M. Heidegger, Essere e Tempo
24 maggio 2017
Siamo a pag. 180. Stavamo parlando della comprensione come apertura. Infatti, dice Proprio perché la comprensione coinvolge sempre l’intera apertura dell’Esserci come essere-nel-mondo, il risolversi della comprensione per una possibilità è una modificazione esistenziale del progetto nella sua globalità. È un po' come il concetto di struttura, cioè, la possibilità che si intraprende modifica l‘Esserci stesso. A pag. 181. Esistendo, l’Esserci scorge “se stesso” solo se è divenuto cooriginariamente trasparente a se stesso nel suo esser-presso il mondo e nel suo con-essere con gli altri, quali momenti costitutivi della sua esistenza. È un altro modo per dire ciò che ha appena detto. L’Esserci si accorge di se stesso a condizione di considerarsi di essere preso nel mondo, di esser-presso il mondo, di con-essere con il mondo, e di considerare tutte queste cose come momenti costituitivi della sua esistenza, cioè, io esisto, sono qui, in quanto c’è un là. Poco dopo considera il termine “visione” che, dice, dev’essere messo al sicuro da un pericoloso malinteso. Esso corrisponde a quella diradatezza che è caratteristica dell’apertura del Ci. Il “vedere” non significa la visione oculare e neppure la visione pura e non sensibile della semplice-presenza del suo esser-presente. Sta dicendo che la visione, di cui sta parlando, non c’entra niente con la visione dello scienziato, dell’osservatore, che immagina di essere un soggetto che osserva un oggetto che è lì per conto suo. La determinazione del significato esistenziale della visione fa appello esclusivamente a quella caratteristica del vedere per cui esso lascia venire incontro come disvelato in se stesso l’ente in questione. Che è un altro modo per dire che la visione, per potere darsi, necessita dell’apertura, necessita della comprensione. Quindi, la visione, così intesa, segue alla comprensione, non la precede. Questa è certamente la funzione svolta da ogni “senso” nell’ambito del proprio genuino campo percettivo. Sta aggiungendo che anche il senso di qualche cosa non precede la comprensione ma la segue. Mostrando che ogni visione si fonda primariamente nella comprensione (la visione ambientale preveggente del prendersi cura è il comprendere come comprensione assennata), si sottrae all’intuizione pura il suo primato, che noeticamente corrisponde al tradizionale primato ontologico della semplice-presenza. (pagg. 181-182) La visione ambientale preveggente è quel modo di accostarsi alle cose che muove dal fatto che qualche cosa si manifesta, esce dal nascondimento e si mostra, appare. Che è poi la nozione di ἀλήθεια. Dunque, si sottrae questa visione dal primato ontologico della semplice presenza, che è quello della filosofia tradizionale. La semplice presenza, per Heidegger, è l’esistenza della cosa. Anzi, lui ha precisato nelle pagine precedenti, parla di esistenza quando si tratta dell’Esserci, cioè l’uomo, e di semplice presenza quando si tratta di cose. Quindi, immaginare che qualche cosa possa apparire come semplice presenza è immaginare che possa darsi indipendentemente dall’Esserci, dall’uomo. Il progettarsi in possibilità presuppone già la comprensione dell’essere. Abbiamo già visto il progetto non è altro che un aprirsi alle possibilità. Questa comprensione, questa apertura, è per Heidegger la condizione perché avvenga qualunque cosa. Questa apertura, che poi non è altro che il disvelarsi di qualche cosa, l’uscire dal nascondimento. Nel progetto, l’essere è compreso ma non è elaborato in concetti ontologici. Dice che nel progetto, cioè, nell’accostarsi a una possibilità, questa non è ancora un’operazione ontologica, nel senso che intende lui, e cioè un modo per accorgersi dell’Esserci. L’ente che ha il modo di essere essenziale della progettazione dell’essere-nel-mondo porta con sé la comprensione dell’essere come costitutiva del suo essere. Ciò che precedentemente abbiamo postulato in modo dogmatico riceve ora la sua legittimazione in base a quella costituzione d’essere per cui l’Esserci, in quanto comprensione, è il suo Ci. Dice che la cosa fondamentale è che è il Ci dell’Esserci che possiamo intendere come comprensione. Ma questo Ci dell’Esserci è qui, è l’essere qui, adesso, in questo momento. Quindi, l’apertura è il trovarsi a essere qui, in questo momento, cioè, l’accorgersi di essere qui, in questo momento, è ciò che