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24 aprile 2019

 

La struttura originaria di E. Severino

 

Severino intende l’intero sia come l’intero immutabile, sia come l’intero del fenomeno. Entrambi sono l’intero. A pag. 545, paragrafo 22. Appare, da quanto si è detto, che la proposizione L-immediata: “L’essere è”, anche in quanto distinta dalla posizione dell’immutabilità dell’intero, e dalla posizione della distinzione tra l’intero immutabile e l’orizzonte del divenire… Cioè, tra l’intero immutabile e il fenomeno. …è, come tale, posizione della positività che oltrepassa la totalità del F-immediato; per quanto tale positività non sia posta, nell’area posizionale di quella proposizione in quanto siffattamente distinta, come ciò che oltrepassa la totalità del F-immediato. È la questione che per Severino si pone da sempre: qualche cosa oltrepassa il fenomeno ma questo qualcosa, che oltrepassa, non è posto, non c’è. Lui non trova la soluzione, a me è parso di trovarla, però… vedremo. A pag. 546, paragrafo 25, L’immutabile e il divenire. La distinzione tra l’intero, come immutabilità assoluta, e la totalità del F-immediato, è distinzione, si diceva, tra due positività. Le due cose sono poste. Ma – si precisi ora – la totalità del F-immediato è un positivo che non può contenere alcuna valenza o quantità o aspetto o modo di positività che non siano contenuti nell’intero immutabile:… Perché, se è intero deve contenere anche la F-immediatezza. Altrimenti non è l’intero. …diversamente, quest’ultimo non sarebbe l’intero della positività – ché l’immutabilità non conviene a questo o a quell’essere, ma ad ogni essere. E lo sviluppo, l’incremento; o il dileguare, lo sparire – il divenire dunque del contenuto della totalità del F-immediato, non aggiunge e non toglie alcuna positività dell’intero immutabile, ché altrimenti al positivo che sopraggiunge o che dilegua converrebbe di non essere. Se all’intero io posso aggiungere o togliere delle cose allora non è più l’intero. Invece, l’intero immutabile include in sé la totalità del positivo. Cioè: la totalità di ciò che è posto, il tutto. Quindi, non è qualcosa che non ci sia. Ossia tutta la positività del positivo diveniente, che l’intero immutabile lascia “oltre” di sé (appunto in quanto l’immutabile non è il diveniente) – e l’immutabile lascia oltre di sé appunto e soltanto la totalità del positivo diveniente –, tutta quella positività è immutabilmente inclusa nell’intero immutabile. L’immutabile comprende tutto. Il cerchio dell’immutabile è così la patria o il grembo dell’essere; ivi è custodito anche ciò che nel mondo non si sottrae alla rapina del nulla. Si può anche dire: l’intero, come inclusivo della realtà diveniente e dell’intero immutabile, non contiene alcuna positività che non sia contenuta nell’intero immutabile; sì che quest’ultimo, pur essendo altro dalla realtà diveniente, non è “parte” dell’intero. Come dire: l’intero e il diveniente, il fenomeno, sono due cose diverse, però questo fenomeno deve essere contenuto nell’intero; pur essendo il fenomeno altro dall’intero, tuttavia ne è contenuto, ne fa parte. Andiamo a pag. 551, paragrafo 29. L’affermazione, per la quale la totalità dell’essere F-immediato, e, in generale, la totalità della realtà diveniente, non appartiene necessariamente all’intero, e anzi è autocontraddittorio che vi appartenga necessariamente, può sembrare essa stessa una negazione del principio di non contraddizione. Sta facendo l’ipotesi contraria a quella che faceva prima. Prima diceva che il fenomeno appartiene all’intero; qui, invece, dice, poniamo un’affermazione che dica che questo non è vero, e cioè che sono due cose diverse, separate. Si può infatti obiettare che, proprio in quanto quella affermazione sostiene che la realtà diveniente sarebbe potuta non essere e potrebbe non essere più tale, tale affermazione viene con ciò a sostenere la possibilità che l’essere (l’essere