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24-6-2015

 

Vorrei leggervi alcuni brani che riguardano ciò che ci interessa, riguardano la questione del linguaggio che Severino non affronta mai direttamente in questo testo, la affronterà in un testo che si chiama Oltre il linguaggio. Ci sono alcuni brani che mostrano come Severino stia parlando del linguaggio senza prenderne atto, senza trarre le conseguenze che avrebbe potuto, dovuto trarre. La domanda heideggeriana “perché l’ente è e non piuttosto il nulla” proprio in quanto domanda esprime nel modo più consequenziario quella separazione astratta tra le determinazioni e l’“enai” (l’esistente, l’Essere in quanto esistente) che tutto il pensiero occidentale ha ereditato da Parmenide nella forma platonica, appunto perché posta quella astratta separazione ci si deve certamente domandare “perché l’ente sia?” per questa domanda la totalità dell’ente vacilla perché si va alla ricerca dello stesso fondamento che possa fondare la dominazione dell’ente come un vittoria sul nulla. Questa che dovrebbe essere la fondamentale domanda metafisica (perché esiste qualcosa anziché nulla?) ricerca il fondamento della stessa verità originaria ossia di ciò che è il fondamento di ogni pensiero, anche qui ci si domanda “perché l’ente è?” proprio perché il pensiero si è così profondato nella dimenticanza della verità dell’Essere da non avvedersi che l’Essere dell’ente è il suo stesso non esser niente, e che qui si è al fondo del pensare alla verità originaria su cui non si può interrogare perché anche l’interrogazione è un modo di negarla (qui sta dicendo di avere costruito un qualche cosa che non può essere negato, perché se lo si nega allora si nega tutto, che è quello che dicevamo rispetto al linguaggio, ora la questione della domanda che anche per Heidegger è fondamentale, ci pone però una questione che conosciamo molto bene e cioè che perché possa darsi domanda occorre una struttura che consenta di domandare, che consenta quindi di costruire una sequenza in modo tale che sia riconosciuta dal sistema come domanda. Ora questa questione Severino non se la pone di fatto mai, adesso vedremo anche rispetto al concetto di “Essere”. Se il logo proibisce che l’Essere non sia allora la contraddittorietà del divenire, la contraddittorietà di ciò che è incontrovertibilmente manifesto, deve essere soltanto una apparente contraddittorietà (la cosa che qui ci interessa è che dice che “il logo proibisce che l’Essere non sia”. Qui lo dice in modo esplicito, ma se è il logo che proibisce che l’Essere non sia, è il logo a determinare l’incontrovertibile di quella affermazione che è quella che dice che l’Essere è, allora questa affermazione che dice che “l’Essere è e non può non essere”, è una produzione del logo, anche perché per lui non è. come già per Heidegger, un ente, un qualche cosa, un quid, l’Essere, per Severino, è l’“incontraddittorio”, ma perché qualche cosa possa darsi come “incontraddittorio” occorre che ci sia la possibilità di costruire una sequenza che risulti, adesso vi faccio una metafora, sia letta dal sistema come contraddittoria, quindi deve avere già questa informazione, che una certa combinazione di elementi è contraddittoria, la riconosce come contraddittoria, sa che cos’è la contraddizione e poi deciderà se accettarla oppure no, ma questo è un altro discorso, però è il logo, è il logo che proibisce di affermare che l’essere non è, non altro ma il logo) (pag. 105) La differenza ontologica (per Severino) costituisce la differenza tra l’Essere e l’esserci (l’“esserci” il “Dasein” di Heidegger, l’Essere come trascendenza, come ciò che dà all’ente la sua esistenza e l’“esserci” che, per Heidegger, è tutto ciò che interviene nel momento in cui la persona si rivolge a qualche cosa, rivolgendosi a qualche cosa, domandando, se la domanda “è autentica” come direbbe Heidegger, domandando qualche cosa consente all’essere di aprirsi quindi di far esistere qualche cosa, quindi l’“esserci” sarebbe l’immanente, che è qui e adesso) Il “mondo”, ciò che appare, è dio in quanto si rivela nella coscienza