consente intanto di situarmi storicamente ed è ciò che fa esistere, per così dire, gli enti, perché soltanto se c’è questa apertura, dice Heidegger, questo ente può venirmi incontro, può apparire. Situazione emotiva e comprensione caratterizzano, come esistenziali, l’apertura originaria dell’essere-nel-mondo. Situazione emotiva e comprensione: questa è l’apertura dell’essere-nel-mondo. Quindi, si è nel mondo in una situazione emotiva e in una comprensione: questo è il fondamento di tutto. È in uno stato emotivo che l’Esserci “vede” le possibilità in base alle quali esso è. L’apertura progettante di queste possibilità è già sempre tonalizzata emotivamente. La progettazione del poter-essere più proprio è consegnata al fatto che l’Esserci è gettato nel Ci. Qui abbiamo un elemento importante. Dice che è in uno stato emotivo che l’Esserci vede possibilità. Uno stato emotivo, di cui parlava nelle pagine precedenti, che potremmo definire come il trovarsi di fronte alla possibilità ma alla possibilità in quanto possibilità di superpotenziamento, è questo che determina uno stato emotivo. Stato emotivo che rileva del fatto che qualche cosa è utilizzabile per il superpotenziamento. È per questo che dice che questa apertura progettante è da sempre tonalizzata emotivamente, perché ciascuna volta questa apertura vede delle cose ma le vede in quanto utilizzabili, ma utilizzabili per che cosa? Per il superpotenziamento. Senza questo, in effetti, diventa tutto molto complicato. Passiamo al paragrafo 32, Comprensione e interpretazione, pag. 183. Qui risulterà abbastanza chiaro che per Heidegger l’interpretazione segue la comprensione e non viceversa. L’Esserci, in quanto comprensione, progetta il suo essere in possibilità. È interessante che dica che l’Esserci è la comprensione, come dire che la comprensione non è altro che il trovarsi qui, in questo momento, a essere tutte le cose che sono presenti nel mio essere qui, in questo momento, e che determinano il mio Esserci. Questo comprendente essere-per le possibilità, a causa del contraccolpo che le possibilità, in quanto aperte, hanno sull’Esserci, è anch’esso un poter-essere. È un circolo vizioso. Questo comprendente, cioè, di essere le mie possibilità, ha, dice, un contraccolpo perché questa possibilità, nel momento in cui si mette in atto, mi modifica di nuovo e io, che sono modificato, incontro altre nuove possibilità, e così via. A questo sviluppo del comprendere diamo il nome di interpretazione. Quindi, l’interpretazione sarebbe, in un certo senso, questa sorta di circolo vizioso in quanto io mi apro a delle possibilità e queste possibilità modificano il mio Esserci, il quale Esserci, modificato dalle varie possibilità, apre di nuovo ad altre possibilità. Ecco, a tutto questo Heidegger dà il nome di interpretazione. L’interpretazione notoriamente è il modo di conoscere, il modo con cui ciascuno ha la possibilità di intendere che cosa sia un qualche cosa. Quindi, dicendo che questa sorta di circolo vizioso è l’interpretazione ci sta dicendo che la conoscenza è un circolo vizioso: io conosco qualcosa, conoscendo questa cosa, per Heidegger questa cosa mi modifica, aprendomi a questa cosa sono modificato da questa cosa perché cambia il mio mondo, modificandomi mi apre ad altre possibilità. Ecco, la conoscenza, l’interpretazione, per Heidegger è questo. In essa la comprensione, comprendendo, si appropria di ciò che ha compreso. È ciò che dicevo prima: comprendendo si appropria di questo e appropriandosene si modifica. L’interpretazione si fonda esistenzialmente nella comprensione: non è dunque questa a derivare da quella. L’interpretazione non è la presa del compreso… come avviene nella scienza o come intendendo letteralmente la comprensione, come una com-prensione, nel prendere assieme varie cose per trarne una conoscenza. Dice, quindi, che non è la conoscenza del compreso …ma la elaborazione delle possibilità progettate nella comprensione. L’interpretazione non è, quindi, la presa di conoscenza di qualche cosa ma la considerazione delle possibilità che mi dà il progettare qualcosa. Quindi, la comprensione è la considerazione delle possibilità che il comprendere, nell’accezione di Heidegger, mi fornisce, delle possibilità che questa apertura mi consente. Pertanto, la comprensione non è l’afferrare qualche cosa ma il cogliere le possibilità che questo qualche cosa mi sta offrendo.