appunto della realtà diveniente) non sia. Il toglimento di questa contraddizione consiste pertanto nell’affermazione della esistenza necessaria, ossia dell’immutabilità della realtà diveniente come tale. Questa realtà diveniente, dice Severino, è immutabile in quanto realtà diveniente. È questo che è immutabile, cioè le cose divengono, cambiano, ma questo fatto, cioè che le cose cambino, è questo a essere immutabile. Il che provoca daccapo una contraddizione, perché la realtà diveniente è F-immediatamente nota come diveniente (ossia come un essere che, in un primo o in secondo momento, non è), sì che, come tale, non può essere immutabile. Dice che qui c’è un problema, perché se è diveniente non è immutabile. Questa situazione aporetica è risolta nel modo seguente. In generale, tale aporia si produce solo in quanto, ad un tempo, da un lato la relazione semantica tra l’intero immutabile e la realtà diveniente viene astrattamente considerata e il concetto della realtà diveniente è astrattamente separato dal concetto dell’intero immutabile;… Questo è fondamentale, è l’operazione che lui compie sempre: io tolgo il diveniente, lo astraggo dal concreto, e una volta astratto allora, sì, mi trovo di fronte a una contraddizione. Ma se lo pongo come un momento del concreto, allora non c’è più contraddizione. L’aporia sorge cioè in quanto si vogliono tenere ferme due operazioni logiche tra loro contraddittorie. Infatti, è certamente vero che ogni positivo, ogni essere è, ed è immutabilmente (e appartiene necessariamente all’intero), sì che anche tutta la positività, tutto l’essere della totalità dell’essere F-immediato, o, in generale, della realtà diveniente, è immutabile. Ma in quanto l’essere è immutabilmente, esso si apre come l’orizzonte dell’intero immutabile, e quindi come altro dall’essere diveniente. Sta dicendo che l’essere è immutabile, e quindi si apre all’orizzonte, a questo orizzonte che si apre e consente il divenire. Ma è l’immutabile che consente il divenire. Se a questo punto il concetto del diveniente viene astrattamente separato dal concetto dell’immutabile – ossia viene considerato nel suo stare al di fuori di quella sua relazione semantica con l’immutabile, la quale consiste nell’allogare tutta la positività del diveniente nel cerchio dell’immutabile – accade che la realtà diveniente si presenta daccapo come una positività di cui non si può predicare il non essere, e quindi è immutabilmente. Se io non tengo distinte le due cose, il diveniente dall’immutabile, ma li considero come due aspetti del concreto, ecco che il diveniente fa parte dell’immutabile. Poco più avanti, ultimo capoverso. L’aporetica è dunque tolta in quanto, in primo luogo, si rinuncia a tener ferme entrambe quelle due operazioni contraddittorie;… Da una parte il diveniente e dall’altra l’immutabile. …e, in secondo luogo, in quanto il concetto del diveniente non viene astrattamente separato dal concetto dell’immutabile. In relazione a questo secondo lato, è da dire che la realtà diveniente, posta nella sua distinzione dall’orizzonte dell’immutabile, è, come tale, o in quanto così distinta, la dimensione di ciò che sarebbe potuto non essere e che potrebbe non essere. A pag. 553. Tutto ciò significa che l’affermazione dell’essere stesso dell’ambito della realtà diveniente dà luogo a una sintesi a posteriori: il diveniente è, nel cerchio dell’immutabile, eternamente o immutabilmente come ciò che, al di fuori di quel cerchio, sarebbe potuto non essere, e potrebbe non essere. Al di fuori, però, del cerchio dell’immutabile. Ma c’è qualche al di fuori del cerchio dell’immutabile, se abbiamo appena detto che l’immutabile è l’intero che, quindi, comprende tutto? Stessa pagina, paragrafo 31. Poiché è autocontraddittorio che vi sia altro, oltre l’intero immutabile e la totalità del divenire – ossia ogni positivo che non è immutabilmente, che cioè non dimora nel cerchio dell’immutabile, è un