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24 marzo 2021

 

I concetti fondamentali della filosofia antica di M. Heidegger

 

Questa sera iniziamo a leggere I concetti fondamentali della filosofia antica di Heidegger, pubblicato in italiano nel 2000 da Adelphi. Come già accennato, leggeremo questo testo e gli altri che seguiranno in modo assolutamente disinvolto, audace. Non leggeremo tantissimo, così come abbiamo fatto con i libri precedenti, ma leggeremo soltanto quelle parti che a noi interessano rispetto al progetto di cui ho parlato la volta corsa. Iniziamo dalla bella Introduzione del curatore di questo testo, Franco Volpi, uno dei migliori conoscitori di Heidegger. Dice, dunque, Franco Volpi: Nessun altro pensatore contemporaneo ha rivendicato quanto Heidegger la necessità di un confronto filosofico con i Greci. Essi sono per lui l’alpha e l’omega della filosofia, e le loro opzioni metafisiche hanno dato l’impronta alla civiltà occidentale avviandola nella direzione che porta fino all’essenza della tecnica moderna. Ritornare ai Greci, a ciò che essi hanno pensato, significa dunque riandare alle lontane radici metafisiche della nostra epoca. Forte di questa convinzione, da lui tradotta nella sentenza che “la filosofia nasce grande”, Heidegger si è cimentato a fondo con il pensiero greco, interpretandone i momenti e le figure decisive – specialmente Aristotele, Platone, i presocratici – e attingendo a piene mani al loro pensiero come al repertorio originario dei problemi, delle intuizioni e dei concetti fondamentali della filosofia occidentale. Qui è riassunto ciò che intendevo dire la volta scorsa rispetto al progetto, e cioè tornare alle radici del pensiero e cogliere quali sono gli elementi che hanno consentito di pensare oggi nel modo in cui pensiamo. A pag. 21. Quindi la filosofia è un sapere critico perché mette in atto un “discriminare” (κρίνειν) del tutto speciale: non si ferma alla considerazione ontica di un determinato ambito di enti, ma attua una considerazione ontologica che distingue fra gli enti e il loro essere. Già in questo corso, dunque, fa la sua comparsa il fondamentale concetto heideggeriano di differenza ontologica, inteso qui tuttavia in un senso modale-trascendentale, cioè appunto come differenza tra gli enti e il loro modo d’essere, e non ancora in senso trascendente, cioè come differenza tra gli enti e l’essere puro e semplice. Heidegger intenderà bene come la questione, che lui chiama differenza ontologica, si sia posta sin dall’inizio. Vedremo mano a mano come tutti i concetti, che sono stati elaborati duemila anni dopo, fossero già presenti presso i pensatori antichi, già presenti ma non sempre articolati, non sempre, come direbbe Heidegger, intesi. Intendere i concetti antichi è complesso, nel senso che è quasi impossibile non leggerli tenendo conto del nostro sapere attuale. Per poterli leggere occorre fare quel lavoro che ha fatto Heidegger, vale a dire, ripensarli, cioè porsi di fronte al pensiero dei Greci volendo essere, come dice lui, più greco dei Greci, riprendendo, riformulando, portando in essere le questioni fondamentali che hanno interrogato gli antichi per interrogarle di nuovo, interrogarle ancora: è questo il messaggio. A pag. 25. Ciò che colpisce in questa prima interpretazione dei “fisiologi” di Mileto è il fatto che Heidegger consideri i principi della natura (φύσις) postulati rispettivamente da Talete, Anassimandro e Anassimene – l’acqua (ϋδωρ), l’infinito (άπειρον) e l’aria (άρ) – non come gli elementi concreti che si indicano abitualmente con tali termini, ma come categorie filosofiche, ossia come determinazioni ontologiche del carattere d’essere degli enti. In altre parole, la considerazione della natura dei primi “fisiologi”, in quanto è filosofica, non si arresta agli enti nella loro naturalità e immediatezza