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24 maggio 2023

 

I concetti fondamentali della filosofia aristotelica di M. Heidegger

 

Questa sera volevo parlarvi di una cosa che ha molto a che fare con ciò che stiamo facendo. Mi è stata segnalata una conferenza di Massimo Cacciari, un filosofo allievo di Severino. Cacciari tenne una decina di anni fa una conferenza dal titolo Della cosa ultima. L’ho ascoltata e ci sono delle cose su cui merita soffermarsi. La cosa ultima è quella cosa che il pensiero degli umani ha sempre cercato, l’ultima o la prima, che poi spesso si sovrappongono. Il discorso di Cacciari muove da una considerazione che lui fa avviare da alcune questioni poste da Platone nella Lettera VII, dove Platone rimprovera Dionisio, che è stato suo allievo e che si vantava di avere appreso da Platone tutto quello che c’era da sapere, Platone lo rimprovera di non aver capito niente. Questo perché la cosa fondamentale che doveva intendere è che c’è qualcosa di non predicabile, che rimane comunque qualcosa di non dicibile, ineffabile, non conoscibile. Il discorso di Cacciari muove anche dalla prima proposizione del Tractatus di Wittgenstein, dove anche lì emerge questo aspetto, cioè un qualche cosa di non dicibile. Cacciari sa perfettamente che qualunque cosa, per essere qualcosa, deve essere in relazione con altro. Ma qui lui pone un’obiezione e vira decisamente verso la metafisica. Se io parlo, parlo di qualcosa, questo qualche cosa di cui parlo deve precedere il mio dire, dev’esserci già prima che io ne possa parlare, perché se non c’è non ne posso parlare e, quindi, c’è prima che io ne parli. Non solo ma questa cosa deve essere quella che è e restare quella che è, perché se muta allora io non so più di che cosa sto parlando; se sto parlando di quella cosa, quella cosa deve permanere quella che è. Cacciari sembrava, almeno apparentemente, favorevole a questa posizione per cui c’è qualcosa di non predicabile, perché lui sa che se qualcosa è predicabile vuole dire che è in una relazione. Dunque, apparirebbe esserci qualcosa che non è in relazione. Questo quid sarebbe qualcosa che non è predicabile, quindi, non è in relazione con altro; tuttavia, è la condizione del dire, perché se dico, dico qualcosa. Ma questo qualcosa dove l’ho preso? Adesso vi ho detto molto rapidamente la questione centrale dell’intervento di Cacciari, ma la questione è questa: è possibile, dunque, che ci sia qualche cosa di non dicibile, di ineffabile, qualcosa che, in definitiva, precede il linguaggio? Per questo dicevo di una svolta metafisica: qualcosa che è quello che è, che rimane quello che è e che è la condizione perché io possa dirne: per potere dirne di qualcosa occorre che ci sia qualcosa di cui poter parlare. Qual è la questione che sta ponendo? Come avete notato, è una questione sulla quale stiamo lavorando, anche con Heidegger, perché porre il linguaggio come relazione significa affermare che non c’è nulla che non sia relazione; se qualcosa non fosse relazione allora non sarebbe. In tutto ciò naturalmente dobbiamo sempre tenere conto del fatto che stiamo utilizzando un processo inferenziale, con tutto ciò che questo comporta, naturalmente. Ma, al di là di questo, come so che questo qualcosa di ineffabile esiste? Nel discorso di Cacciari lo so per via inferenziale, per una serie di argomentazioni, e sono queste argomentazioni che fanno esistere questa cosa. Questo è già un aspetto interessante. In fondo, è ciò che ha fatto Anselmo, e cioè ha costruito un’argomentazione corretta, vera e, quindi, il teorema, che coincide con l’esistenza di Dio, dice che Dio esiste necessariamente. Potremmo formulare questo