diveniente, per lo meno nel senso che la sua appartenenza all’intero non è necessaria -, non vi è altro, oltre l’immutabile, senza di cui la totalità del divenire non sarebbe;… è, il divenire fa parte dell’immutabile, perché l’immutabile è il tutto. Senza questo tutto non c’è nemmeno il divenire. Come dire che il divenire trae da questo tutto la sua stessa esistenza. Come abbiamo esemplificato molte volte, è come dire che il significante, senza tutti gli altri significanti, non esiste. Sì che l’immutabile non è semplicemente ciò senza di cui la realtà diveniente non è, ma è ciò per cui questa realtà è. L’immutabile è la condizione del divenire. A pag. 554, paragrafo 33. Se la totalità del divenire non appartiene necessariamente all’intero, e se l’immutabile intero è ciò per cui quella totalità è, che la totalità del divenire sia, è una decisione dell’immutabile. Decisione dell’immutabile è come dire che l’immutabile è la condizione. Stessa pagina, paragrafo 34. Poiché l’intero è costante persintattica… Contiene, cioè, tutti quegli elementi, le costati che sono necessarie. …e poiché l’immutabilità dell’intero è costante sintattica dell’intero, segue che l’intero immutabile è costante persintattica. Ciò significa che un qualsiasi significato può essere posto solo in quanto sta dinanzi manifesto il cerchio dell’immutabile;… Cioè, del tutto, dell’intero immutabile. …sì che l’immutabile non è semplicemente ciò per cui è ogni essere, ma è anche ciò per cui si apre ogni conoscere: radice e luce di ogni essere (come già Platone avvertiva). A pag. 555, ultimo paragrafo, paragrafo 35. In quanto l’originario si struttura come affermazione che l’immutabile oltrepassa l’originario,… L’originario è questa affermazione che l’immutabile lo oltrepassa, perché l’intero oltrepassa sempre l’originario, ciò che si pone. …l’apertura originaria dell’intero è formale:… L’apertura: lui la poneva anche come condizione della conoscenza, perché se questo fenomeno fosse tutto chiuso in sé non ci sarebbe più altro da conoscere. Ma se questo fenomeno è un momento dell’intero, del tutto, allora restano cose da conoscere. …l’immutabile è cioè manifesto in una sua valenza formale… Come dire che l’immutabile si manifesta attraverso un fenomeno parziale, un momento. …il contenuto concreto della forma è ciò che sta oltre l’originario. Il contenuto concreto della forma è ciò che sta oltre il fenomeno, perché oltre il fenomeno c’è l’intero, che, come sappiamo, oltrepassa il fenomeno. Con ciò è posto il compito autentico dell’originario:… Di ciò che dico, di ciò che pongo. …in quanto quella manifestazione formale è apertura della contraddizione, il compito è dato dalla necessità del toglimento della contraddizione: il compito - ciò che si deve portare a compimento – è la manifestazione dell’immutabile. Non si dovrà forse dire che si tratta di un compito infinito, e che precisamente in “ciò è l’impronta della nostra destinazione per l’eternità” (come diceva Fichte in relazione a una situazione logica che presenta molta analogia con quella che qui ci si presenta)? Dunque, il compito autentico dell’originario, cioè di ciò che dico, è quello di portare ciò che dico all’incontraddittorietà, ma come? Se ciò che dico è apertura della contraddizione, allora il compito è dato dalla necessità di togliere questa contraddizione. Ciò che dico apre alla contradizione in quanto è un momento del tutto, ma il tutto non appare: è la famosa contraddizione C. Quindi, questo processo, mano a mano che pongo delle cose è come, per dirla così, se raschiasse via un pezzo dell’intero: poi, un po’ di più; poi, un po’ di più, ecc. Non è casuale che lui citi Fichte, un filosofo idealista tedesco. Per Fichte la realtà oggettiva è una produzione dell’Io; l’Io, in quanto puro pensiero, deve portare ciascun oggetto che costruisce alla propria ragione, cioè, tradurlo nel pensiero. È chiaro che questo compito è infinito perché gli oggetti