finita, la cui finitezza è appunto il suo valere come un apparire astratto dell’Essere, ma la coscienza finita, l’apparire attuale, è essa stessa proprio in quanto essa non è un niente, un momento dell’immutabile e anzi è quel momento che non solo è immutabile ma in quanto totalità dell’apparire non appare nemmeno come diveniente ed è tale che il suo divenire può essere inteso soltanto come il comparire e lo sparire dei suoi contenuti particolari l’accoglierli e il congedarli, la differenza ontologica è un evento interno all’immutabile, l’apparire attuale in cui si disvela l’ “eterno”, è un momento dell’ “eterno” (qui c’è racchiusa in poche righe tutta la sua concezione degli immutabili e del modo in cui questo “immutabile”, cioè quella che lui chiama la verità dell’Essere, che è eterna, consente agli enti di apparire. Severino è interessato a risolvere il problema del “divenire” perché chiunque potrebbe obiettargli “sì ma io lo vedo che una cosa compare e scompare, per esempio mia nonna prima c’era e adesso non c’è più, e quindi lui come risolve questo problema del “divenire”? Lo risolve dicendo che la verità dell’Essere è ciò che consente l’apparire, l’apparire è, potremmo dirla in modo un po’ spiccio, la verità dell’Essere, l’apparire delle cose, però in quanto “eterni”, a questo punto lui è stato costretto ad aggiungere “l’apparire dell’apparire” cioè l’apparire eterno, ciò che appare, tutto, qualunque cosa, è eterno per Severino, è incontrovertibile il fatto che sia, però in questo “apparire” che è l’Essere possono apparire o scomparire degli elementi, che però non è che si annullano, non diventano nulla, semplicemente appaiono oppure scompaiono pur rimanendo sempre nell’apparire che riguarda la verità dell’Essere, questo non può negarlo perché se no crolla tutto e non rimane più niente e quindi è costretto a dire che sì le cose scompaiono certo, se io questa cosa la nascondo da qualche parte non c’è più, oppure dopo la bomba atomica Hiroshima non c’era più, no, dice lui, Hiroshima c’è sempre e sarà sempre, sarà sempre in quanto Essere, perché è incontrovertibile che l’Essere sia, però all’interno di questo apparire che è l’apparire del tutto, alcuni elementi possono apparire in questo momento oppure no, ma sono sempre lì però, io posso vederli oppure no): (pag. 122) La negazione per tenersi ferma come negazione deve opporre il proprio significato a “ogni altro significare” (quindi lui incomincia col dire che la negazione ha un significato e di conseguenza a questo punto è un significato, se non ci fosse il significato la negazione sarebbe niente, così come l’affermazione ovviamente) ossia appunto a tutto ciò che le è altro deve opporsi la negazione, quindi non solo alla propria contraddittoria ossia la proposizione “ l’Essere non è non essere” ma anche, come sopra si esemplificava a “splendore del sole” “monte” “nulla” eccetera, in altri termini affinché la negazione sia negazione richiede la semantica (cioè il significato) della negazione contenga un insieme di regole per il quale il significato della negazione resti differenziato, opposto a ogni altro significato e quindi certamente anche la proposizione eccetera (vedete che qui è molto preciso, cioè sta descrivendo come funziona la costruzione di una proposizione, nel senso che affinché la negazione sia tale occorre che esistano delle regole, esattamente come vi dicevo prima, delle regole che mi dicono che la negazione è quella certa cosa che ho imparato a chiamare “negazione” che viene utilizzata in un certo modo e non in un altro, queste sono cose che dicono le regole) (pag. 158)Un insieme di fatti empirici suoni, segni eccetera (dati dell’esperienza) è un linguaggio solo se questi fatti vengono interpretati in un certo modo. Che i segni della lingua greca corrispondono a certi significati è una convenzione che non cessa di esser tale perché viene accettata da tutti coloro che hanno a che fare con la lingua greca (cioè sta dicendo che un linguaggio è un’interpretazione di fatti, che adesso non sappiamo bene quali siano, però se è un’interpretazione vuole dire che interpreta