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24-7-2013

 

Abbiamo detto del modo differente in cui viene affrontata la questione del linguaggio dalla semiotica e dalla filosofia del linguaggio; la semiotica si occupa del modo in cui si produce il significato attraverso combinazioni, connessioni eccetera, la filosofia analitica si occupa di sapere che cos’è il significato, che è diverso. La filosofia analitica considera due aspetti, uno è quello inferenziale, cioè il significato viene prodotto dalle inferenze, dalle connessioni fra elementi, diciamo una posizione sintattica, è la sintassi che definisce la semantica, mentre quella referenziale dice che il significato della parola è la cosa a cui il significato si riferisce. È una posizione molto diffusa, è l’adeguamento, l’adæquatio rei et intellectus. La posizione referenziale è quella che dice, afferma che il significato di una parola è la cosa, per esempio Wittgenstein, Quine considerano il significato come inferenziale, mentre Carnap, Davidson, considerano invece il significato come referenziale, cioè come riferimento alla cosa. Anche la filosofia di Wittgenstein, di Quine comunque non disdegna mai di riferirsi alla cosa, quando Wittgenstein fa i suoi esempi nelle Ricerche Filosofiche non gli passava neanche per la mente di immaginare che il mattone del suo esempio fosse un elemento linguistico, cioè attenesse alla parola, cioè esistesse alla condizione che ci sia un linguaggio, il mattone è il mattone, poi che il significato del comando che viene dato sia un atto linguistico e quindi io imparo a usare il significato di mattone perché mi si spiega come si fa ad usarlo, questo è un altro discorso, ma il mattone è il mattone. La posizione della filosofia analitica è una posizione abbastanza ingenua e non così interessante. La posizione invece, molto più antica, della scuola di Elea, la scuola di Parmenide, di Zenone, di Gorgia, di Melisso, è stata sempre mal considerata anzi, molti dei filosofi analitici li considerano dei pazzi perché sono stati quelli che più di ogni altro hanno messo in discussione il concetto stesso di realtà. Questa scuola andrebbe ripresa e riconsiderata perché ha mostrato ciò che può fare il linguaggio e che cosa può costruire, e che può fare tutto questo proprio per via del fatto che i significati delle cose sono di volta in volta stabiliti da chi li utilizza, anche se loro non erano giunti a formularli in termini così espliciti, però di fatto giocavano con il linguaggio, cioè si dilettavano a costruire delle argomentazioni plausibilissime che a tutt’oggi non sono comunque messe in crisi, nel senso che nessuno è riuscito a confutare quello che dicevano, si può soltanto dire che le cose che dicevano non sono di così grande interesse, che sono così degli arzigogoli mentali che non hanno nessuna utilità e invece no, ce l’hanno l’utilità, primo perché costringono a un esercizio di pensiero notevole, secondo perché mostrano, come dicevo, che cosa il linguaggio può fare e che cosa fa se non è vincolato a delle superstizioni. Sono le superstizioni che vincolano il linguaggio, che impediscono al linguaggio di costruire tutto quello che può costruire e mostrare in atto cosa può fare; quando Godel ha costruito il suo teorema di incompletezza non ha stabilito come stanno le cose, non ha trovato una realtà per cui ha opposto la realtà della matematica a un’altra realtà, ha semplicemente costruito un gioco anche lui, ha mostrato che cosa può fare il linguaggio partendo da delle premesse, qualunque esse siano, che cosa può fare il linguaggio, se, appunto non è vincolato a delle superstizioni, e cioè non ha limiti. Perché una superstizione è un limite, la superstizione dice che c’è un limite oltre non si può andare perché è contro la ragione, è contro l’umanità, è contro dio. Dicevo dunque della scuola eleatica, e sono convinto che abbia ancora molte cose da dire, c’è un buon saggio di Calogero sugli Eleati, moltissimi frammenti sono raccolti da Untersteiner. Perché vi sto dicendo che possono ancora dire molto gli Eleati? Perché le loro argomentazioni possono essere applicate al concetto di significato e quindi mostrare che qualunque cosa si attribuisca al significato, cioè il significato del significato, è assolutamente arbitrario, cosa che invece non lo è affatto per la filosofia analitica, per la filosofia analitica il significato non è mai arbitrario, è sempre comunque dato in un modo o nell’altro, questa è una superstizione: da una parte si immagina che esista un significato stabilito, dall’altra si immagina che il significato sia dato dalla natura stessa, alcuni arrivano anche a questo, a delle posizioni veramente risibili, e quindi cercando di sapere che cos’è il significato. Senza rendersene conto in molti casi ipostatizzano il concetto di significato. Considerando il significato come ipostasi si tratta per la filosofia analitica di stabilire che cos’è, è ovvio che in questa operazione si trovano e si sono trovati in infiniti rinvii, e non poteva che essere così, senza raggiungere mai la possibilità di fermarsi da qualche parte, da qui tutte le varie ipotesi intorno al significato. Ci sono naturalmente delle considerazioni che possono farsi a questo riguardo, nessuno, almeno fra quelli che ho preso in considerazione per il momento si è mai posto la questione circa il fatto che per considerare che cosa sia il significato, sta già mettendo in atto dei significati necessariamente, questione che non è marginale, se io utilizzo dei significati per pensare a che cosa sia il significato, questi significati che sto utilizzando da dove li traggo? Un filosofo analitico potrebbe dire che è proprio per sapere da dove li traggo che vuole sapere che cos’è un significato, però tutta la teorizzazione che viene fatta intorno al concetto di significato rischia di vanificarsi nel momento in cui si prende in considerazione il fatto che non sapendo ancora definire cosa sia un significato, tutti i significati che vengono utilizzati non possono in nessun modo essere considerati come certi, di conseguenza qualunque considerazione, qualunque conclusione verrà tratta a partire da questi concetti sarà inesorabilmente di conseguenza incerta, dubitabile, per alcuni versi inutilizzabile. Perché uno si costruisce la sua bella teoria per esempio del significato, mettiamo Wittgenstein, il significato come uso, va benissimo, non aveva neanche tutti i torti, ma tutte le considerazioni che ha compiute per trarre questa conclusione che afferma che il significato è l’uso di quel termine, questa articolazione è stata compiuta utilizzando dei significati che in nessun modo possono essere certi, possono essere sicuri. Questo anche alcuni filosofi analitici lo avvertono vagamente, come dire che in assenza di significati certi tutte le argomentazioni costruite intorno al significato sono incerte, perché costruite a partire da significati che non sono certi…