prova ontologica di Anselmo anche in un altro modo: se Dio esiste allora c’è l’eterno. L’eterno c’è? Sì, lo sto pensando, quindi c’è. Ma se c’è l’eterno, e se l’eterno è Dio, allora Dio esiste. È un altro modo di formulare la stessa cosa. Con questo ho provato l’esistenza di Dio? No, non ho provato assolutamente niente, ho costruito un’argomentazione. Come potete notare, nell’argomentazione di Cacciari è il conseguente che fa esistere l’antecedente: se parlo, parlo di qualcosa, quindi, questo qualcosa esiste prima che io parli, perché se parlo questo qualcosa deve esserci già per poterne parlare. Potremmo anche dire che è logicamente corretto. Ma dove sta il problema? L’altra volta dicevo del negativo che accompagna sempre il positivo. Ora, seguendo questa stessa argomentazione, potremmo affermare che siccome c’è il linguaggio allora c’è anche il non-linguaggio, cioè, faccio esistere il non-linguaggio utilizzando questa modalità. Avevamo detto che è il linguaggio che ci consente di affermare tutto questo, cioè, posso affermare che non c’è linguaggio perché lo sto dicendo. E qui torniamo a una questione importante: parliamo sempre e soltanto di parole. L’idea che possa esistere qualche cosa fuori della relazione – fuori del linguaggio, in definitiva – è la stessa idea di Anselmo, cioè fare esistere Dio attraverso un’argomentazione. Che poi, se ci pensate bene, è ciò che accade sempre: quando qualcuno conclude un suo ragionamento e la sua conclusione gli pare vera, gli appare Dio, in un certo qual modo, perché è quella; è come se avesse costruito Dio, fatto esistere Dio. A questo punto ciò che possiamo dire è che il dire è ciò che fa esistere letteralmente le cose, perché fa esistere anche Dio, come ha fatto Anselmo – d’altra parte, per molto tempo è stata accolta la sua prova ontologica dell’esistenza di Dio. Che cosa sfugge nell’argomentazione di Cacciari? Intanto, che, se pongo qualcosa come irrelato lo pongo come non esistente, perché se prendiamo sul serio questa affermazione – cosa che potremmo anche fare – se è irrelato è irrelato anche con la sua stessa esistenza e, dunque, non esiste. Ciò di cui non posso dire, non posso sapere, ecc., in che modo posso affermare che esiste? Per un atto di fede. D’altra parte, la fede è ciò che utilizziamo continuamente: la fede che ciò che si afferma rimanga quella cosa lì. Tu, Gabriele, per esempio, nei tuoi calcoli scrivi 5, ma quando poi procedi nel calcolo non è che lo tieni sempre d’occhio perché non cambi, ma hai fede che rimanga quello che è, sennò sarebbe un grossissimo problema. Parlando avviene la stessa cosa: io ho fede che ciò che dico permanga, e se dico che il linguaggio è relazione ho fede che questa mia affermazione non muti tra un quarto d’ora ma che rimanga quella. Ma cosa vuol dire che ho fede che sia così? Vuol dire che voglio che sia così, che io impongo sia così, ed è per questo che il 5 non cambia, perché è quello che tu vuoi che sia, per cui rimane quello che è, perdura perché tu vuoi che perduri. Non è un fenomeno metafisico il fatto che qualcosa permanga, non significa niente di per sé, ma io voglio che rimanga quello e, quindi, rimane. Rimane perché io l’ho inventato, io ho detto che cos’è e io voglio che continui a essere ciò che io ho stabilito che è e lui continua a essere ciò che io ho stabilito che sia. Questo ci porta su un’altra questione, che appare immediata, e cioè che le cose sono come io voglio che siano, quando invece tutto appare al contrario. Perché è così che mi appare, e cioè che tutto quanto vada per i fatti suoi e non come voglio io. Da qui un fastidio che si avverte spesso. Quindi, come approcciare questa questione? Da