ontica, ma si interroga circa il loro carattere d’essere, mira insomma, oltrepassando gli enti come tali, al loro essere, individuato di volta in volta nell’essere-acqua, nell’essere-infinito e nell’essere-aria. Ecco qui la questione che incomincia a porsi per gli antichi. Non è tanto la risposta che danno alle loro domande quanto l’aver poste quelle domande. È questa la questione interessante e che deve essere ripresa oggi: riprendere le loro domande. A pag. 26. Solo Anassimandro riuscirebbe a preservare dalla contaminazione naturalistica la propria determinazione ontologica del principio di tutte le cose, definendolo come άπειρον, ossia come negazione di ogni determinazione di tipo fisico. È per questo che agli occhi di Heidegger Anassimandro rappresenta l’acme della filosofia ionica. Qui vediamo già che con la nozione di άπειρον Anassimandro, ponendo l’indeterminato, si pone al centro della questione. Tutto questo percorso che verrà fatto da Heidegger, in questo e anche nei libri che seguiranno, è volto a intendere come si siano sempre colte fin dall’inizio le questioni essenziali. Ciò che non è stato posto è che queste questioni non costituiscono delle figure, degli enti in quanto tali, ma dei momenti, momenti che soltanto poi con Hegel troveranno la loro integrazione. A pag. 26. Il vero passaggio dalla considerazione degli enti alla tematizzazione dell’essere avviene soltanto quando è il λόγος a guidare esplicitamente la ricerca dell’essere. Qui avviene qualcosa di fondamentale. Oltre i naturalisti, i cosiddetti fisiologi, Eraclito e Parmenide muovono la loro interrogazione intorno al λόγος. Questo è importante perché dal momento in cui interviene il λόγος interviene la relazione. Potremmo dire che interviene il concreto. Prima non è che non intervenisse il concreto, ma questo concreto, pensato come φύσις, non era inteso come il risultato di una relazione ma come un dato, un dato fra gli altri. C’era già il concreto, ma bisognava intenderlo come astratto per poi tornare al concreto: solo allora è stato possibile l’intendimento. A pag. 27. …il concetto metafisico fondamentale di Eraclito -, bensì il filosofo del λόγος, nel cui orizzonte si manifesta il dispiegarsi dell’unità nella molteplicità, l’articolazione e connessione dei molti (πάντα) nell’uno (ν), il conflitto (πόλεμος) nella conciliazione e la conciliazione (άρμονια) nel conflitto. (Con ciò Heidegger pone le basi per la forzatura filologica che presenterà per la prima volta nell’Introduzione alla metafisica del 1935, quando tradurrà λόγος con Versammlung, “riunione”, “raccolta”). In modo analogo, Parmenide non è unicamente il filosofo della “prima via”, dell’essere uno e immutabile, ma è anche il pensatore che si interroga sul non essere e su quella difficile mescolanza di essere e non essere che contrassegna il dominio della δόξα, l’ambito in cui soggiornano i mortali. A pag. 28. …”1) Parmenide: nell’antitetico accentua la negatività. Tutto l’ente che ha carattere antitetico non ha essere. A possedere essere è soltanto l’Uno che sta prima delle antitesi. 2) Eraclito: nell’antitetico accentua la connessione. È vero che l’una cosa non è l’altra, eppure è anche l‘altra. Essente è proprio ciò che si contrappone. L’autentico è il vero mondo, costituisce l’essere dell’ente”. Vedete come sono già di fatto presenti tutte le questioni su cui la filosofia lavorerà nei millenni successivi, sono già tutte qui. Anche la questione posta da Hegel – Heidegger conosceva molto bene Hegel – ma la questione della tesi e dell’antitesi…  dice che Parmenide vede solo la negazione, cioè il fatto che qualcosa deve essere tolto. Eraclito vede la relazione, e cioè deve sì essere tolto ma permane e permanendo l’elemento è se stesso ma anche altro. Punto c) Gli altri eleati. Ampio spazio è dedicato invece a Zenone e alla sua confutazione