Intervento: La comprensione sembra qualcosa di originario. Si potrebbe fare un riferimento al discorso. Ciascuno si trova in un particolare discorso e questo comporta che apra a delle possibilità. Il discorso è inoltre ciò che consente di interpretare, di conoscere, come dire che l’interpretazione è sempre in funzione del discorso, del progetto, in cui mi trovo. È questo discorso che mi consente di interpretare in un certo modo, che io colga delle possibilità piuttosto che altre e che di volta in volta mi modificano.
Facciamo un esempio. Supponiamo di interpretare un fatto, un evento qualunque. Allora, da una parte c’è la comprensione, diciamo, scientifica, che vuole sapere esattamente che cos’è quella cosa e dall’altra parte c’è, invece, il cogliere tutte le possibilità di progettazione che questo evento mi offre. Quindi, non c’è più la ricerca del “che cos’è?” ma il cogliere delle possibilità che questa cosa, aprendosi, mi dà. Muovendo dalla significatività, aperta nella comprensione del mondo… La significatività, come abbiamo visto, si apre nel momento in cui c’è una comprensione del mondo, cioè, io mi trovo a sapere che sono il mondo in cui mi trovo. … l’esser-presso l’utilizzabile prendendosene cura comprende quale appagatività possa avere luogo con l’ente che via via si incontra. È esattamente quello che vi dicevo prima. L’esser-presso l’utilizzabile prendendosene cura, cioè, ponendolo come problema, interrogandolo, comprende quale appagatività possa avere luogo, ovvero, prendendomi cura di questa cosa comprendo a che cosa poi, di fatto, mi serve, come posso utilizzarlo per il superpotenziamento. Che la visione ambientale preveggente scopra, significa che essa interpreta il “mondo” già compreso. Devo già avere compreso perché tutto questo possa darsi, perché io possa accorgermi di essere nel mondo, cioè, devo già essere nel linguaggio. L’utilizzabile accede esplicitamente alla visione comprendente. (pagg. 183-184) Ciò vuol dire che l’utilizzabile è tale in quanto preso nella comprensione, in quanto preso nella progettualità. A questa condizione, cioè, se è preso nel progetto, è utilizzabile, ovviamente, sempre per il superpotenziamento. Ogni apprestare, ordinare, assestare, migliorare, completare, si realizza in modo tale che l’utilizzabile ambientale è esplicitato nel suo “per” e diventa oggetto del prendersi cura proprio in base a questa esplicitazione. Ogni elemento che interviene nel progetto è un utilizzabile “per” qualche cosa, la sua esistenza è tale “per” qualche cosa, cioè, è sempre preso in un rinvio. E, infatti, dice che è il fatto di essere compreso nel suo “per”, nel suo utilizzo, che lo determina in quanto qualcosa, che è un qualcosa in quanto qualcosa, che è un qualcosa in quanto utilizzabile per qualche cosa. È esattamente, se vi ricordate, ciò che diceva rispetto al tempo, tempo “per” qualche cosa, è soltanto se è tempo “per” qualche cosa che io posso avere a che fare in qualche modo con il tempo. Quando la visione ambientale preveggente chiede che cosa sia un determinato utilizzabile, la risposta conforma alla visione ambientale preveggente è la seguente: “esso è per…”. Quindi, non è che questo sia questo ma la risposta alla visione ambientale, cioè, la risposta conforme all’Esserci, al progetto, è che questo è quello che è in quanto è “per”. L’indicazione del per-che-cosa non è semplicemente la denominazione di qualcosa; ciò che è denominato viene compreso in quanto costituisce ciò che in quanto tale è chiamato in questione. Questo essere “per” non è, dice, la sua definizione ma il fatto che questo essere “per” è il modo con cui si comprende la cosa, e non ce ne sono altri. È questo che sta dicendo: io comprendo qualche cosa in quanto questo qualche cosa è un utilizzabile, e cioè è un qualche cosa “per” qualche cosa: questo è il modo per comprendere. Il commercio con l’utilizzabile del mondo-ambiente, che interpreta secondo la visione ambientale preveggente… quindi, interpreta secondo quello che io sono, secondo l’Esserci … e che “vede” l’utilizzabile in quanto tavolo, porta, vettura, ponte, non deve necessariamente rendere esplicito in una asserzione che lo determini in ciò che esso interpreta secondo la visione ambientale preveggente. Il