sono infiniti e, quindi, non arriverà mai alla fine. Però, a questo punto, visto il compito dell’originario, potremmo porre la questione in questo modo: forse, non c’è la necessità di questo processo infinito, di rincorsa per cui c’è il fenomeno, lo concettualizzo; poi, c’è un altro fenomeno, concettualizzo anche questo, e vado avanti. Come ha detto lui, nell’immutabile c’è il fenomeno ma nel fenomeno c’è l’immutabile? Per lui la cosa non è così semplice, cioè, c’è e non c’è: c’è perché, come ha detto prima, non sarebbe neanche il diveniente; non c’è, perché non appare. Tuttavia, provate a pensare così: se effettivamente la condizione del fenomeno è il tutto, l’intero, allora ogni volta che c’è il fenomeno c’è anche l’intero, perché se non ci fosse anche l’intero non ci sarebbe nemmeno il fenomeno. Poi, il fatto che non appaia questo tutto potrebbe anche essere irrilevante; l’apparire ha a che fare con il vedere, non lo vedo, non c’è… non c’è ma di fatto c’è. Io non vedo tutta questa contraddizione, perché se io pongo il tutto, e dico che nel tutto c’è il diveniente, allora questo diveniente ha nel tutto la sua condizione per essere. Quindi, c’è l’intero, non possiamo dire che non c’è. Poi, come ci sia, questo potrebbe essere anche irrilevante, ma l’importante è che ci sia, e se c’è a questo punto non c’è contraddizione, perché il tutto è presente sempre in ogni posizione, cioè ogni volta che parlo: ogni volta che apro bocca, lì c’è l’intero, lì è presente tutto. Tutto cosa? C’è quello che dico e tutto ciò che quello che ciò che dico esclude da sé. Quindi, a questo punto perché dire che è un lavoro infinito? Severino può dire che è un lavoro infinito soltanto se si aspetta che ogni fenomeno in qualche modo appaia e allora, apparendo, appare un altro pezzo dell’intero. No, stando a quello che ci dice lui in queste 550 pagine, è già presente, è già tutto lì, è già tutto nell’atto. Se si tiene fermo questo, e cioè che nel fenomeno c’è comunque tutto, allora non c’è più nessuna contraddizione, ed è questo l’incontraddittorio, che Severino vuole porre: il fatto che ogni volta che parlo c’è tutto. Quindi, ogni colta che pongo qualche cosa, questo qualche cosa è incontraddittorio. diventa contraddittorio se io, per qualche motivo, lo astraggo dal tutto, allora sì. Qui potremmo tornare al vecchio esempio della lampada che è sul tavolo: il tutto sarebbe “questa lampada che è sul tavolo”; se io astraggo la lampada, è chiaro che questa lampada diventa una posizione contraddittoria rispetto al concreto, perché questa lampada che considero non è “questa lampada che è sul tavolo”. Ma se considero l’atto di parola come un tutto – tutto nell’accezione che indicavo prima: ciò che sto dicendo più tutto ciò che mi consente di dire ciò che sto dicendo, quindi, tutto che sto dicendo non è – allora, ecco che non c’è contraddizione, perché si tratta del concreto. Come dire che l’atto di parola è il concreto. Non il linguaggio ma proprio l’atto di parola. È il concreto, cioè, qualcosa che è quello che è in quanto preso in quella struttura che lo fa essere quello che è in questo momento. Lo fa essere incontraddittorio proprio perché è il concreto. Questo stando a ciò che dice Severino, perché tutto ciò che io dico non è posto, è posto in quanto tolto. Ma per poterlo togliere devo porlo e, quindi, c’è necessariamente. Lo abbiamo visto, lo dice lui espressamente: la totalità del fenomeno non esiste, non può darsi senza l’immutabile, senza il tutto, l’intero. Quindi, a questo punto, torno a dirvi, se ponessimo la questione in questi termini non ci sarebbe più il problema della contraddizione C, per cui il fenomeno è momento del tutto, ma il tutto non è assente, c’è, è lì nel momento in cui parlo, e c’è perché altrimenti non potrei dire ciò che sto dicendo. Una prova più evidente di questa…

Che differenza c’è tra il concetto di storicità, di cui parla Heidegger, e la posizione di Severino?

