24 aprile 2024
Aristotele Fisica
Siamo al Libro sesto. Qui Aristotele si sta interrogando su una questione che ci interessa: gli indivisibili. Gli indivisibili pongono un problema, che Aristotele non tematizza, però, ci passa vicino. L’indivisibile è un intero che non ha parti. Problema: se non ha parti, come lo conosco? Come faccio a conoscerlo? Per conoscerlo devo determinarlo in qualche modo e, quindi, determinandolo, dividerlo; ma se non ha parti non può essere diviso e, pertanto, è inconoscibile. L’uno, inteso come intero, come indivisibile, non è conoscibile. E, quindi, da dove viene questa idea che ci sia? Ce lo racconta Aristotele negli Analitici secondi: viene dall’universale, universale che viene costruito come uno, e allora l’idea è che questo uno rappresenti la verità e, quindi, sia indivisibile, cioè, la verità la non può essere scomposta, alterata, deve rimanere quella che è, come un monolite. Questo ci servirà quando affronteremo Plotino perché lui, come sapete, muove dall’uno come ipostasi, e, in effetti, lo descrive come qualcosa che non è conoscibile, non è determinabile, ma che però c’è. Plotino ha letto Aristotele ed è come se avesse preso ciò che dice Aristotele rispetto all’universale e lo avesse ipostatizzato. In effetti, anche in Aristotele l’universale, in fondo, una volta che è posto è quello che è, non viene più interrogato, diventa un principio. In Aristotele c’è naturalmente tutto un discorso che mostra come l’universale non sia niente altro che un’induzione, un’analogia. Ma in Plotino questo universale è qualcosa che si produce da sé, anzi, è da sempre stato prodotto, e, quindi, tutto non può che procedere da lui. Comunque, l’idea dell’universale deve venire probabilmente da Aristotele. Dicevo, dunque, della questione dell’indivisibile. È un problema perché Aristotele parla dell’indivisibile: per es., l’attimo, l’ora, è qualcosa di indivisibile; ma, se è indivisibile, allora è conoscibile soltanto retroattivamente. Un po’ come la sostanza. Anche la sostanza, così come ne parla nelle Categorie, è conoscibile retroattivamente attraverso le categorie, cioè, è ciò che se ne dice. Io pongo la sostanza, ma la sostanza in quanto tale non è niente, non ci posso fare nulla; e, allora, esiste la sostanza? Senza le categorie, lo dice Aristotele, sarebbe nulla, perché lui stesso, Aristotele, pone la sostanza come indivisibile e, in quanto indivisibile, teoricamente sarebbe inconoscibile. E qui già c’è uno scoglio perché, se è conoscibile attraverso le categorie, allora dobbiamo ammettere che la sostanza è fatta di categorie, cioè, è fatta di molti. E torniamo al problema centrale: l’uno perché sia qualcosa devo determinarlo, devo determinarlo in quanto uno, quanto meno; lo determino, dunque, ma attraverso che cosa? Attraverso delle determinazioni, cioè, i molti, ma i molti posso coglierli soltanto in quanto uno, cioè, come dice Aristotele, farli diventare un universale, un uno. Quindi, l’uno posso determinarlo solo attraverso i molti; i molti posso pensarli soltanto come uno. Questo è il problema del linguaggio, problema che poi si è portato appresso tutto il pensiero occidentale, che di volta in volta ha preso vie differenti, ma con la necessità di stabilire l’uno, cioè, l’universale; e il neoplatonismo ha fornito la direzione per potere fare ciò. Ma vediamo cosa ci dice Aristotele. Se ci sono la continuità, il contatto e la consecutività, secondo le definizioni che abbiamo date precedentemente, e se continue sono le cose le cui estremità sono una sola cosa, e sono in contatto quelle le cui estremità sono insieme, e consecutive quelle in mezzo a cui non c’è nulla di affine, è impossibile che qualcosa di