modo con cui io ho a che fare con qualche cosa non deve necessariamente esplicitare questo qualche cosa attraverso una asserzione, “questo è quello”. Ogni semplice visione antepredicativa dell’utilizzabile è già in se stessa comprendente-interpretante. Nel momento in cui io mi accosto a qualche cosa, cioè lo comprendo in quanto utilizzabile, questo movimento è già il comprendere e l’interpretare, è il fatto di coglierlo come un utilizzabile nel mio progetto, l’essere qualche cosa che è “per” qualche cosa nel mio progetto, cioè mi offre delle possibilità. Ma proprio la mancanza dell’“in quanto” non sta a testimoniare che ci troviamo innanzi alla pura e semplice percezione di qualcosa? Se manca l’“in quanto”, cioè, questo è quello che è “in quanto” serve a metterci le cicche, se non ho la consapevolezza, usando le sue parole, della appagatività di questo aggeggio, allora non ci troviamo di fronte a una pura e semplice percezione di una semplice presenza? No, perché il vedere di questa visione è già sempre comprendente-interpretante. Quindi, non c’è questa cosa qui, la mancanza dell’“in quanto”. La mancanza dell’“in quanto” è il sogno della scienza, che considera la cosa non in quanto utilizzabile, non in quanto preso in una possibilità, ma in quanto se stesso. Lui dice di no, perché il vedere di questa visione è già sempre comprendente-interpretante, cioè, io posso vedere solo a questa condizione, che questo aggeggio sia qualche cosa “per”, non in quanto se stesso ma in quanto possibilità per l’Esserci. Esso cela in sé la presenza esplicita delle relazioni di rimando (del “per”) proprie della totalità di appagatività entro la quale ha luogo la comprensione dell’ente che semplicemente si incontra. Questo spiega il suo no di prima, perché questa cosa cela in sé la totalità di appagatività, cioè, tutte le relazioni che intesse con altri elementi, che sono la comprensione, l’essere nel mondo… Diciamola in un altro modo. È il prodotto di una serie di relazioni con altri enti, serie di relazioni che sono il mondo in cui io mi trovo, in relazione con il tavolo, in relazione a me, in relazione con tutto. È questo essere preso all’interno di una relazione che lo fa essere quello che è per me, e cioè un utilizzabile, una possibilità. L’articolazione del compreso, quale ha luogo nell’approccio che interpreta l’ente seguendo il filo conduttore dell’“in quanto qualcosa”, precede ogni asserzione tematica sopra l’ente stesso. Compreso, nell’accezione che intende lui, cioè, compreso in quanto è qualcosa per qualche cos’altro, questo precede qualunque messa a tema dell’ente stesso, qualunque modo io intenda cogliere questo aggeggio. Attenendoci a Heidegger, per potere vedere questa cosa occorre che questa cosa sia nel mio mondo, per essere nel mio mondo occorre che si apra a delle possibilità, e solo a questa condizione un qualche cosa è un qualche cosa. Il che è lontanissimo dal discorso che fa la scienza: questo qualche cosa non è qualche cosa perché è all’interno del mio progetto ma un qualche cosa è qualche cosa per se stesso. Anche quando uno scienziato fa i suoi esperimenti, questi esperimenti non sono fatti soltanto per trovare qualche cosa, ma sono anche un in quanto serve all’Esserci dello scienziato, in quanto gli consente aperture di un progetto. In questo Nietzsche aveva perfettamente ragione, non è mai la pura e semplice volontà di sapere ma è volontà di potenza: uno scienziato fa quella certa cosa per vincere il premio Nobel, per guadagnare di più, per essere più bravo degli altri. Non c’è, direbbe Nietzsche, la volontà pura per la verità, innocente, non esiste. Qualunque cosa, dice oi Heidegger, è sempre riferito a una progettualità, è sempre riferito a un’apertura che questa cosa mi offre, senza tutto questo l’aggeggio non c’è, non si dà, non può darmisi come semplice presenza, dovrebbe essere fuori del mondo, cioè fuori dell’Esserci, dovrebbe essere fuori da un sistema di relazioni che lo fa esistere nel modo in cui esiste per me, in questo momento. A pag. 185. Ma affermare che ogni percezione di un mezzo utilizzabile è comprendente-interpretante e che, nella visione ambientale preveggente, essa lascia che si incontri qualcosa in quanto qualcosa, non vuol dire allora