Heidegger pone la storicità come la totalità di tutto ciò che mi ha reso tutto ciò che sono oggi. È più pragmatico. Qui, invece, la questione è posta in termini più concettuali: il tutto non è rappresentato da qualcosa o da qualcuno ma è un concetto. Un concetto con il quale si può giocare, ovviamente, e sembra delle volte che Severino faccia una sorta di “confusione” tra il concettuale e la cosa, prende cioè il concetto come una cosa. Se il tutto è un concetto, è diverso dal porlo come una cosa, perché in questo caso, se lo pongo come una cosa allora è ciò che è per virtù propria, e quindi con le sue leggi. Se è un concetto, le sue leggi sono quelle che gli do io mentre lo esprimo, mentre lo costruisco. È un po’ diverso. Quindi, a questo punto non c’è più quella infinitizzazione, che richiama anche con Fichte, ma c’è l’atto di parola come l’intero, come l’intero incontraddittorio. Qui potremmo anche dire che è incontraddittorio perché ha tolto ciò che lo fa essere quello che è ma che al contempo lo nega, cioè c’è tutto ciò che non è quello che dico, in quanto tolto perché se lo lasciassi quello che dico sarebbe quello che dico e infinite altre cose, e, di conseguenza, sarebbe autocontraddittorio. Qui c’è una nota che merita di essere letta. Ma poi, l’immutabile non è, semplicemente, luce per noi, ma in sé; l’immutabile è cioè coscienza o presenza della totalità concreta dell’essere. La presenza dell’intero, quale si realizza nella struttura originaria, dimora infatti anch’essa, immutabilmente, come ogni atra determinazione, nel cerchio dell’immutabile. Ma non può dimorarvi come presenza formale, e quindi autocontraddittoria… Formale, cioè astratta dal concreto. …ché altrimenti – affermando una tale presenza formale nell’immutabile – l’autocontraddizione sarebbe lasciata sussistere come il definitivo, e quindi come non tolta. Qui sembra quasi dire che l’immutabile non è semplicemente luce per noi ma è in sé. Come vi dicevo, sembra considerare l’immutabile non tanto come un concetto ma come una cosa. Poi, dice che l’immutabile è cioè coscienza o presenza della totalità concreta dell’essere. Oscilla sempre, però, non porta a conclusione questa considerazione, e cioè che, trattandosi di concetti, questi concetti sono costruzioni linguistiche, e cioè seguono quelle leggi che noi abbiamo dato loro e che non sono intrinseche alla cosa. A questo punto, potremmo dire – certo, occorrerebbe parlarne con Severio, lui avrebbe chissà quante cose da obiettare – che non c’è più la necessità di pensare la risoluzione della contraddizione C posta all’infinito, cioè quando saranno apparsi, manifesti, tutti i fenomeni. Non c’è la necessità perché l’intero è necessariamente già presente. Infatti, dice, ve lo rileggo, il compito è la manifestazione dell’immutabile. La manifestazione… Ma perché dovremmo avere bisogno della manifestazione dell’immutabile quando sappiamo che necessariamente è lì ed è la condizione perché io possa dire le cose che sto dicendo? Perché deve manifestarsi necessariamente? Devo vederlo? Non lo vedo comunque, così come non “vedo” la contraddizione. Sta qui, forse, tutto il problema: l’idea che debba manifestarsi, cioè che debba apparire come presenza immediata. È immediatamente presente anche se non mi appare fisicamente, materialmente. Ma che problema è questo? Io so che non può non essere, se parlo non può non esserci l’intero. C’è l’intero e il fenomeno è un momento dell’intero, non esiste se non c’è l’intero. A questo punto non c’è più nessuna contraddizione. È probabile che anche con Fichte si potrebbe fare lo stesso discorso, non è casuale che Hegel, a proposito di Fichte, parlasse di “cattiva infinità”. Mi sembra che questa soluzione che propongo sia a un tempo elegante ed efficace, perché risolve il problema di Severino, attenendoci ovviamente al suo discorso, senza aggiungere né togliere nulla a tutto il suo discorso; semplicemente, considerando la non necessità della manifestazione. Perché mai dovrebbe manifestarsi quando so già che non posso non sapere che c’è? La prova del fatto che c’è è che sto parlando, più evidente di così: se il fenomeno non fosse inserito nell’intero non potrei parlare. Con questo abbiamo terminato la lettura del testo di Severino. La prossima volta vorrei ripercorre con voi il pensiero di Severino tenendo fermo ciò che a noi interessa di più, e cioè il funzionamento del linguaggio. Le cose che dice Severino si ripetono dalla prima pagina fino all’ultima. Questa idea che qualcosa deve essere posto per poterlo togliere o che non posso tenere ferma una cosa astratta dal concreto, perché sennò è autocontraddittoria, era già nelle prime pagine. Poi, l’ha articolata, ci ha mostrato il perché, ma il concetto fondamentale è rimasto tale e quale, dalla prima pagina all’ultima. In questo ha mostrato una certa coerenza, occorre dire. Mi premeva porvi questa soluzione, anche per sentire voi, che cosa ne pensate. A