in base a dei significati e aggiungeremo noi in base a delle regole, perché non è che si interpreta in qualunque modo, ci sono delle regole di interpretazione, che muovono da tutto ciò che si è appreso) la coordinazione dei segni o di una lingua o dei suoni di una lingua a certi significati è un insieme di regole, adottando le quali raggruppamenti di segni o suoni, dati di fatto acquistano a loro volta un senso (queste cose hanno un significato, e tutti assieme producono un altro significato, che è esattamente la tesi di Greimas per altro, cioè il processo semiosico) solo accettando la massa di convenzioni che rendono possibile l’interpretazione e la delimitazione di un linguaggio (perché un linguaggio è delimitato? Perché non può dire qualunque cosa e il suo contrario, la parola non può significare tutto quindi è delimitato, un significato delimita un ambito di utilizzo di un termine) L’adozione di quelle convenzioni appartiene alla δόξα, (all’opinione, al pensiero comune, alla tradizione) le scienze storiche si fondano su un intero sistema di siffatte adozioni e questo sistema appartiene ai gruppi di postulati che come nelle scienze fisico matematiche stanno alla base dell’indagine, la quale dunque si muove tutta all’interno della δόξα (questa è la posizione che viene da Heidegger e che ad Heidegger veniva dalla fenomenologia, da Husserl, che diceva che la scienza muove da presupposizioni, non da certezze assolute, non può fondarsi su certezze assolute, si basa su ciò che è creduto per lo più, prende questo come principio è da lì muove per costruire le sue elaborazioni scientifiche, non ha altro a disposizione, è ciò che si crede che un corpo cade è qualcosa che si crede, qualcosa che fa parte della δόξα che non è l’ ἐπιστήμη, è δόξα) Ogni interpretazione storica anche quella che interpreta la storia d’occidente, come il percorrimento, il “sentiero della notte” eccetera /…/ Se ogni convenzione è un atto di fede, l’adozione delle convenzioni su cui viene usualmente fondata l’interpretazione dei linguaggi storici svela però insiemi di significati che altrimenti rimarrebbero nascosti e che presentano di fatto un interesse incomparabilmente maggiore di quello ottenuto sulla base di altre interpretazioni (sta dicendo che un’interpretazione deve essere fatta con certo criterio perché consenta di aprire ad altre questioni, altrimenti non apre niente) Non solo ma se la coordinazione di un segno ha un significato e una convenzione tra le infinite possibili, d’altra parte vi è quell’insieme di convenzioni che è un fatto: ciò che viene convenzionato, ipotizzato, supposto, deciso non ha alcun fondamento veritativo dunque non può essere nemmeno un fatto che appartenga al contenuto che appare, e pertanto si dice che è soltanto contenuto di una fede ossia della δόξα, ma è un fatto il convenzionare e quindi l’interpretare in un certo modo i linguaggi storici, quel modo per il quale coordiniamo il segno “ἄνθρωπος” che troviamo nel testo della Divina Commedia al significato “uomo” (ci sta dicendo che a seconda di dove trovo questa parola do un significato differente) a questo fatto cioè al modo in cui di fatto sono interpretati i linguaggi storici si riferisce l’affermazione che l’Occidente è il tramonto della verità dell’Essere, stante il modo in cui di fatto vengono interpretati i linguaggi storici l’Occidente è questo tramonto, un fatto che come ogni altro potrebbe essere sostituito da fatti diversi (sempre prodotto da un’interpretazione) ma ogni altro fatto sarebbe pur sempre una convenzione, si decidesse di interpretare diversamente o si decidesse di non interpretare affatto gli eventi empirici che costituiscono i linguaggi, nella misura in cui la verità non è ancora in grado di affermare che l’Essere appaia anche al di là dell’apparire attuale, i segni dei linguaggi storici (le lingue qualunque esse siano) possono essere coordinati o solamente ai significati attuali o anche ai mondi di significati appartenenti alle possibili coscienze diverse dalla coscienza attuale, (cioè dice se io interpreto qualche cosa e cioè attribuisco a una parola