esse sono l’intelaiatura e la potenza dominatrice dell’intelletto medesimo; sono soltanto ciò che è il sensibile come essenza per la coscienza, ciò che determina le relazioni della coscienza con il sensibile e ciò in cui decorre il movimento del percepire e del suo vero. Continua a insistere sulla necessità di questo movimento. Sta dicendo che la singolarità senza la universalità è niente, così come l’universalità, senza una singolarità, è vuota, è senza contenuto, non è determinata da alcunché. Tale decorso, - determinazione del vero e toglimento di questo determinare, ininterrottamente alternati, - … Quindi, determino il vero, determino che cos’è questo; ma questa determinazione viene tolta, viene tolta nel senso che questa determinazione si mostra falsa, si mostra non il vero, perché contiene il suo opposto e, quindi, deve essere tolta. Mi trovo, quindi, a dovere determinare e a dovere togliere questa determinazione, e avere a questo punto una sintesi, nel senso che né la singolarità né l’universalità, da sole, possono sussistere. Tale decorso … costituisce propriamente la vita di tutti i giorni e il costante lavorio della coscienza percettiva, la quale opina di muoversi nella verità. Qui la coscienza non fa che procedere senza posa verso il resultato onde tutte queste verità o determinazioni essenziali vengono egualmente tolte;… Qui fa un discorso intorno alla chiacchiera, dove vengono, sì, tolte, volta per volta o la singolarità o l’universalità, ma a vantaggio ora dell’una ora dell’altra; non viene superata in una sintesi, non viene conservata, non permane l’una cosa o l’altra. …tuttavia in ogni singolo momento essa è consapevole di quest’una determinatezza come del vero; quindi, di nuovo, dell’opposta. Questo è vero, questo è falso. In qualche modo la coscienza sospetta la loro inessenzialità;… Che, cioè, sia la singolarità, sia l’universalità, prese per sé, siano inessenziali. Questo perché non bastano da sole, devono essere insieme. Ma, per salvarle dall’imminente pericolo, si mette a sofisticare; e ciò che testé essa stessa affermava come il non vero, ora afferma come il vero. Mentre propriamente la natura di queste essenze non vere vuole spingere l’intelletto a raccogliere insieme, e quindi a togliere, i pensieri di quella universalità e singolarità, dell’anche e dell’uno, di quella essenzialità che è necessariamente congiunta con una inessenzialità e di un inessenziale che per altro è necessario, - pensieri di inessenze, - contro ciò l’intelletto recalcitra e si aiuta con i puntelli dell’in quanto e dei diversi riguardi, o col prendere su di sé l’un pensiero per mantenere l’altro separato e come vero. Ma è in sé e per sé la natura di queste astrazioni, quella che le raccoglie insieme; il buon senso è preda di loro che lo travolgono nel loro gorgo. In questa sorta di circolo ermeneutico. Se io non vedo che l’essenziale sta nel cogliere questo movimento, sono preso e sballottato ora da un vero, ora da un altro, a seconda di quello che mi passa per la testa. Esso vorrebbe conferir loro il carattere della verità, ora prendendo su di sé la loro non-verità, chiamando ora l’illusione una parvenza di cose infide e separando l’essenziale da ciò che a loro è necessario, e che pur deve essere inessenziale, e mantenendo quello, come lor verità, contro questo; - mentre così l’intelletto vuol conferir verità a quelle astrazioni, ad esse non mantiene la loro verità, ma a se stesso dà la non-verità. Sempre nel voler mantenere distinti questi due aspetti manco la verità, dice Hegel, ma che cosa significa questo? È il discorso che faceva anche Severino: volendo tener distinte, quindi astratte, perdo il concreto, cioè, non tengo conto del modo in cui la cosa mi appare e l’intero mondo all’interno del quale questa cosa mi appare. È come se volessi sceverare, distinguere ciò che mi appare dal mondo, ma se io tolgo il mondo, che è la condizione attraverso la quale mi appare ciò che mi appare, scompare anche quella cosa. È questa la tragedia del pensiero occidentale. Se tolgo tutto ciò che costituisce la condizione perché qualche cosa mi appaia, cosa mi appare a questo punto? Qualcosa che risulta inessenziale. Qui ci ricolleghiamo al discorso di prima, al fatto che il mio desiderio è rinviato a un’altra cosa, perché questa risulta inessenziale