continuo risulti composto da indivisibili, ad esempio che una linea risulti composta da punti, se è vero che la linea è un continuo e il punto un indivisibile. Non sono, infatti, una sola cosa le estremità dei punti, perché l’indivisibile non ha né estremità né qualche altra parte, né le estremità sono simultanee, perché non c’è nessuna estremità di ciò che è privo di parti (infatti, diversi tra loro sono l’estremo e ciò di cui questo è estremo). Inoltre, sarebbe necessario che i punti da cui dovrebbe risultare composto il continuo, o fossero continui o fossero in contatto tra loro; e stesso discorso vale anche a proposito di tutte le cose indivisibili. Ma essi non potrebbero essere continui per la ragione da noi addotta; d’altra parte, poi, per quanto concerne il contatto, è da tenere presente che un tutto è in contatto o come intero con un intero o come parte con una parte o come parte con un intero. Poiché l’indivisibile è privo di parti, necessariamente esso dovrebbe essere in contatto come intero con un intero: ma un intero che è in contatto con un intero non sarà continuo. Infatti, il continuo presenta ora una parte ora un’altra, e si può dividere solo in cose che siano diverse tra loro in questo modo e separate per luogo. Ma neppure saranno consecutivi il punto al punto o l’istante all’istante, di modo che questi possano produrre la lunghezza o il tempo: consecutive, infatti, sono quelle cose in cui non c’è nulla di affine; invece, in mezzo ai punti c’è sempre una linea e in mezzi agli istanti c’è sempre un tempo. Inoltre, il continuo sarebbe divisibile in indivisibili, se è vero che ciascuna delle due cose si divide in quelle parti da cui essa stessa risulta composta; ma, in realtà, nessun continuo è divisibile in cose prive di parti. Vedete, dunque, che questo indivisibile ci appare come una costruzione fantastica, un po’ come l’infinito, qualcosa che. diciamo così, in natura, ma lo costruisco; così come l’attimo, l’ora, è una costruzione, non c’è da qualche parte. Sono tutti elementi che vengono posti retroattivamente. Così come l’uno può venire posto retroattivamente nel momento in cui lo determino in quanto uno; solo che nel momento in cui lo determino come uno è già due, cioè, molti. Solo allora c’è l’uno, perché lo posso determinare, ma per determinarlo ci vogliono i molti; quindi, lo posso determinare solo retroattivamente. 233a, 22. Qui se la prende con Zenone. Anche per questo il ragionamento di Zenone erroneamente presuppone l’impossibilità che si possano percorrere gli infiniti o che possano toccarsi ciascuno successivamente in un tempo finito. Difatti, tanto la grandezza quanto il tempo e, in generale, ogni cosa continua si dicono infiniti in due sensi, cioè o per divisione o per gli estremi. Quello che noi chiamiamo infinito potenziale e infinito attuale. Pertanto, gli infiniti che sono tali secondo la quantità, non possono toccarsi in un tempo finito; quelli, invece, che sono tali secondo divisione, lo possono, perché il tempo stesso è infinito secondo questo aspetto. Sicché nell’infinito, e non già nel finito, capita che si percorra l’infinito, e che gli infiniti si tocchino con gli infiniti, e non con i finiti. Dunque: né è possibile percorrere l’infinito in un tempo finito, né il finito in un tempo infinito; ma, qualora il tempo sia infinito, anche la grandezza sarà infinita; qualora la grandezza sia tale, tale sarà anche il tempo. Naturalmente per Zenone la divisibilità dello spazio e, quindi, del tempo, era il fulcro della sua argomentazione, per cui non è numerabile. Aristotele dice: sì è numerabile, ma all’infinito. Un po’ come dice Severino, per il quale nell’infinito ci saranno tutti gli astratti