un significato, ma lui ci ha detto che questa attribuzione è una convenzione, lo diceva anche De Saussure, “Significante/significato”, tutto ciò che si costruisce a partire da questo, cioè da un segno desaussurianamente inteso, è arbitrario se non c’è qualche cosa di vero che possa costituire un parametro al quale tutte queste costruzioni, che sono fatte di linguaggio, cioè da segni, possono agganciarsi. Dice qui “la verità non è ancora in grado di affermare che l’essere appaia”) Nel primo caso i linguaggi non hanno un significato in sé ma sono il mezzo attraverso il quale resta suscitata nell’apparire attuale una regione di significati che altrimenti sarebbe rimasta nascosta (quindi il significato non è una cosa in sé isolata da altri significanti, ogni volta che io uso un significante evoco, metto in movimento una catena di altri significati che hanno determinato quello che sto usando in quel momento) anche se un linguaggio storico includesse le regole di coordinazione dei propri segni ai significati l’indicazione delle regole darebbe luogo ad altri segni che dovrebbero essere a loro volta interpretati (un’interpretazione infinita) solo nel secondo caso riesce a costituirsi il problema dell’esistenza di regole di coordinazioni diverse da quelle che coordinano i segni di un linguaggio storico e dei significanti attuali (cioè per evitare questo problema l’unica soluzione è reperire la verità dell’Essere, cioè l’incontraddittorio, altrimenti tutti questi segni uniti ai significati, cioè tutti i significati rimangono arbitrari, perché come dice: “la verità dell’Essere dice che tutto l’Essere sia immutabile, eterno) Il problema della salvezza (pag. 169) (“salvezza” lui la intende sempre come il salvarsi dal nichilismo, dalla credenza nel divenire) riguarda appunto la salvezza della verità, se l’uomo nella sua essenza è l’eterno apparire dell’Essere, quali spettacoli possono restare suscitati da questa essenza? (se l’uomo è la verità dell’Essere che cosa altro può apparire a questo punto?) Quando si parla della salvezza del singolo ci si riferisce più o meno consapevolmente all’irruzione della felicità infinita nell’apparire, ma che cos’è la felicità? E che felicità è quella in cui non si è in grado di sapere incontrovertibilmente che è felicità autentica, che non può essere perduta? Un paradiso può costituirsi solo come contenuto della verità giacché solo la verità è sapere incontrovertibile e per la verità la condizione di ogni paradiso è il toglimento della contraddizione, l’infelicità, il dolore eccetera sono un trovarsi in contraddizione, il toglimento della quale contraddizione è insieme toglimento della non verità, perché ogni forma di non verità: l’errore, la fede, il non apparire, il problema è una contraddizione, la salvezza è innanzi tutto questo toglimento della contraddizione, un portare quindi l’Essere al massimo disvelamento che gli è consentito nella verità e cioè appunto la sua incontraddittorietà (un po’ come l’avevamo rilevato anche l’altra volta, cioè per lui tutto ciò che Freud chiamerebbe “nevrosi” non è altro che un trovarsi di fronte a qualche cosa di contraddittorio e quindi destinato a morire e quindi, se non già perduto, “perdibile”, è questa l’angoscia per Severino, se l’Essere è anche non essere, come avviene nel divenire perché qualche cosa è finché è, ma non è quando non è, quindi è possibile che il non essere sia, allora a questo punto succede che le cose diventano caduche, l’uomo diventa mortale, quindi si trova di fronte alla possibilità che tutto ciò che ha, suppone di avere, possa morire, e lui stesso, e quindi essere perduto e quindi il massimo della felicità consiste per Severino col massimo dell’angoscia, perché tanto più ho, tanto più ho da perdere) (pag. 181) In generale l’immodificabile è inteso o come qualcosa di diverso dal “mondo” (il “mondo” sono le cose) o come appartenente alla struttura di questo ma il pensiero che pone “l’immodificabile” dio, il diritto, le morali eccetera, il dominio del padrone, la quantità della massa di energia, tutto ciò che si considera in genere immutabile è