Intervento: bene, perché è attraverso l’uso che diventano certi…

Sì e no, perché una buona parte della filosofia analitica, per esempio Carnap, Quine ma lo stesso Chomsky, invece muovono dall’idea che ci sia una certezza connessa con il significato, e cioè che il gatto sia il significato di “gatto”, e non possa essere un’altra cosa, per una sorta di legge di natura, in questo caso il significato sarebbe certo, naturalmente. Se è certo l’elemento naturale, perché a questo punto bisogna stabilire con assoluta certezza che il gatto sia un gatto, e qui la cosa si fa complicata, perché non basta dire “sì, è un gatto” lo vedo, ma come so che ciò che vedo è proprio quella entità che io ho stabilito essere un gatto, e perché ho stabilito così? In base a che cosa? Alcuni fra i filosofi analitici più attenti e meno ingenui ovviamente si sono resi conto di questo problema e infatti hanno abbandonato l’ipotesi referenziale perché non è sostenibile, perché conduce ad aporie e a problemi non solubili, ma se quindi il significato, non potendo riferirsi alla “cosa” cioè alla realtà, non è certo, allora è una convenzione e allora, diceva giustamente Eleonora, diventa certo al momento in cui si stabilisce questa convenzione, cosa che sposta l’attenzione sul significato di “certo” quindi di “incerto”. A quali condizioni qualcosa è certo? Alcuni filosofi analitici sono molto attenti rispetto al concetto di significato, lo sono molto meno invece rispetto agli altri concetti, quindi gli altri significati che stanno utilizzando, cosa che ha una gravità che ha effetti devastanti su tutta la filosofia analitica e potrebbe farla crollare tutta quanta, cosa che non è escluso che faremo. È un lavoro che potremmo fare, e cioè mostrare i presupposti della filosofia analitica, e, dicevo, la filosofia analitica può crollare miseramente nel momento in cui qualcuno incominci a interrogare i concetti, i significati che sta utilizzando per elaborare, articolare, per capire che cos’è il significato, è sempre una domanda problematica “che cos’è?” qualche cosa.

Intervento: io posso fare un uso, e un altro può fare un altro uso per cui non c’è l’univocità del significato…