che innanzi tutto si esperisce qualcosa come semplicemente-presente e poi lo si coglie in quanto porta, in quanto casa? Si fa un’obiezione da solo dicendo: se ogni percezione di un mezzo utilizzabile è comprendente-interpretante, nel senso che è preso nella comprensione e nell’interpretazione, e che essa lascia che si incontri qualcosa in quanto qualcosa… se si incontra qualcosa in quanto qualcosa vuol dire che la posso incontrare indipendentemente da me, lo incontro semplicemente in quanto qualcosa. Che è poi la questione fondamentale della fisica: incontro qualcosa in quanto qualcosa, oppure questo diventa, per Heidegger, un qualche cosa se partecipa del mondo, se si apre nel mondo in cui mi trovo e, soprattutto, se è utilizzabile in qualche modo.
Intervento: Qualcosa si conosce solo nel momento in cui se ne comprende l’utilizzo, nel momento in cui si sa cosa farne….
Sa che può essere conosciuta, sa che può essere utilizzata per qualche cosa, cioè, è come se sapesse che è una possibilità e in quanto sa che è una possibilità quel qualcosa è qualcosa.
Ciò equivarrebbe a un’incomprensione della funzione specifica di apertura propria dell’interpretazione. Cioè, non si intende ciò che io sto intendendo con interpretazione. L’interpretazione procede dalla comprensione, è quella sorta di circolo vizioso che la comprensione instaura, l’interpretazione è l’accorgersi di questo circolo vizioso. Io, conoscendo questa cosa, modifico il mio mondo, modificando il mio mondo io stesso ne sono modificato. Questa non riveste per così dire la nudità della semplice-presenza con un “significato”, e non la tappezza con un valore; con l’utilizzabile intramondano che si incontra ha già sempre luogo un’appagatività (aperta nella comprensione del mondo); tale appagatività è fatta emergere tramite l’interpretazione. La funzione specifica dell’interpretazione non nel dare un significato a una semplice presenza, come generalmente avviene: l’interpretazione di qualcosa dà un significato a qualche cosa, cioè, dice che quella cosa è quell’altra cosa. Dice che non la tappezza con un valore ma precisa con l’utilizzabile intramondano che si incontra ha già sempre luogo un’appagatività, con qualunque cosa io mi rapporti, con qualunque cosa che è nel mondo in cui io sono e che io sono, questo ha già da sempre avuto un’appagatività, è già da sempre l’apertura di una possibilità, cioè, del trovarmi nella condizione di avere delle direzioni che posso seguire… per il solo fatto che parlo. Parlando mi trovo preso nel linguaggio e questo linguaggio, questa apertura che mi consente di accorgermi delle cose, quindi, come dice Heidegger, non si tratta di dare un significato alle cose ma queste cose sono già da sempre nel linguaggio. È come se il dare un significato alle cose, in effetti, le facesse esistere in quanto quelle che sono. È il mito della metafisica: dire finalmente che cos’è qualche cosa e, una volta detto che cos’è, questa cosa esiste realmente e posso farne quello che voglio. Però, dice Heidegger, le cose sono più complesse perché non si tratta di dare un significato a qualche cosa perché questo qualche cosa sia, ma questo qualche cosa è già da sempre, perché il solo fatto di trovarsi nel mio mondo, il solo fatto di essere una possibilità che mi si apre, questo lo rende un ente, questo lo rende quello che è, quello che è all’interno del progetto. E qui si intende anche la questione dell’essere dell’ente in Heidegger: questo ente è quello che è per via dell’essere (è una tradizione filosofica, da sempre) ma questo ente è quello che è per via dell’essere, in questo caso dell’Esserci, che io sono. È questo mio Esserci che diventa quell’essere che dà all’ente la enticità. Questo è l’aspetto più complesso ma nello stesso tempo più importante di tutto il pensiero di Heidegger. Mentre la filosofia classica, la metafisica, ha sempre attribuito all’ente un essere che sta da qualche parte - considerando a questo punto lo stesso essere come un ente fra gli altri enti- se, invece, e questa è l’idea di Heidegger, io dico che questo ente trae la sua enticità, sì, da un essere, ma questo essere non è un qualche cosa che sta da un’altra, che non ha a che fare con l’ente… insomma, sono io l’Esserci. E, quindi, questo