una parte, appare che le cose siano necessariamente come voglio che siano, perché per poterle utilizzare devono essere quelle che sono, ma possono essere quelle che sono solo e soltanto se io le faccio essere nel modo che voglio io. Qui ha ragione Heidegger, e prima di lui Aristotele, a soffermarsi sul πάθος, sull’emozione: soddisfazione e insoddisfazione, piacere e dispiacere. Questa cosa è esattamente come voglio io, ma che il 5 rimanga sempre il 5 non ti garantisce che alla fine il calcolo sia corretto. Questa cosa, che io stabilisco essere quella che è, poi ha effetti, cioè si connette con altre cose che possono sfuggire al mio controllo. In che modo? Se ci atteniamo alle emozioni, al πάθος, allora dovremo dire che la mia soddisfazione dipende dal fatto che ciò che il mio discorso produce vada sempre nella direzione che io voglio che prenda. Ma so esattamente qual è la direzione che voglio che prenda? Potremmo dire almeno: non sempre. Accade che qualche cosa evochi – ci atteniamo sempre al πάθος – qualche altra cosa che interviene a compromettere una catena che sto costruendo, per esempio, un pensiero che dice “guarda che se vai in questa direzione può succedere quella cosa là”. Ovviamente, non lo so se succederà, però c’è questa possibilità e io posso accogliere questa possibilità come certezza, cioè succederà quella cosa tremenda che io pavento. Perché compio questa operazione così strampalata? Perché è l’unico modo che gli umani conoscono per gestire l’imponderabile; la cosa può andare bene o male, e se io decido che andrà male la gestisco. Certo, è un modo, come dicevo, strampalato di porre la questione, però è il tentativo estremo di porre un argine a quella cosa che chiamiamo imponderabile, che, badate bene, non è l’ineffabile, l’indicibile, l’impredicabile. L’imponderabile è ciò che non è pensabile, e che cosa non è pensabile? La risposta è semplice: è il non-pensiero. Quindi, che cosa si teme di fronte all’imponderabile (sarebbe sempre il caso di dire: ciò che noi chiamiamo imponderabile)? L’insorgere del non-pensiero. Ma può sorgere il non-pensiero? È una contraddizione in termini: se sorge è perché lo penso, e se lo penso non è non-pensiero. Però qui possiamo tornare alla questione da cui siamo partiti per tentare di chiarirla, e cioè il mio dire è nulla finché non dice ciò che dice. Quindi, il mio dire è nulla “in attesa” di ciò che dico – che ho posto tra virgolette perché detta così sembra che succeda prima l’una e poi l’altra cosa, ma non è così – ma il mio dire, senza il ciò che il mio dire dice, è nulla, non c’è. Questa probabilmente è la questione che ha inquietato moltissimo gli antichi, e cioè che il mio dire dipende sempre da ciò che il mio dire dice. È come se non potesse esistere da solo, non può neanche dirsi, perché se lo dico, dico ciò che il mio dire dice: ecco l’ineffabile. Ma questo ineffabile non sta da qualche parte messo lì come una sorta di maledizione di qualche dio beffardo, è in ciò che dico. Ciò che è sempre stato inteso come l’ineffabile, l’impredicabile, è sempre stato lì ed è sempre lì e continua a dire che non posso dire il mio dire senza ciò che il mio dire dice: è il famoso λέγειν τί. Ora, tutto ciò potrebbe apparire astratto e complicato, in parte anche lo è, ed è il problema che da sempre si è cercato di ovviare, per esempio, con la metafisica ponendo l’impredicabile da qualche parte: sta lì, nessuno sa che cos’è, però c’è, però c’è perché se parlo, parlo di qualche cosa e, quindi, questo qualche cosa doveva già esserci. Sarebbe come porre la questione in questi termini, cioè, il mio dire c’è necessariamente perché dice qualcosa. Ma il problema è che finché non