dialettica di coloro che contestavano la dottrina di Parmenide, pretendendo di derivarne conseguenze assurde. Heidegger si sofferma in particolare sulla confutazione del movimento mediante i celebri paradossi, che esamina in modo dettagliato sulla scorta della testimonianza di Aristotele: 1) il paradosso dello stadio (στάδιον): “non potrai mai giungere alla fine di una pista”; 2) il paradosso di Achille (Αχιλλεύς) che non raggiungerà mai la tartaruga; 3) il paradosso della freccia (όϊστός) che mentre si muove è in quiete; 4) il paradosso del tempo (χρόνος): “la metà del tempo può essere uguale alla totalità di esso”. Senza entrare nel merito dell’analisi dei paradossi, è sufficiente notare che per Heidegger l’importanza di Zenone risiede nel fatto che egli coglie il problema del continuo alla base della determinazione dello spazio e del tempo, e in modo talmente radicale che le sue argomentazioni rimangono rilevanti anche per la discussione contemporanea, cui Heidegger fa riferimento menzionando I paradossi dell’infinito di Bolzano, Il problema dell’infinito di Cantor, i Principia Mathematica di Russell e Whitehead e il Problema del continuo di Weyl. In ogni caso Zenone sia andato oltre Parmenide, come del resto già Hegel pensava, in quanto Parmenide si sarebbe semplicemente limitato a porre la tesi eleatica dell’essere, mentre Zenone ne avrebbe fornito la dimostrazione mediante la confutazione dialettica della tesi opposta. Dice bene Volpi, il problema del continuo è un problema che ancora oggi non ha soluzione. Potremmo enunciarlo così: come il problema della misurabilità dell’infinito utilizzando il finito. È un problema che non ha soluzione, ovviamente. Ma vedremo più avanti. A pag. 30. Ciò implicherebbe una migliore articolazione della comprensione dell’essere rispetto alla prima filosofia della natura, e l’individuazione di una struttura ontologica definita in modi rispettivamente diversi: in Empedocle le “radici” (ριζώματα), in Anassimandro i “semi” (σπέρματα) e in Leucippo e Democrito gli “elementi” (στοιχεία) delle cose. Tuttavia questo sforzo non rimane costante. Dove si allenta si ha la ricaduta dal piano ontologico dell’essere a quello ontico degli enti. Ciò avviene, secondo Heidegger, perché da un lato tutti questi pensatori tengono salda l’idea maturata con Eraclito e Parmenide che non l’αϊσθησις (trad. percezione) bensì il λόγος deve aprire la via di accesso alla comprensione dell’ente nel suo essere. Dall’altro, però, essi si preoccupano di salvare i fenomeni e quindi sviluppano un’analisi più approfondita dell’αϊσθησις e di ciò che essa attesta nella sua immediatezza. Qui vediamo tra l’altro come compare già uno dei problemi più importanti. Salvare la percezione, certo, e quindi salvare in fondo la realtà, perché soltanto con la realtà è possibile immaginare di potere dominare la φύσις, dominare le cose, gli enti. Quindi, il richiamo alla realtà era presente e dice giustamente e, come dice giustamente Heidegger, era facile scivolare dal λόγος, dall’essere, dall’intero, verso l’ente, cioè entificare l’essere, entificarlo per dominarlo. Questa è sempre stata la questione centrale del pensiero occidentale. Il motivo per cui si è dovuto entificare l’essere è per poterlo dominare, per potere dire che cos’è. A pag. 32. La conclusione è che “ogni verità è un πρός τι, è relativa a qualcuno che percepisce. L’uomo, per il suo modo d’essere, fa parte del κόσμος ed è, come quest’ultimo, in continuo mutamento (Eraclito). Nessuna percezione si ripete mai come identica. È impossibile cogliere l’ente in se stesso. La dottrina dell’essere del mondo in generale viene applicata all‘uomo, che è in costante mutamento”. Questo ha costituito il problema principale quando il pensiero è passato dai fisiologi a Eraclito e a Parmenide, poi Platone e Aristotele, e cioè il passaggio