il pensiero che pone il “modificabile” come “mondo” (qui dice “ma il pensiero che pone l’immodificabile” è questo pensiero, che pone il “modificabile” come mondo, quindi ponendo l’immodificabile pone anche il modificabile.) Nella storia del pensiero metafisico dio viene dapprima pensato come ciò senza di cui il mondo non potrebbe esistere ma poi ci si rende conto che dio non può esistere perché altrimenti impedirebbe l’esistenza del mondo giacché le cose del mondo possono essere state per davvero un niente e possono per davvero ridiventare niente, solo se non sono precontenute in dio, se cioè non esiste la dimensione divina rispetto alla quale la nientificazione e la creazione degli enti, che sono ritenuti un dato evidente, sarebbero irreali (qui la confutazione dell’esistenza di dio è molto rapida ma precisa, dice “dio viene rappresentato come ciò che ha creato il mondo e tutto quanto, però se si pone dio in questa maniera qua, come il creatore di tutto “ex nihilo”, allora dio non può esistere perché significa che prima che queste cose esistessero, che dio le creasse, queste cose mancavano, non c’erano, erano un niente, ma dice queste cose possono “per davvero ridiventare un niente” solo se non sono contenute in dio, perché se sono contenute in dio che è il “tutto” “eterno” allora queste cose non possono diventare niente perché se no, se diventassero niente, a questo punto dio mancherebbe di queste cose) Una sorte analoga tocca all’immodificabile inteso come elemento del mondo o come proiezione di dio nel mondo, l’anima, il padrone, il monarca, la chiesa, lo stato, la proprietà, la leggi di natura, fisiche, economiche … pensati prima come condizione indispensabile della vita del mondo vengono poi negati proprio per la consapevolezza che essi rendono impossibile questa vita. Nella storia dell’Europa moderna “libertà” significa liberazione dall’immodificabile affinché il modificabile sia modificato conformemente agli scopi che l’uomo storicamente si propone e non conformemente a presupposti immodificabili parametri, (se le cose fossero immodificabili non le potrei modificare, cioè non potremmo operare quell’operazione di cui parla Heidegger e cioè l’operazione di conoscenza, manipolazione, elaborazione dell’ente, quindi modificazione dell’ente, se lo pongo come immodificabile non posso fare niente, è quello che è e bell’è fatto, quindi che sia modificabile è la condizione per poterlo pensare come immodificabile. Se lo pongo come immodificabile, per poterci avere a che fare con questa cosa devo conoscerla, devo farne qualche cosa, devo inserirla all’interno di un sistema cioè devo modificarla) (pag. 184) Τέχνη non è solo la scienza moderna ma anche la filosofia moderna che pone come produttivo lo stesso conoscere, conoscere che produce, producendo modifica (conoscenza, modificazione, manipolazione, elaborazione dell’ente) il conoscere intende limitarsi ancora a prendere atto delle produzioni e distruzioni della natura dell’azione umana, nella filosofia moderna il conoscere produce il mondo dapprima il mondo soggettivo o fenomenico, poi con l’idealismo il mondo simpliciter, ciò vuol dire che il fenomenismo, il gnoseologismo, l’idealismo costituiscono la dominazione della metafisica nell’ambito della gnoseologia moderna, questa dominazione non si esprime soltanto nel principio che il mondo fenomenico (dei fenomeni, delle cose che appaiono, che si vedono) è prodotto dal soggetto conoscente ma negli stessi principi secondo cui si realizza il mondo fenomenico. Nella prima analitica dei principi Kant applica esplicitamente ai fenomeni il principio del nichilismo metafisico “ex nihilo nihil”, è impossibile dal niente fare qualche cosa e nulla può essere ricondotto al nulla solo che qui il permanente è il tempo come schema della sostanza e all’interno di questa permanenza le determinazioni fenomeniche passano dal niente all’esistenza e viceversa (il tempo per Kant è un tempo cronologico, ciò che consente alla sostanza di permanere, la sostanza permane se in un dato momento è e rimane la stessa anche in quell’altro momento, ora questa