dice qualcosa non c’è. La questione si risolve facilmente, come poi l’ha risolta Hegel, con la simultaneità, che lui chiama Aufhebung, integrazione, per cui non c’è uno senza l’altro. Il dire non posso dirlo – come faccio a dirlo? – devo dire qualcosa, che non è già più il dire ma è il qualcosa, il τί: ecco apparentemente l’ineffabile. Non c’è l’ineffabile propriamente, perché nel momento in cui c’è il dire c’è il ciò che il dire dice, e non può non esserci. Per cui dire, come fa Cacciari, che se dico, dico qualche cosa e questo qualche cosa preesiste al mio dire, non è propriamente corretto, perché dico qualcosa, certo, ma questo qualcosa non preesiste al mio dire. È il dire che fa esistere ciò che il dire dice: questa è la prima forma di esistenza, è la prima cosa che posso dire che c’è, e da qui poi tutte le altre. È in questo movimento tra il dire e ciò che il dire dice, tra il λέγειν e il τί, che qualcosa appare, esiste; è in questo movimento, dove non c’è prima il λέγειν e poi il τί o viceversa, no, sono simultanei. È solo intendendo la simultaneità che si dissolve il problema, che Hegel aveva già dissolto, e Cacciari conosce molto bene Hegel. Sia come sia, diciamola così: il dire è posto come l’indicibile, perché non posso dire il dire se non dico che cosa sto dicendo, quindi, se il dire c’è è perché c’è ciò che il dire dice, sennò non c’è. È questo il senso della coappartenenza, di cui parla anche Heidegger: si coappartengono, nel senso che non può darsi l’uno senza l’altro, non può in nessun modo: questo è il linguaggio, questa è la relazione per antonomasia. Ciò che sta dicendo qui Heidegger, le ultime cose che abbiamo lette, vanno proprio in questa direzione. Quando parla brevemente, troppo brevemente, del processo inferenziale, del se-allora, dice che il “se” fa un balzo in avanti, è come se afferrasse l’“allora” e lo tirasse verso di sé – perdonate questa figura un po’ squinternata, ma è giusto per dare un’idea. Il “se” è come se si precipitasse sull’“allora” traendolo verso di sé, ma è a quel punto che c’è il “se”, non c’è prima dell’“allora”. Ecco la coappartenenza, che significa sempre e soltanto questo: non può darsi in nessun modo l’uno senza l’altro. È questo che rende conto del funzionamento del linguaggio. Anche che il linguaggio sia una relazione, e lo sarà anche tra un quarto d’ora perché io voglio che sia così, non è lui che ha deciso ma io, io che sono linguaggio, naturalmente. Cioè, io devo fissare qualche cosa per poterlo utilizzare. Per potere utilizzare questa espressione, cioè che il linguaggio è relazione, devo fissarla, cioè devo volere che rimanga questa cosa qui. Il che potrebbe apparire paradossale, perché affermare che il linguaggio è relazione significa appunto che ciascuna cosa è quella che è sempre in virtù di un’altra e, quindi, non è mai quella che è. Come faccio a stabilirlo? Nello stesso modo in cui stabilisco che il re di cuori vale di più del sette di picche: come faccio a stabilirlo? Stabilendolo, non ho un altro modo, cioè, decido che è così. Come dicevo, potrebbe apparire una formulazione paradossale dire che il linguaggio è relazione e che questo permane: come fa a permanere se proprio il linguaggio, essendo relazione, è sempre altro da sé? È una contraddizione in termini. No, perché è sì sempre altro da sé, ma io fermo qualcosa attraverso l’inferenza e la utilizzo come se fosse effettivamente ferma, sennò non la posso utilizzare, non parleremmo nemmeno; cioè, compio questa operazione dove io voglio che quella cosa sia quella lì, voglio che il 5 rimanga il 5 anche alla fine del calcolo. Tutto questo ci porta a considerare anche meglio tutto ciò che diceva