La filosofia analitica risolve questo problema molto semplicemente indicando l’uso standard, cioè l’uso consueto, quell’uso che fa una persona che parla per farsi capire dagli altri, e che quindi utilizzerà dei termini con un significato che è quello che altri usano o suppone che usino. Chiaramente si va incontro spesso a incomprensioni, a mal intendimenti, fraintendimenti, equivoci di ogni sorta come accade spesso, però è quanto di meglio grosso modo la filosofia analitica dice proprio rispetto a questo problema, e cioè un “significato standard”, è la pubblicità del significato. Il concetto di “pubblicità” del linguaggio è questo, cioè il linguaggio utilizzato da tutti i parlanti di una certa etnia, è chiaro che gli italiani parlano in un modo, i francesi in un altro, però quello che hanno in comune ciascuno di questi è che parlando ciascuno usa i termini che ha “imparato” tra virgolette, perché non tutti i filosofi analitici la pongono in questi termini, che utilizza e che sa che altri utilizzano e quindi utilizzandoli li comprende. A questo punto si inserisce una considerazione intorno agli Eleati, perché sono stati i primi, e gli unici occorre dire in tutta la storia del pensiero dell’umanità a porre quelle questioni in modo così forte, così potente e così radicale come nessun altro dopo di loro ha mai fatto; nessuno ha mai avuto l’ardire di riprendere queste questioni se non molto recentemente, in questi ultimi anni da parte di chi si è occupato di paradossi, Russel in particolare, proponendo delle soluzioni che lasciano il tempo che trovano perché non hanno soluzione queste cose, il paradosso di per sé non ha soluzione, perché? Cosa dice il paradosso? Dice che una certa affermazione è vera se e soltanto se è vera la sua contraria, come dire che “Eleonora è Eleonora se e soltanto se Eleonora non è Eleonora”, questa è la forma canonica del paradosso, e queste due posizioni non sono conciliabili in nessun modo. Per due motivi almeno, il primo riguarda una questione di regole del linguaggio e cioè non è violabile la regola della non contraddizione, non è violabile perché se lo nego, questo elemento non è in condizioni di porsi come premessa per costruire altre sequenze, perché per potere svolgere questa funzione deve essere riconosciuto dal sistema come vero, se non lo è non può svolgere questa funzione. L’altro aspetto è che la forma più radicale di paradosso è quella che dice che “esiste una x che è fuori dal linguaggio”, ora come possiamo affermare che esista una x qualunque che sia fuori dal linguaggio? Certo lo possiamo dire, l’ho appena detto, ma se dovessi costruire un’argomentazione che prova questa cosa e cioè la posizione che afferma “x è fuori dal linguaggio” è vera, mi troverei in grossissime difficoltà, perché se un elemento è fuori dal linguaggio significa che non è connesso con nessun elemento linguistico ovviamente, cioè non ha nessun rinvio, non avendo nessun rinvio non rinvia neppure al suo significato, cioè non significa niente, quindi è niente. Vi dicevo che gli Eleati hanno posto le questioni radicali che a tutt’oggi rimangono insolute, ma sono insolute perché mostrano che di fatto non c’è uscita da questo gioco perché io posso fare tutti i giochi che voglio ma non posso uscire da questi giochi e che si tratta soltanto di giochi che non significano niente. La tragedia dell’umanità quando si trovò di fronte ai primi paradossi fu grande. I paradossi pongono delle questioni che non sono solubili perché non è solubile un’affermazione che dice di se stessa che non è un’affermazione, non ha nessun utilizzo, non ha nessun posto all’interno del linguaggio, perché se non è quello che dice di essere è come se dicesse che non è un elemento linguistico, e quindi non ha nessun rinvio, appunto, paradossalmente, perché se ne sto parlando è ovvio che ha dei rinvii. Quindi la questione del significato è, nonostante la filosofia analitica la faccia incredibilmente complicata, è per un verso molto più complicata di quanto ne pensi la filosofia analitica, per l’altro molto più semplice. Rimane centrale la questione del significato perché da lì segue qualunque cosa, se il significato non è certo qualunque argomentazione è incerta, cosa vuole dire a questo punto che è incerta? Che significato sto dando a questi termini “certo” e “incerto”? Rispetto a che cosa una cosa è certa? Alla sicurezza mia, a quella di Simona? Di chi? O dei parlanti? Quali parlanti? Tutti? E perché per loro è certo? Come l’hanno stabilito? In base a quale criterio? E così via all’infinito. Vedete, la questione interessante che ha posto Freud con l’ascolto, che sempre di più avverto essere la questione centrale e forse la più importante in tutta la psicoanalisi, riguarda il fatto di aprire la questione a risvolti non prevedibili, non previsti, inattesi, la filosofia analitica per esempio non si occupa di retorica, non si occupa se non molto marginalmente di semiotica, si occupa di linguistica certo, ma altri aspetti come la retorica, come la semiotica sono considerati marginali, non da tutti naturalmente, mentre potrebbe considerarsi essenziale riflettere sul concetto di “significato” tenendo conto anche di ciò che dice la semiotica per esempio, di ciò che dice la retorica, di come si produce un significato, perché sapendo come si produce del significato la riflessione su che cosa sia il significato può prendere un’altra piega, un’altra direzione, magari più interessante, anziché cercare di scoprire la cosa, il quid che dovrebbe essere il significato. Ascoltare una teoria così come un discorso è anche e forse soprattutto interrogare ciò stesso che si va ponendo; prima facevo l’esempio dei significati che vengono messi in atto dai filosofi analitici per decidere che cos’è il significato, ma di questi altri significati che ne è? Come facciamo a sapere che sono quelli buoni? O sono delle stupidate? Perché sono standardizzati? Questo sposta solo la questione su chi ha deciso che quelli “standardizzati” siano quelli buoni, il fatto che li usino tutti questo non significa assolutamente niente, se non semplicemente il fatto di potere comunicare con qualcuno ma a questo punto occorre considerare qual è il significato di “comunicazione”, se no parlare di “comunicare” non significa assolutamente niente. La scommessa potrebbe essere quella di rendere tutto questo molto semplice, e una direzione per ottenere questo risultato l’abbiamo stabilita: è quella che hanno “dovuto” tra virgolette utilizzare gli inventori dei computer, e cioè hanno dovuto insegnare a un aggeggio inerte, a pensare e cioè a parlare, qual è il significato che ha per una macchina una certa cosa? Una certa operazione? Quella che io gli ho detto che ha, non ne ha altre, e qual è il significato di una certa cosa per un bambino che impara a parlare? Quello che gli si dice.