e, quindi, cerco qualcosa di essenziale, ma trovo un altro inessenziale, e così via all’infinito. Perché il linguaggio risulta, invece, essenziale? Perché è nel linguaggio che tutte queste cose trovano la loro collocazione. Il linguaggio come l’intero; intero senza il quale tutte queste cose non esisterebbero. È un altro modo di formulare la cosa che diciamo da sempre: qualunque cosa è qualcosa perché è nel linguaggio; quindi, non c’è modo di astrarla dal linguaggio. Questa è l’operazione che si tenta sempre di fare: astrarre qualcosa dal linguaggio; e, allora, scatta, Hegel lo dice, l’illusione che qualcosa che è strutturalmente inessenziale sia invece l’essenziale, ma non può essere essenziale; per essere essenziale occorre che abbia superato queste astrazioni. Abbiamo finito il secondo capitolo; il prossimo, il terzo, si chiama Forza e intelletto, fenomeno e mondo ultrasensibile. Però, è importante che rimanga ben chiaro ciò che ha detto fino a questo punto perché è proprio la base, la base su cui si muove tutta la Fenomenologia dello spirito, anche quando parlerà della dialettica servo-padrone. Dice che il servo si libera del padrone attraverso il suo lavoro, perché il suo lavoro modifica le cose; mentre il padrone non modifica niente perché se ne sta lì in panciolle, il lavoratore modifica le cose e si ritrova anche lui modificato da ciò stesso che ha modificato. Hegel riprende nel sociale ciò che aveva detto nelle prime pagine. In effetti, potremmo dire che il significante lavora il significato e ciò che gli ritorna è se stesso, cioè un significante ma in quanto altro, in quanto modificato dal significato. Per dirla in un altro modo ancora, il mio dire non è semplicemente l’espressione di un qualche che sta da qualche altra parte, il mio dire costruisce il ciò di cui dico, il mio fare, e questo fare, questo modificare, ritorna nel mio dire e lo modifica. È per questo che parlando mi trovo in un certo senso sempre spiazzato, perché ogni volta che parlo le cose che dico mi modificano, continuamente. Ciò nonostante è necessaria una determinazione, è necessario che ciò che dico sia quello che dico. Quindi, vedete che tornano esattamente i termini di Hegel: singolarità e universalità. Ed è l’unica cosa, come dicevo all’inizio, dalla quale è possibile trarre una soddisfazione che non sia sempre spostata, rinviata all’infinito su altre cose - oggi voglio questo, domani quell’altro, dopodomani quell’altro ancora, ecc. – ma ogni cosa sarà sempre in vista di qualche cos’altro, perché ogni singolo atto di parola è sempre in vista di qualche cos’altro, ma questo qualche cos’altro è il linguaggio. La parola rinvia a se stessa, il linguaggio non può rinviare ad altro che non sia se stesso. In questo caso il desiderio è soddisfatto, soddisfatto perché il ciò che desidero non rinvia ad altro se non a se stesso. Questo è un modo tra l’altro per costruire un’etica del linguaggio. La soddisfazione viene da lì, è l’unica soddisfazione praticabile, possibile, non ce ne sono altre, cioè, una soddisfazione che rinvia a se stessa.

Intervento:….

Non ci sarebbe più la necessità di imporre la propria volontà su altro o su altri. La volontà di potenza, anche lei, viene incanalata in ciò stesso di cui è fatta, cioè nel linguaggio, quello che chiamavo superpotenziamento intellettuale, e cioè un continuo riflettere del linguaggio su se stesso, ininterrotto. Come in uno specchio, viene continuamente riflessa e, quindi, diventa l’unico oggetto praticabile, l’unico oggetto del desiderio, l’unico che dia la soddisfazione, che cioè non sposti su altro. Quest’apertura all’etica del linguaggio, in effetti, pone le cose in un altro modo ancora: il linguaggio come il soddisfacimento, come ciò di cui si è soddisfatti. Il desiderio è tale in quanto rinvia sempre ad altro, ma se a un certo punto questo altro non può che rinviare a se stesso, allora ecco che si inizia a praticare il linguaggio nel senso di riflettere il linguaggio. Riflettere il linguaggio significa fare ciò che stiamo facendo: pensare le cose, pensare al fatto che ciascuna cosa si offre; non è un problema, ma si offre come problema, come qualcosa da interrogare perché, interrogandolo, mostra altri rinvii, altri aspetti, altre questioni, consente, cioè, di praticare il linguaggio e di trarne soddisfazione.