Heidegger e al suo insistere rispetto alla finitezza. Perché deve essere finito? Se ogni cosa è sempre κατά τίνός, sempre rivolta a un’altra, come fa a essere finita? Lui si accorge che il modo per renderla finita è il processo inferenziale: se questo allora quest’altro e non un’altra cosa. Chi l’ha stabilito? Io, e avendolo stabilito è così. Posso provarlo? Assolutamente no. Provare qualche cosa, sappiamo bene di che cosa è fatto questo procedimento. È semplice, si stabiliscono delle regole, ci si attiene a quelle regole e si dice, in base a quelle regole, naturalmente totalmente arbitrarie, che è così. Alcune volte funziona, cioè, ci si possono costruire sopra cose imponenti, così come la matematica, la geometria, ecc., altre volte no, e allora si butta via tutto, succede anche questo, non è una cosa così strana. Tutto questo come lo ritroviamo in atto ogni volta che parliamo, che apriamo bocca? Lo ritroviamo così: io dico e dicendo dico qualcosa. Questo qualcosa è ciò che si produce in questa relazione, è un prodotto, una ποιησις – Heidegger qui parla spesso di ποιησις, ma soprattutto parla di τέλος, della compiutezza. Ogni volta che dico, dico qualcosa e questo qualcosa lo faccio esistere, esattamente così come Anselmo ha fatto esistere Dio, allo stesso modo: ogni volta che affermo qualcosa faccio esistere Dio. È per questo che abbiamo detto spesso che il linguaggio è volontà di potenza; non è che la volontà di potenza sia nel linguaggio, la volontà di potenza “è” il linguaggio, è questo produrre, questo creare, creare Dio ogni volta che si afferma qualcosa. Questo è il motivo per cui è irrinunciabile parlare. Questo lo aveva notato anche Spinoza, quando diceva che le persone non riescono a stare zitte, neanche quando dovrebbero, è più forte di loro, devono dire quello che passa loro per la testa, non riescono a trattenerlo in nessun modo. Perché? Perché il dire è la manifestazione della volontà di potenza, perché nell’affermare faccio esistere Dio. E se lo faccio esistere vuol dire che io sono al di sopra.

Intervento: …

Sì, la logica da questa illusione, come abbiamo detto in varie occasioni, di creare dio. Il teorema finale è dio, funziona come dio. Ma perché funzioni questa illusione, questa idea, è sempre necessario – questo Hegel lo aveva inteso bene – tenere separate le cose. Questo già in Platone: buoni e cattivi, il bene è l’uno, l’uno che è il dire, che non riesco a fermare a causa dei molti. È come se avesse tentato di separare il dire da ciò che il dire dice, il λέγειν e poi il τί, ma non si può fare perché sono la stessa cosa, sono lo stesso. Quindi, porre l’innominabile, l’indicibile, l’ineffabile, l’impraticabile, ecc., è continuare a compiere questa separazione, immaginare che sia possibile. No, non esiste, non c’è questa cosa, non c’è perché se la immagino, se la penso, è già nella relazione, è già per qualche cos’altro, è già un κατά τίνός, è già per altro. Accogliere questo nel proprio discorso è estremamente difficile, è forse la cosa più difficile, perché significa non avere più il nemico. E se non ho più il nemico che cosa faccio, di cosa parlo? Ci vuole qualcosa, sennò di che cosa parlo? Ecco perché Aristotele aveva pensato al dio, che è pensiero di pensiero, un pensiero che pensa se stesso: questo è il dio. Si rendeva conto che gli umani devono sempre pensare qualcosa, non il pensiero ma qualcosa che è presupposto fuori del pensiero, naturalmente. Gli umani vivono in questo modo da sempre.

Intervento: L’imponderabile…

Sì. Situarlo da qualche parte è una forma estrema, anche se vana, di controllo. Determino qualcosa come imponderabile, lo determino, comunque è una determinazione.