dalla natura all’uomo, all’esserci, al Dasein. Ma questo esserci è mutevole, cambia continuamente, il Dasein è quello che è in quanto progettato, dirà Heidegger, e quindi non è determinabile, non è individuabile, non è fermabile. Quindi, ecco il tentativo del pensiero, della filosofia, di stabilire l’essere come ente al fine di poterlo gestire. Se l’essere – questo in seguito a Heidegger, alla sua differenza ontologica – non può essere ricondotto all’ente, ma è ciò che pone la condizione perché l’ente appaia, allora non potrò mai determinare l’essere, possederlo, anche perché nel momento in cui parlo dell’essere, di fatto, parlo dell’ente e non dell’essere. L’essere è quella cosa che si sottrae nel momento in cui appare l’ente. A pag. 33. Quanto a Gorgia, Heidegger mostra di tenere in grande considerazione le sue celebri tesi sul non essere riportate da Sesto Empirico (Adversus mathematicos) e dal tratta pseudo-aristotelico De Melisso, Xenophane, Gorgia. Ancora una volta questa sua valutazione collima con quella di Hegel che riteneva Gorgia “pensatore particolarmente profondo”. Le celebri tesi affermano: nulla è, se anche fosse non sarebbe conoscibile, se anche fosse conoscibile non sarebbe comunicabile. Secondo Heidegger, che ricorda l’impegno profuso da Aristotele per confutare gli argomenti di Gorgia, non si tratta di sofismi né di “esempi di una dialettica esasperata”, ma di “riflessioni filosofiche serie”. Dunque, anziché incorrere nell’anacronismo che vede in Gorgia un nichilista ante litteram, si tratta di capire i presupposti ontologici della sua posizione. Potremmo cioè chiederci che cosa fa dire a Gorgia che nulla è, che se anche fosse non sarebbe conoscibile, che se anche fosse conoscibile non sarebbe comunicabile? Che cosa ha intravisto Gorgia? Come ricordava Volpi, per Heidegger il pensiero nasce grande perché ha inteso sin da subito quali sono le questioni, ha inteso da subito ciò con cui si deve confrontare. Oggi noi potremmo dire che si deve confrontare con l’impossibilità per la volontà di potenza di fermare la parola. A pag. 34. Punto 4. Essere, dottrina delle idee e dialettica in Platone. La “verità” cessa di essere άλήθεια, ossia la “svelatezza” quale carattere dell’essere stesso, e comincia a venire concepita come intelligibilità (νούς) e correttezza (όρθότης) dello sguardo che la coglie. Ciò significa che comincia a essere posta in relazione con il soggetto umano che la conosce. Con il platonismo fa la sua apparizione il principio metafisico della “soggettità” (Subiectität) e prende avvio il progetto di dominio conoscitivo e operativo dell’ente che giunge al proprio compimento nell’essenza della tecnica moderna. Qui Volpi ha veramente colto la questione. Con Platone avviene la disgiunzione tra soggetto e oggetto, tra il percipiens  e il perceptum, tra l’immanente e il trascendente. Naturalmente, questa divisione è stata fondamentale per il pensiero per potere procedere, per potere articolarsi sempre di più. Ma questa divisione, su cui si fonda la metafisica, è quella divisione che ha impedito, almeno fino a Hegel, di potere intendere il tutto, di potere intendere l’intero, di potere intendere, in definitiva, il linguaggio. Proprio qui incomincia la metafisica, nel momento in cui Platone distingue il soggetto dall’oggetto. A pag. 38. Punto b) La lettura fenomenologica del “Teeteto”. Senza entrare nei dettagli della sua esegesi del testo, basti qui ricordare che nell’affrontare l’interrogativo discusso nel dialogo, ovvero “che cos’è il sapere?”, Heidegger appare interessato a definire la natura delle due modalità conoscitive mediante le quali l’anima umana accede all’ente nella sua svelatezza, ossia la percezione sensibile (αϊσθησις) e l’apprensione intellettiva o intellezione (νόησις), e soprattutto a capire se l’una si innesti nell’altra in odo da formare