immutabilità non è l’immutabilità di cui parla Severino, il suo essere “eterno” non è un durare nel tempo, il suo essere “eterno” è essere incontrovertibile, cioè non essere modificabile, neanche dal tempo) Se nell’età moderna la τέχνη rinuncia ad essere ἐπιστήμη (episteme: verità assoluta, quella che per Severino è la verità dell’Essere)per poter dominare la realtà è poi fatale che lo stesso sviluppo della τέχνη la costringa a riproporsi la conquista dell’episteme. Quando la civiltà della tecnica sarà riuscita a togliere l’uomo da ogni limite, si troverà di fronte al limite invalicabile che la costringerà a modificare il proprio rapporto con l’episteme, poiché la scienza moderna è un sapere ipotetico allora ogni regno fondato dalla tecnica è un regno ipotetico che può crollare senza preavviso, ogni società, ogni liberazione dal limite conquistate dalla τέχνη sono costantemente avvolte dalla possibilità della loro sparizione, tale possibilità diventa un limite tanto più radicale quanto maggiore è la massa dei limiti dai quali la tecnica libera gli uomini, (quello di cui dicevo prima “più hai, più hai da perdere” per dirla in modo molto spiccio) il toglimento di questa possibilità che è destinata a diventare l’angoscia della futura umanità della tecnica, non può avvenire sulla base di un sapere ipotetico (perché se no siamo da capo tutto ciò che è ipotetico può essere ma può anche non essere) tale possibilità (cioè di sbarazzarsi dall’angoscia) non è più un limite e un angoscia solo in quanto la sua esclusione sia operata da un sapere assoluto e incontrovertibile (questa è la direzione che pone Severino) questo sapere è l’ἐπιστήμη come luogo della verità (cioè l’episteme per Severino è l’incontrovertibile) ci si dovrà allora quindi domandare, che verità ha allora il regno della τέχνη? E quindi che cosa è la verità? Affinché la τέχνη sfoci nell’ ἐπιστήμη l’Occidente deve percorrere l’intero sentiero della notte (“sentiero della notte” è il sentiero della non verità) e la civiltà della tecnica raggiungere i fasti del suo trionfo (questa era la tesi per altro di Heidegger, ricordate? “la tecnica ha in sé i germi della propria distruzione”) forse questo è l’unico modo per l’Occidente per inoltrarsi per l’altro sentiero, se così fosse l’apparire dell’alienazione sulla terra sarebbe la condizione indispensabile perché possa apparire il sentiero del giorno, se così fosse l’apparire dell’alienazione (l’alienazione è la non verità) sulla terra sarebbe la condizione indispensabile affinché possa apparire il sentiero del giorno (cioè percorrere tutte le sciocchezze della tecnica, finché tutte queste sciocchezze giungono a mostrare l’insostenibilità della tecnica, che è il pensiero di Heidegger, a questo punto è possibile abbandonare non la tecnica in quanto tale ma la credenza, la superstizione che la tecnica possa costituire la verità, o costruirla letteralmente. Ora qui la questione che a noi può interessare è il fatto che il linguaggio appaia costruito come metafisica, come già abbiamo detto in altre occasioni, e cioè il fatto di essere costruito attraverso l’affermazione di elementi che traggono il loro significato da altri elementi che trascendono il primo, il primo è il significato immanente diciamola così, l’altro gli dà il suo vero significato, il suo utilizzo a questo punto, ed è il significato trascendente, che non è lì ma va ricercato, da qui tutta l’ermeneutica. Ma la cosa interessante è che in effetti questo comporterebbe l’impossibilità di uscire dalla metafisica, perché essendo la metafisica il funzionamento stesso del linguaggio è ovvio che non fa che riproporsi ogni volta che apro bocca, però perché non è più possibile fare quello che propone qui Severino e che si proponeva anche Heidegger, cioè aspettare che la tecnica si autodistrugga da sé, non possiamo aspettare che il linguaggio si autodistrugga da sé,  è questo che ci ha indotti a pensare il linguaggio come prima e forse unica tecnica. Severino ha mutato in parte la sua posizione, dove dice che forse questo è l’unico modo, poi in effetti non sostiene più propriamente questo