nel concreto. Ora, parliamo di qualcosa che evoca proprio Severino. Capitolo terzo. È anche necessario che l’istante, se lo si consideri non in relazione ad altro, ma per sé e dapprima, sia indivisibile e sia immanente, come tale, in ogni tempo. Difatti, esso è un’estremità del passato che per la presenza di esso non ha nulla a che vedere con il futuro, ed è, per converso, un’estremità del futuro, che per la presenza di esso non ha nulla a che vedere con il passato; e appunto per questo noi lo definivamo come limite di entrambi. Orbene: qualora si sia mostrato che esso è tale per sé ed è identico, sarà parimenti chiaro che esso è anche indivisibile. Perché dice questo? Adesso ce lo spiega. 234a, 12. Ma se l’istante è divisibile, una parte del passato verrà a trovarsi nel futuro e una parte del futuro verrà a trovarsi nel passato, giacché la parte in cui ess venga diviso, segnerà il limite del tempo passato e di quello futuro. E nello stesso tempo l’istante non sarebbe per sé, ma per altro, giacché la divisione non è ciò che è per sé. Oltre a ciò, una parte dell’istante farebbe parte del passato, un’altra del futuro, e non sempre la medesima sarebbe esclusivamente passato o futuro. Quindi, l’istante non risulterebbe identico a sé, dato che il tempo è divisibile in molti modi. Insomma, sta di fatto riproponendo l’argomentazione di Zenone. Dice che l’istante non è divisibile perché, se fosse divisibile, si porterebbe appresso da una parte un pezzo del passato e dall’altra un pezzo del futuro; però, questo non accade, dice Aristotele. Sarebbe stato interessante domandargli come fa a saperlo. 234a, 20. Ma se esso è identico, è ovviamente anche indivisibile: se, infatti, fosse divisibile, si verificherebbe di nuovo la medesima cosa che poc’anzi dicevamo. Che, pertanto, nel tempo ci sia qualcosa di indivisibile, che noi chiamiamo istante, è chiaro da quanto si è detto. Quindi, se c’è questo istante, che è indivisibile – perché se fosse divisibile si porterebbe appresso un pezzo del passato e un pezzo del futuro, così dice Aristotele –, allora non c’è movimento nell’istante, perché per esserci movimento ci deve essere la divisibilità – in un movimento, la cosa ad un certo punto è qui, in un altro è là. Ma non c’è nemmeno la quiete, perché la quiete è assenza di movimento – per potere stabilire la quiete occorre che ci sia la possibilità del movimento; se non c’è questa possibilità del movimento, non c’è neanche la possibilità della quiete. Dunque, nell’istante non c’è né movimento né quiete. Quindi, di fatto, come dicevo all’inizio, non c’è nessuna possibilità di conoscere l’istante. E, allora, da dove scappa fuori questa idea? Come dicevo, retroattivamente. In fondo, le argomentazioni utilizzate da Aristotele non sono un granché, ma denotano la necessità di stabilire la divisibilità di tutto ciò che c’è, salvo l’attimo, e cioè occorre un qualche cosa che rimanga identico a sé per potere stabilire la differenza, in questo caso passato e futuro. Il che non è neanche del tutto errato: occorre un parametro fermo, fisso, perché possano esserci le differenze. Da qui la necessità di pensare che ci sia qualche cosa di fermo, di sicuro, di certo, perché se tutto si muove e non c’è un riferimento certo, fermo, allora mi è impossibile anche parlare di movimento, perché sarebbe movimento rispetto a che? Ci vuole qualcosa che sia fermo. Capitolo quarto. Ogni cosa che cangia è necessariamente divisibile. Poiché, infatti, ogni cangiamento si attua da un qualcosa in un altro, e poiché l’oggetto, quando ha raggiunto il termine finale del suo cangiamento, non cangia più, e d’altra parte, quando è ancora nel termine iniziale del suo cangiamento, né