L’indeterminabile, per sua natura, è determinato in quanto indeterminabile; è già determinato, sennò non sarebbe mai esistito. Il lavoro che stiamo facendo in alcuni casi può apparire complesso e sicuramente lo è, anche perché la lettura di Heidegger non è mai semplice, richiede sempre e comunque lo sforzo del concetto, come diceva Hegel, perché dà sempre da pensare. Come si fa a pensare il pensiero? Abbiamo stabilito che pensare il non-pensiero non riesce tanto bene. Come posso pensare il non-pensiero o, per dirla in un altro modo, come parlo senza parola? Dunque, come pensare il pensiero? Gentile si era soffermato sulla questione, anche se non era andato molto lontano. Anche per lui il pensiero pensante rimane comunque l’ineffabile perché non posso fermarlo se non come pensiero pensato. Vedete, è sempre quella la questione, che si ripete all’infinito se non si intende la cosa più semplice, e cioè che si coappartengono, che non c’è l’uno senza l’altro. Ma se pongo la questione in questi termini, di nuovo, non so più cosa fare perché non c’è più il nemico, non c’è più il qualcosa che non va da ricondurre al qualcosa che va, sempre come voglio io ovviamente. Dunque, pensare il pensiero, potremmo dirla così, non è niente altro che questo: tenere conto in ciascun atto di parola che ciò che sto dicendo sta creando qualcosa. Che cosa? Un’infinità di cose. E io sono lì che “osservo” – tra virgolette perché sono simultaneamente tanto spettatore quanto attore –che cosa il mio dire sta creando. Quale dio sto creando in questo momento? Quello con il triangolino, quello dei musulmani, ecc.? il dio si sa che è eterno… Questo è anche il problema di Severino quando pensa gli eterni: se qualcosa è eterno vuol dire che non è in relazione con altro; se non è in relazione con altro non è, semplicemente. Gli antichi, anche Aristotele, avevano capito molto bene il κατά τίνός: non si può togliere, anche Platone lo diceva, il λέγειν è sempre un τί κατά τίνός, un dire qualcosa su qualche cos’altro. È questo il λόγος: è la simultaneità di queste cose, senza le quali il λόγος non c’è, non esiste, non sarebbe mai esistito. Su questo hanno sempre insistito gli antichi: il λόγος è il λέγειν τί κατά τίνός, non è il λέγειν, non è il τί né il κατά τίνός, ma è queste cose simultanee, è la coappartenenza di queste cose. Potremmo dire che è questo il modo più appropriato di intendere il τέλος, il compimento: il compimento è il dire qualcosa in quanto qualche cos’altro, non importa cosa sia. Quando dico “se piove prendo l’ombrello”, il fatto che prenda l’ombrello è facoltativo, posso fare infinite cose, però la proposizione è chiusa, è compiuta. Quindi, è questo il pensare il pensiero, che può sembrare banale, rozzo: quale dio sto creando in questo momento? Perché è quello che sto facendo: sto creando un dio. Il mio dire crea un dio dicendo qualcosa e questo qualcosa è ciò che rende la cosa compiuta, finita, utilizzabile, maneggiabile, soprattutto eterna, perché ogni volta che affermo qualche cosa è come se lo affermassi, dicevano i medioevali, sub specie æternitate, come se fosse eterno, cioè, qualcosa che non cambia. Certo che non cambia – lo abbiamo detto – perché io non voglio che cambi, per cui rimane quello che è, come l’asso che nel poker rimane un asso, non si trasforma in altro, sarebbe seccante. Quindi, pensare il pensiero è tenere conto che ogni volta che affermo qualcosa creo un dio eterno. Naturalmente, con tutto ciò che questo comporta, perché una cosa del genere innesca, con una certa probabilità, immediatamente una guerra di religione perché ciascun altro fa la stessa cosa. A pag. 262. Il pensiero non è altro che questo πρός: in base al suo essere, il pensiero esige di essere aperto “a” altro, il suo essere non può essere né compreso né primariamente colto se non si dà l’a che, ciò a cui tale essere, in quanto percepire, avere paura, ecc., tende in se stesso. Questo solo per sottolineare l’insistenza di questo aspetto: il λόγος è sempre e necessariamente λέγειν τί κατά τίνός.