trae la sua enticità da me, ma da me in quanto cosa? Perché dire “da me” non significa nulla. Trae la sua enticità da me, in quanto progetto, dal mio progetto, cioè, dal mio interesse verso questa cosa, dal mio prendermi cura di questa cosa in quanto possibilità del mio Esserci nel suo progettarsi. A pag. 186. L’interpretazione di qualcosa in quanto qualcosa è fondata essenzialmente mediante la pre-disponibilità, la pre-visione, la pre-cognizione. Tutte cose fornite dal linguaggio, potremmo aggiungere noi. Se non si intende questo, e cioè che sono fornite dal linguaggio, diventa un problema e, allora, anche il pensiero stesso di Heidegger si pone come una metafisica classica, per cui questa pre-disponibilità, questa pre-visione, questa pre-cognizione, sono dati senza essere articolati. Anche la stessa nozione di apertura, certo, è l’aprirsi al mondo dell’Esserci, però, la possibilità di questa apertura, questione su cui altri hanno insistito, non è semplice, perché a questo punto anche l’apertura è un qualche cosa e, essendo un qualche cosa, è un ente e non più l’essere. Se, invece, si pone ogni possibilità di pre-visione, ecc., nel linguaggio in quanto struttura che consente queste operazioni, ecco che allora tutto diventa più semplice, senza avere bisogno di pensare a ipotetici orizzonti in cui le cose appaiono. L’orizzonte è il linguaggio, è il linguaggio in cui mi trovo, che è già da sempre aperto ed è quello che mi consente di trovare altre aperture, di pre-conoscere qualche cosa, perché se non avessi il linguaggio non potrei conoscere nulla. Questa è stata una questione su cui alcuni si sono divertiti a dibattere: per potere conoscere qualcosa, per potere imparare a parlare devo già sapere parlare, perché se non so parlare tutte le informazioni, le indicazioni, che mi vengono fornite, senza il linguaggio sono totalmente prive di senso. Mi occorre il linguaggio per imparare il linguaggio.
Intervento: E da dove viene il linguaggio? Poi, lì ci si perde…
Eh, sì, sembra una questione banale, però, a tutt’oggi non è risolta, come testimonia lo stesso Sini in un suo intervento di qualche anno fa. La questione è aperta, non è l’unica, ma da de Saussure in poi rimane ancora, cioè, per imparare a parlare è necessario sapere già parlare. Come la risolviamo? Come se ne viene fuori? In realtà, non se ne viene fuori a meno che non si incominci a porre un’altra questione. Come accade che a un certo punto un bambino cominci a parlare? Perché glielo si insegna. Sì, certo, ma come glielo si insegna? Anche se questo insegnamento è ostensivo, cioè, se si mostrano le cose, io posso anche mostrare tutto quello che voglio a una scolopendra ma non succede nulla, occorre che questi segnali siano presi come segnali, che una spiegazione sia intesa come una spiegazione. Ecco che allora la domanda: com’è che ad un certo punto un bambino incomincia a parlare? L’abbiamo trasposta rispetto a un’altra cosa che ci è apparsa più semplice da approcciare, cioè: com’è che una cosa, fatta di metallo, di plastica e cartone, a un certo punto comincia a pensare? Cioè, il computer. Come è possibile? A noi interessava, ovviamente, la struttura della cosa, da qui l’interesse in particolare per il lavoro di Turing e da lì abbiamo cominciato a considerare che è possibile fornire delle informazioni e delle istruzioni per processare queste informazioni, perché altrimenti non sono nemmeno informazioni, sono niente. E come avviene questo? Ecco che, riflettendo su questo e risolvendo questo problema, abbiamo potuto fare un passo avanti non indifferente, perché, in effetti, è possibile trasformare un pezzo di materia, come lo è anche un bambino, che è fatto di carne, ossa, ecc., o una macchina, fatta di metallo, ecc., in qualcosa che pensa, qualche cosa che compie quella operazione che noi chiamiamo pensare, e cioè svolgere certe operazioni secondo certe regole, secondo quelle e non altre. E, quindi, sì, è possibile, certo, insegnare a parlare, esattamente così come si insegna a pensare a una macchina, immettendo informazioni e istruzioni, non soltanto per processare quelle informazioni ma per prendere quelle informazioni come informazioni, sennò la macchina, così come un bambino, non lo può sapere.