l’oggetto stesso né tutte le sue parti cangiano ancora (infatti, ciò che si conserva allo stesso modo, non muta esso stesso né mutano le sue parti), necessariamente, allora, una parte di ciò che cangia è in uno dei due termini, una parte nell’altro, giacché non è possibile che sia in ambedue insieme né in nessuno dei due. E intendo per termine finale del cangiamento quello che si presenta per primo durante il cangiamento, ad esempio, partendo dal bianco, il grigio, non già il nero: infatti, non +è necessario che il cangiante sia in qualsivoglia dei due estremi: Da ciò è evidente che tutto ciò-che-cangia è divisibile. Capitolo quinto. Poiché ogni cosa cangiante cangia da qualcosa a qualcosa, è necessario che ciò che ha compiuto il cangiamento, nel momento in cui lo abbia compiuto, sia nel termine finale del cangiamento. L’oggetto mutato è, fin dal primo istante, in ciò in cui è mutato. Infatti, il cangiante esce fuori dal termine iniziale del cangiamento, ossia lo lascia e, perciò, o il cangiare e il lasciare sono la medesima cosa, oppure il lasciare segue al cangiare. E se il lasciare segue al cangiare, l’aver lasciato segue all’aver compiuto il cangiamento: infatti, allo stesso modo c’è relazione tra ciascuna delle due cose. Tenendo conto, pertanto, che uno dei cangiamenti è quello che si attua per contraddizione, quando l’oggetto ha compiuto il cangiamento dal non-essere all’essere, esso ha lasciato il non-essere. Esso, allora, sarà nell’essere, perché necessariamente cosa è o non è. Pertanto, è chiaro che nel cangiamento per contraddizione ciò che ha compiuto il cangiamento, sarà in ciò in cui l’ha compiuto. Adesso, però, vi leggo una cosa, che si trova un po’ più avanti, che ho trovato interessante. 240a, 20. Ma neppure per quanto concerne il cangiamento che si attua nella contraddizione, non c’è alcuna difficoltà che noi non possiamo superare. Ad esempio: se dal non-bianco l’oggetto cangia nel bianco e non è in nessuno di questi due estremi, allora esso non sarà né bianco né non-bianco: infatti, se non è per intero in uno qualsiasi dei due, non si potrà dire che sia bianco o non-bianco, dal momento che noi chiamiamo bianco o non-bianco un oggetto, non perché questo sia tale per intero, ma perché lo sono le più numerose ed importanti sue parti: né è la medesima cosa il non-essere in un dato stato e il non-essere interamente in esso. Allo stesso modo sta la questione anche riguardo all’essere e al non-essere e agli altri termini che sono in contraddizione: di necessità l’oggetto sarà in uno degli opposti, ma non sarà mai intero in nessuno dei due. Invece prima ci aveva detto che è o essere o non-essere, escludendo che ci sia una terza possibilità. Come mai? È chiaro che facendo continue suddivisioni, classificazioni, alla fine fa confusione anche lui, perché dice, in effetti, due cose contrastanti. 236a, 10. Pertanto esso, in quanto viene inteso come il primo in relazione alla fine del mutamento, sussiste ed è per sé (infatti, noi abbiamo ammesso che il cangiamento è già compiuto e che è fine del cangiamento ciò che si è anche dimostrato essere indivisibile per il fatto stesso che è limite)… Soltanto se lo pongo come indivisibile posso porlo come limite. Il limite dobbiamo pensarlo come indivisibile, perché se fosse divisibile non sarebbe mai un limite: per via di Zenone, non arriverebbe mai al limite, quindi, lo pongo come limite attraverso un atto di forza; si stabilisce che quello è il limite e, una volta stabilito, non si va oltre. …invece, in quanto esso viene inteso in relazione al cominciamento, non esiste in senso assoluto, perché non esiste un principio del cangiamento né un momento del tempo in cui dapprima si