ma si rende conto che è impossibile eliminare la tecnica non può toglierla, il compito allora della filosofia è quello di dire alla tecnica che non ha limiti, che non ci sono limiti cioè che può fare quello che vuole. Qui c’è una questione, un rilievo che può farsi a Severino e cioè il fatto di non avere colto ciò che continua a dire quando parla della verità dell’Essere che “vuole” il significato perché se non ha il significato parlare di affermazione, di negazione non è niente, infatti “affermazione” “negazione” sono atti linguistici ed è da questi che procede l’incontrovertibile, quindi l’incontrovertibile è un prodotto di atti linguistici, e l’Essere posto come l’incontrovertibile, di non avere colto dicevo che è qualche cosa che appartiene al funzionamento del linguaggio, perché l’incontrovertibilità, cioè la non negabilità di una affermazione è un processo linguistico. (pag. 204) Il vivere nella non verità è l’apparire di quella contraddizione emergente che è la contesa tra la verità dell’Essere e l’errore (cioè l’errore sarebbe la convinzione che la terra sia il terreno sicuro su cui si appoggiano i piedi e che non morirà mai) in quanto l’apparire è l’apparire della verità dell’Essere l’errore accade come tolto, (quando appare la verità dell’Essere) resta negato da quando incomincia ad apparire, ma in quanto l’apparire non è l’infinito apparire del tutto (perché se una cosa appare, appare da sola e tutto il resto?) la verità dell’Essere non esaurisce le possibilità dell’apparire. Nell’apparire infinito non appare che la verità dell’Essere in cui ogni contraddizione è superata. L’apparire finito invece in quanto finito è aperto all’irruzione dell’errore (lui cerca di giustificare la possibilità stessa dell’errore, cioè del non accorgersi della verità dell’Essere, cioè dell’incontrovertibilità dell’Essere) l’errore irrompe nell’apparire non già in quanto appaia come negato dalla verità ma in quanto appare equipotente alla verità (e cioè si instaura il “πόλεμος”, diceva Eraclito cioè la guerra tra una cosa e un’altra. Si poi lui articola molto bene quando parla di Eraclito, del “πόλεμος”) la potenza della verità è la sua incontrovertibilità, la potenza dell’errore è il puro essere convinti, la pura certezza dell’errore (questa è la potenza dell’errore: l’essere convinti che è così, che è la fede, per lui la fede è questa la certezza nell’errore) L’errore non è e non può essere sostenuto da altro che dall’aver fede in esso, (su questo è molto preciso) la potenza dell’errore è il fatto stesso del suo riuscire a mantenersi nell’apparire in contesa con la verità, poiché la verità dell’essere non può sparire ma appare eternamente, la distrazione da essa di cui consiste il vivere nella non verità è allora possibile solamente come l’apparire della contesa tra la verità e l’errore e cioè come l’apparire di una contraddizione che appare come ciò che deve essere tolto ma che intanto non si lascia togliere perché i contendenti posseggono una eguale potenza (questo è molto bello, molto preciso, perché la fede cioè la credenza nell’errore è sostenuta soltanto dal fatto che ci credo, non ha altro dietro di sé, però questo è sufficiente a metterla in contrapposizione con la verità dell’Essere, cioè con l’incontrovertibile) (pag. 256) Che cosa accade quando “θεός” (dio) viene portato il mondo? dal punto di vista della metafisica l’ente può essere ossia può esistere solo se assicurato all’esistenza di un fondamento (infatti la metafisica che cosa cerca? L’Essere dell’ente, il fondamento dell’ente, il suo significato più autentico potremmo dirla così) diversamente l’ente in quanto ente non può esistere ossia è un niente, (questo dice sempre la metafisica, se l’ente non è sostenuto dall’Essere è nulla, è non ente “niente”) “esse non habet creatura nisi ab alio” (cioè l’essere non ha esistenza se non da qualche altra cosa, se qualche cosa dico che è, è perché la posso riferire a qualche cosa, se non potessi riferirla a nulla è un po’ come prendere un elemento linguistico e isolarlo dal linguaggio, cosa diventa? Niente appunto) ora ponendo che la