Intervento: sviluppo del linguaggio come tecnica…
Che l’uomo nasce nel linguaggio vuol dire che riceve informazioni, ma queste informazioni come vengono messe, per esempio, in una macchina? Costringendo la macchina a seguire dei percorsi elettrici semplicissimi e utilizzando degli interruttori, facendo in modo che se passano due fili dall’altra parte, se per esempio vogliamo costruire la negazione, se in un filo passa la corrente e nell’altro non passa, allora facciamo in modo che nel terzo filo non passi. E così in tutti gli altri casi, passerà corrente soltanto se nei due fili passa corrente, allora soltanto in questo caso nel terzo filo passerà corrente. È l’algebra di Boole, in questo modo si è risolto il problema della congiunzione, e così per le altre inferenze. La negazione, la congiunzione, l’oppure, sono stati trasformati in corrente che passa oppure no. È la stessa cosa che avviene per i neuroni, che non sono altro che fili elettrici e interruttori. Se una certa cosa viene immessa, se supera una certa soglia, questa cosa viene trasmessa dall’altra parte del neurone. Il principio è lo stesso; infatti, si è pensato di far funzionare il sistema, il computer, pensando a come funziona il sistema neuronale degli umani e, in effetti, il risultato è stato lo stesso: fili elettrici, passa o non passa corrente, se passa va bene, se non passa va male. Dopo tutto si tratta solo di questo, anche per gli umani: se passa corrente allora l’informazione è acquisita. Con gli umani bisogna insistere un po' perché superino una certa soglia e, difatti, la memoria non è così come nelle macchine, si dimenticano di tutto, sempre. Questo risolve il problema di come si impara a parlare, di come si costruisce dal nulla, prendendo del metallo, della plastica e del cartone, una macchina che, torno a precisare, compie quella operazione che noi chiamiamo pensare, non che pensa, questo è un termine metafisico. Avevamo parlato anni fa, riprendendo Turing, von Neumann, l’algebra booleana, per vedere come era possibile, utilizzando solo fili elettrici e interruttori, trasformare tutti i tipi di inferenza della logica, la e, l’oppure, il non.
Intervento: Sviluppo del linguaggio e della tecnica…
La tecnica sta proprio nel funzionamento stesso del linguaggio. Il linguaggio funziona così come, in un modo semplificato per adesso, vediamo in una macchina. Già questa operazione di fare passare o fare passare correte ha una sua funzione. Che cosa viene fatto passare? Ciò che serve per qualche cosa, anche in una macchina, è sempre un qualcosa “per” qualche cos’altro. E questo ci porta diritti alla questione della tecnica. Potremmo dire molto semplicemente che la tecnica è il modo con cui gli umani pensano, cioè il linguaggio. Il linguaggio è fatto così, è fatto “per”. Quando Peirce insiste a dire che il linguaggio non è altro che segni per altri segni sta dicendo questo. Il filo elettrico, la corrente che passa o non passa, è un qualche cosa per qualche altra cosa, per un altro filo elettrico, il quale riceverà un impulso per qualche altra cosa, e così via all’infinito.