attua il cangiamento. Perché possiamo sempre spezzettare l’inizio. E siamo sempre a Zenone e all’Achille e la tartaruga: Achille parte, ma possiamo dimostrare che in realtà non si muove, perché prima deve compiere un metro, ma prima mezzo metro e, poi ancora, un quarto di metro, e così via all’infinito, per cui potremmo anche dire che non si muove mai. Sia, intanto AΔ, questo momento. Esso non è indivisibile, perché, se lo fosse, risulterebbe che gli istanti sono contigui. Se, intanto, in tutto il tempo ΓA l’oggetto è in quiete (poniamo che sia in quiete), anche nel punto A esso è in quiete; sicché, se AΔ non è divisibile in parti, nello stesso tempo sarà in quiete e avrà compiuto il cangiamento: infatti, nel punto A è in quiete, nel punto Δ ha compiuto il cangiamento. Ma poiché il momento AΔ non è privo di parti, esso è necessariamente divisibile e il cangiamento si è compiuto in una qualsiasi delle parti di esso: infatti, essendo stato diviso AΔ, se l’oggetto non ha compiuto il cangiamento in nessuna delle due parti, non l’avrà compiuto nemmeno nell’intero; se, invece, cangia in entrambe le parti, esso cangia anche nel tutto; se, infine, ha compiuto il cangiamento in una sola delle due parti, non lo avrà compiuto nel tutto in un solo primo momento. Sicché, è necessario che l’oggetto abbia compiuto il cangiamento in qualsivoglia delle due parti. Da questo ragionamento risulta chiaro che non c’è un momento del tempo in cui l’oggetto abbia compiuto dapprima il cangiamento, perché le divisioni vanno all’infinito. Questo è Zenone. E neppure nell’oggetto che ha compiuto il cangiamento c’è qualcosa che lo abbia compiuto dapprima. Quindi, questo mutamento non si avvia. Sia, dunque, ΔΖ la parte che dapprima ha compiuto il cangiamento AE (invero è stato dimostrato che tutto ciò che muta è divisibile): sia ΘΙ il tempo in cui ΔΖ avrà compiuto il cangiamento: orbene, se ΔΖ ha compiuto il cangiamento nell’intero tempo, nella metà del tempo ci sarà, invece, una parte minore che avrà compiuto il cangiamento anche prima di ΔΖ, e poi un’altra minore di questa, e poi ancora un’altra minore, e così via sempre: sicché, non ci sarà una prima parte dell’oggetto cangiante che abbia compiuto il cangiamento. Che, dunque, né dell’oggetto cangiante né del tempo in cui l’oggetto cangia vi sia un primo termine, è chiaro da quanto si è detto. Tutto ciò fa pensare a una questione: non c’è un primo; solo dopo posso dire che c’è un primo. È esattamente ciò che dicevamo prima rispetto all’uno e al due: l’uno devo determinarlo in quanto uno, ma attraverso cosa? Attraverso il due, cioè, i molti. Quindi, soltanto dopo posso dire che c’è l’uno, sennò non lo posso dire, non c’è niente. Capitolo sesto. 237a, 7. Ma il punto di divisione è l’estremo di una metà. Sicché, anche nella metà si sarà compiuto il movimento e, in generale, in una qualsiasi delle parti, giacché, simultaneamente con l’atto del dividere, c’è sempre un tempo delimitato dagli estremi. Se, pertanto, ogni tempo è divisibile, e se l’intermedio tra gli istanti è tempo, tutto ciò-che-cangia avrà compiuto il suo cangiamento all’infinito. Inoltre, se ciò che cangia in modo continuo senza essere distrutto e senza avere cessato il cangiamento, necessariamente o sta cangiando o ha compiuto il cangiamento in una qualsivoglia parte del tempo, e se non è possibile che il cangiamento si vada compiendo nell’istante, necessariamente l’oggetto ha compiuto il cangiamento secondo ciascuno degli istanti;… In ciascuno degli istanti è eterno, è già cambiato, è così. …e di conseguenza, se gli istanti sono infiniti, tutto ciò-che-cangia avrà compiuto il suo cangiamento all’infinito. Gli eterni infiniti. Insiste poi sul