creatura “sibi relicta” (cioè lasciata a se stessa, la “creatura” cioè ciò che è stato creato dal nulla, tenete sempre conto) è un niente, il pensiero metafisico intende differenziare questa affermazione che il “niente” è niente. Come soggetto dell’affermazione tende porre l’ente e come predicato dell’ente pone il niente, (sta dicendo semplicemente che se dico che l’ente è niente allora questo “niente” è ciò che si predica dell’ente, “l’ente è niente”) L’Ipsum esse sussiste (cioè l’ente che sussiste da sé) è l’ente che ha in sé il suo essere, l’ente “sibi relictum” (lasciato a se stesso) non è un niente ma che esista un ente siffatto bisogna di essere capaci di dimostrarlo e la metafisica ha sviluppato in più direzioni questo tentativo di dimostrazione, la metafisica è l’essenziale persuasione che l’ente in quanto ente è niente (però sta dicendo “è niente” cioè è qualcosa, un niente appunto) ma insieme in modo altrettanto essenziale è l’occultamento di questa persuasione mediante la proclamazione dell’opposizione dell’ente e del niente. Il principio di non contraddizione è la posizione della nientità dell’ente espressa, occultata come non nientità dell’ente, il mondo è il luogo dove si crede di toccare con mano l’uscire e il ritornare degli enti nel niente, il loro essere stati è il loro tornare ad essere un niente, ponendo che nel divenire l’ente è stato e torna ad essere un niente, si pensa che l’Essere è un niente. In questo pensiero si manifesta nel modo più radicale l’essenza del nichilismo, per Nietzsche il nichilismo è il processo fondamentale e la stessa legge della storia dell’Occidente (Platone è stato il primo che ha poste le condizioni della metafisica, cioè l’ha creata propriamente, l’ha costruita dicendo che l’immanente, il sensibile, non c’è senza il suo Essere, ma il suo Essere è nell’Iperuranio) Nel suo significato originario esso (nichilismo) è l’infedeltà alla terra che conferisce ogni valore a ciò che sta al di là della terra cioè al niente. Accostandosi all’essenza del nichilismo Heidegger riconosce a Nietzsche di avere intravisto alcuni tratti del nichilismo ma di averli spiegati nichilisticamente, per Heidegger infatti l’essenza del nichilismo è l’interesse per l’ente ossia l’apparire stesso della totalità dell’ente in quanto dimenticanza della verità dell’Essere, la verità dell’Essere è la stessa presenza dell’ente (vi ricordate quello che diceva Heidegger della differenza ontologica “tutta la filosofia occidentale da quando, da Platone in poi, ma anche da prima, ha fatto questa tremendissima confusione fra Essere e ente cioè ha trattato l’Essere che dovrebbe essere per esempio l’idea di Platone e che dà un significato quindi una consistenza, quindi un esistenza all’ente, per Platone è un ente questa idea, è comunque un ente e lo tratta come ente, questa è l’accusa che Heidegger fa alla metafisica del pensiero occidentale, di avere confuso l’Essere con l’ente, questa differenza fra le due cose è quella che lui chiama la “differenza ontologica” che è il fondamento di tutto il suo pensiero) La verità dell’Essere è la stessa presenza dell’ente, l’interesse per l’ente in cui consiste la metafisica culmina con Nietzsche con l’identificazione dell’Essere alla volontà di potenza (per Nietzsche la volontà di potenza procede dal volere controllare, prima identificare, conoscere, manipolare l’Essere dell’ente cioè l’ “idea” per Platone, tanto per intenderci, volere sapere che cos’è, volerla quindi manipolare eccetera quindi la nascita della volontà di potenza per Nietzsche e non solo per lui coincide con la nascita della metafisica, la metafisica è la condizione perché esista la volontà di potenza) nella dimenticanza dell’Essere non vien consentito all’Essere di essere ciò che esso è in quanto Essere, (“lasciare che l’Essere sia quello che è”) non gli è consentito di essere il sorgere e il dischiudersi della presenza in ciò consiste l’uccisione estrema dell’ Essere, sulla base della dimenticanza dell’Essere la metafisica lo identifica all’ente e la totalità dell’ente diventa oggetto di produzione e distruzione tecnica.