me è parsa una buona soluzione. Il fatto che Severino non ci abbia pensato, per quali motivi, questo è difficile a dirsi. Anche perché tutta l’argomentazione di Severino, quella che lo ha portato a questa sorta di percorso infinito, è tutta retta dal concetto di manifestazione. È un concetto abbastanza elastico; cosa devo intendere esattamente con manifestazione? Ciò che mi appare. Sì, certo, ma mi appare nel materiale o mi appare concettualmente? Perché mi si può manifestare benissimo una cosa ma come concetto; mi si manifesta che se io so che il fenomeno per accadere – adesso non usiamo più il termine manifestare – deve necessariamente appartenere all’intero, allora mi si manifesta questa cosa, oppure deve essere soltanto una cosa visiva? Non avrebbe senso, non penso che Severino sia così ingenuo. È tutto retto da questa idea del manifestarsi come se il concettuale non si manifestasse ma, direi quasi, avesse bisogno di un apparire fisico, e non si capisce per quale motivo. L’apparire fisico sarebbe migliore garanzia di un apparire concettuale, quando lui stesso sa benissimo che ciò che mi appare mi appare per una fede, mi appare per la fede che sia così. Risulta difficile da capire quale sia stato il pensiero di Severino che l’ha condotto a questo concetto di manifestazione, che pone così, come spesso accade quando un concetto è un po' problematico per cui si tende a scivolare via senza soffermarcisi troppo. Lui si è soffermato con centinaia di pagine su cose dove poteva anche essere più rapido, mentre sul concetto di manifestazione non c’è un’adeguata articolazione e, soprattutto, non c’è una “dimostrazione” che la manifestazione debba esattamente intendersi in questo modo. Quando deve necessariamente intendersi in quel modo? Quando non è autocontraddittorio, cioè incontraddittorio. Ora, qui possiamo anche dire che il concetto di manifestazione è incontraddittorio, in quanto ciò che si manifesta si manifesta per quello che è, cioè, direbbe lui, è L-immediato. Possiamo anche ammetterlo, però, è una dimostrazione che pone la manifestazione in modo formale. Se io dovessi porla concretamente, e cioè porre anche il contenuto semantico di questo concetto, cosa dovrei dire? C’è un qualche contenuto semantico che sia necessario al concetto di manifestazione? Qui torniamo su vecchie questioni: certo, ciò che appare, appare nel modo in cui appare, ma che cos’è questo ciò che appare? Perché lui attribuisce a questo concetto di manifestazione soltanto l’apparire immediatamente presente di qualche cosa? Non c’è motivo. Soltanto Severino potrebbe dirci che cosa pensa al riguardo. Torniamo a rileggere il paragrafo 22 a pag. 545. …la proposizione L-immediata: “L’essere è”, anche in quanto distinta dalla posizione dell’immutabilità dell’intero, e dalla posizione della distinzione tra l’intero immutabile e l’orizzonte del divenire, è, come tale, posizione della positività che oltrepassa la totalità del F-immediato… Questa proposizione “L’essere è” è l’intero, quindi, oltrepassa qualunque cosa. …per quanto tale positività non sia posta, nell’area posizionale di quella proposizione in quanto siffattamente distinta, come ciò che oltrepassa la totalità del F-immediato. La positività di questo oltrepassamento, dice lui, non è posta. Nell’area posizionale di quella proposizione… Cioè, l’altra proposizione che è stata posta… non c’è. Già tempo fa avevamo accennato alla questione del “porre”, a ciò che intende lui con posizione, cioè con il supporre qualche cosa, quindi, con il dire qualche cosa. Si potrebbe congetturare una possibile obiezione di Severino, e cioè che il porre qualcosa, in quanto dire qualche cosa, comporta che il fenomeno, ciò che appare, ciò che dico, viene oltrepassato dall’intero; quindi, seguendo sempre Severino, io devo porre, cioè dire, quindi, articolare una cosa perché questa cosa possa propriamente appartenere all’intero. È però un’obiezione abbastanza debole perché io posso comunque ribattere che perché possa dire quella cosa l’intero ci deve necessariamente essere, altrimenti non posso dire nulla. Forse, è questo l’elemento che Severino, non mettendo mai a tema il linguaggio e il suo funzionamento, non ha potuto tenere nella giusta considerazione, e cioè il fatto che quando dico questo qualcosa che dico fa già parte necessariamente dell’intero. In Peirce forse la cosa è più chiara, nel senso che Peirce ha posto, anziché l’intero, la verità pubblica: è la verità pubblica che dà un senso al segno. In Heidegger è il mondo. In entrambi i casi non c’è la necessità di manifestare qualche cosa perché, sia in Peirce che in Heidegger, è già presente il fatto che queste cose sono presenti in quanto condizione di ciò che io sono e di ciò che sto dicendo. Possiamo fermarci qui. Avete una questione su cui riflettere per vedere se la soluzione che io propongo è accettabile e sostenibile oppure se è confutabile dalla rilettura del testo di Severino.