fatto che il primo posso coglierlo soltanto retroattivamente, après-coup, come dicono i francesi. Questa cosa che sta dicendo è importante perché è forse il primo ad accorgersi di una cosa del genere, e cioè che esiste un primo, ma perché esista questo primo è necessario che ci sia il secondo; come dire: l’uno c’è ma a condizione che ci siano i molti, perché se non ci sono i molti non c’è neppure l’uno; soltanto dopo posso porre l’uno. Il che è una bizzarria, non so se l’abbiamo incontrata nell’Organon o nella Metafisica, più probabile nell’Organon. Lui stesso si sorprese di quello che stava dicendo, e cioè che una certa cosa è quella che è soltanto retroattivamente, non c’è prima di questa azione retroattiva, dopo c’è. Ma che cosa significa dire che c’è dopo? Significa che è una costruzione, una costruzione fantastica. D’altra parte, è stato lui stesso a dirci che si parla per via πάθος, per via delle emozioni, delle sensazioni. Che cosa cercano le emozioni, le sensazioni? Cercano la soddisfazione, l’ήδονή. Ma che cos’è la soddisfazione? È il raggiungimento di qualcosa di compiuto, cioè, di qualcosa che posso dominare. Tutto questo lavoro – ma già nell’Organon – è sostenuto da qualcosa che lui stesso, Aristotele, stava dicendo, e cioè una fantasia per costruire un qualche cosa di utilizzabile dalla volontà di potenza. Anche la Fisica non è altro che una costruzione complessa, elaborata, certo, ma di uno strumento utilizzabile dalla volontà di potenza. Andiamo al Capitolo ottavo. Poiché tutto ciò che ha disposizione naturale a muoversi, si muove o è in quiete quando e dove e come la natura lo ha disposto, ne consegue che ciò che si ferma, nell’atto in cui si ferma, è in moto: se, infatti, non fosse in moto, sarebbe già in quiete; ma non potrebbe tendere alla quiete, se esso già fosse in quiete. Ciò dimostrato, è chiaro che necessariamente l’oggetto si ferma nel tempo /…/ inoltre, se noi diciamo che la maggiore o minore velocità è tale in relazione al tempo, è possibile anche fermarsi con maggiore o minore velocità. E necessariamente l’oggetto fermantesi si ferma in una qualsiasi parte del tempo in cui esso dapprima si ferma. Infatti, diviso il tempo in due parti, se l’oggetto non si fermasse in nessuna delle due, non si fermerebbe neppure nell’intero; sicché l’oggetto fermantesi non potrebbe fermarsi. È sempre l’argomentazione di Zenone, di lì non si scappa. Se, invece, si fermasse solo in una delle due parti, non potrebbe fermarsi nel tutto dapprima, perché si fermerebbe in questo, solo secondo una delle due parti, com’è stato detto poc’anzi anche in riferimento al mosso. Non c’è il primo movimento. Come, infatti, non c’è una parte di tempo in cui il mosso si muova dapprima, così neppure c’è una parte di tempo in cui il fermantesi si ferma dapprima, perché né del muoversi né del fermarsi c’è una qualche prima parte. Era partito dall’idea di confutare Zenone, ma non fa altro che ripetere la sua stessa argomentazione, cioè la infinita divisibilità dello spazio e del tempo. Ed è questo il problema, perché, essendo infinitamente divisibile, ci mostra appunto che è divisibile, che non è un indivisibile; ma se non è un indivisibile vuol dire che non è più identico a sé, perché è l’indivisibile, l’intero, che è identico a sé; e, non avendo parti, non può essere conosciuto. Ma, soprattutto, si pone una questione interessante che, in effetti, è sempre la stessa questione, però se la ritrova continuamente tra i piedi: la questione dell’uno e dei molti. Se qualche cosa è infinitamente divisibile, noi non riusciamo a stabilire un punto fermo, un punto di partenza. Ma se non abbiamo un punto di partenza è un problema. Perché? Perché non ne conosciamo la causa, αἳτια; per conoscere la causa occorre sapere da dove arriva, qual è il suo punto di partenza; e Aristotele ci sta dicendo che non lo possiamo sapere. Quindi, la sua elaborazione nella Metafisica intorno all’άρχή, all’αἳτια, al principio e alla causa, a questo punto vacilla, perché non c’è il punto di origine. Lui stesso ci ha mostrato che a causa di Zenone noi non riusciamo a stabilire il punto primo, il punto di partenza, che si sposta continuamente, è sempre divisibile, non lo troviamo mai. Se non c’è un punto di partenza, come stabilisco la causa? È un problema che Aristotele non affronta, non sembra nemmeno che l’abbia colto. 239a, 7. Poiché, pertanto, c’è un tempo in cui per prima l’oggetto si ferma, e questo tempo non è indivisibile – giacché ogni tempo è divisibile in parti all’infinito -, non ci sarà una parte di tempo in cui dapprima l’oggetto si fermi. Anche qui pone una questione che è bizzarra perché nelle pagine precedenti ha posto, invece, il limite, il punto di arresto, come qualcosa di indivisibile; adesso, invece, dice che questo limite è divisibile, per cui non ci sarà mai un punto di arresto, mentre prima diceva che questo punto di arresto c’è; e, allora, questo punto c’è o non c’è? Questa oscillazione è molto interessante, perché c’è e non c’è simultaneamente, ed è questo che Aristotele sta incontrando: lui vuole separare le cose, ma non vi riesce, perché si trova sempre la contraria tra i piedi e deve in qualche maniera inserirla. Si trova la simultaneità, la coappartenenza dei due elementi che vuole separare. Né, d’altronde, ciò che-è-in-quiete è nel tempo in cui dapprima ha attuato la quiete: infatti, non si è meno in quiete in un tempo non divisibile in parti, per il fatto che non c’è moto nell’indivisibile, ma tanto il moto quanto la quiete si attuano solo in ciò che è divisibile; infatti, noi dicevamo che si attua la quiete allorché l’oggetto, che per natura è disposto al moto, non si muove nel tempo in cui la natura lo ha disposto a muoversi. Inoltre, noi diciamo anche che un oggetto è in quiete quando si trovi ora nello stesso modo di prima, quasi giudicandolo come se non fosse una sola cosa, ma due almeno; sicché, il tempo in cui si attua la quiete non sarà privo di parti. ancora Zenone. Tu vuoi muovere il braccio sinistro da lì a qui. Prima devi fare questo movimento, ma puoi dividerlo, e poi ancora, e poi ancora, ecc., fino a che quel braccio non si muove più. Eppure, lo muovi! Ecco la coappartenenza di contrari e di contraddittori, che non si separano mai, perché se si toglie l’uno si toglie anche l’altro. 239a, 35. Si trova sempre di fronte a cose opposte. E nell’istante, benché l’oggetto sia in un dato stato, non attuerà, però, la quiete: infatti, nell’istante non si possono attuare né moto né quiete e, se è vero he nell’istante non si attua un movimento, bensì c’è solo il trovarsi in un dato stato, non è, d’altra parte, possibile che nel tempo ci sia un oggetto in quiete solo secondo qualche parte, perché in tal caso i verificherebbe che è in quiete ciò che si sta spostando. Si è trovato, di nuovo, di fronte al movimento e alla quiete come due elementi che lui deve cercare di separare e che, invece, gli appaiono continuamente compresenti. Come quando dice che un mobile è sempre in relazione a un punto, ma non in quiete, perché nell’istante non è possibile né muoversi né stare fermi, però è in relazione a qualche cosa. Quindi, è indivisibile, ma anche no, perché se è indivisibile, come il punto, allora è in relazione a niente, perché è l’intero e, non avendo parti, non può essere in relazione ad alcunché. Eppure, è in relazione a qualcosa. E, allora, come la mettiamo?