una struttura unitaria dell’anima umana. Egli mira a definire se la natura di tale struttura implichi un determinato modo d’essere dell’anima stessa. Una volta che è avvenuto il fatto, e cioè la divisione di soggetto e oggetto, da quel momento si è incominciato a vedere come sono in relazione queste due cose, sempre mantenendole separate. Torno a dire, occorreva Hegel per accorgersi che non sono figure separate ma momenti dello stesso. Heidegger interpreta dunque il collegamento platonico di percezione e pensiero e la conseguente definizione del conoscere come opinione vera accompagnata da ragione in base alla teoria husserliana del sensibile e del categoriale… Qui vedete che sta ponendo la questione del come combinare questi due elementi separati. In fondo la questione è quella antica dei presocratici, e cioè del finito e dell’infinito: come misurare l’infinito col finito? Platone distingue il discorrere (λέγειν) dal semplice nominare (ονομάζειν) in ragione del suo carattere collegante, e ciò spianerebbe la strada alla definizione aristotelica del discorso enunciativo come congiunzione o disgiunzione di rappresentazioni, in cui si dà la possibilità del vero e del falso. Qui notate proprio come il pensiero, il discorso, è avviato in questa direzione: come coniugare insieme i due momenti, soggetto e oggetto, immanente e trascendente, ecc.? Il nominare non è una conoscenza in senso proprio. È impossibile determinare uno degli elementi (semplici) mediante il λόγος; l’essenza del λόγος consiste infatti nella congiunzione di due elementi. Si sono accorti qui che, in effetti, il λόγος non è altro che una congiunzione, una relazione, pur non cogliendo ancora il fatto che questi elementi sono momenti e non figure separate. Conoscibile, infatti, è soltanto ciò che è congiunto e che, in base a ciò, può essere disgiunto. Solo in base a questa nuova comprensione del concetto di essere si capisce in che senso Platone possa dire che qualcosa è identico, uno. … …conoscibile nel λόγος è soltanto ciò che può essere determinato in una congiunzione, in modo da poter essere colto in relazione a un altro. Qui ha già praticamente detto tutto, c’è già tutto il pensiero successivo: qualcosa può essere inteso solo se è in relazione a un altro; ciascun atto di parola è quello che è se è in relazione a un altro. Il problema è sempre stato, e torno a dirlo, il mantenere separate queste figure, cioè, non intendere che il mio dire e il ciò di cui dico sono lo stesso. L’anima piega Heidegger “ha un rapporto primario con l’essere. Il suo comportamento fondamentale è il λόγος. Λόγος-ν. Questa relazione appartiene all’anima stessa. L’ente in quanto tale è riferito a un altro; l’ νν è l’ente ma anche essere, qui oscilla, anche Aristotele talvolta usa ν come e altre volte come essere. ν è nel contempo τερον. L’ente nel contempo è anche altro. Ma com’è possibile che il λόγος stia in rapporto con l’ν – inteso da Parmenide in poi come ν (l’Uno) – essere in quanto uno essenzialmente altro? Il problema di tutto il pensiero è già enunciato. L’essere è l’intero in sé conchiuso… Il concetto costruttivo dell’ν di Parmenide deve essere modificato attenendosi ai fenomeni. Come va concepito l’essere affinché il λόγος, che è a sua volta un ν, stia in rapporto con un altro ν, e com’è possibile che nella struttura dell’essere sia implicita una relazione ad altro? … la modificazione del concetto di essere consiste nel fatto che Platone afferma che l’essere è δύναμις κοινωνίας γενών, possibilità della connessione fra le determinazioni supreme che appartengono all’essere in generale”. Questa è la soluzione che fornisce Platone: l’essere come possibilità di congiunzione. Vedremo più avanti questo aspetto. Tra questi rapidi cenni merita di essere ricordato quello relativo al problema del bene. Heidegger si chiede come mai in questa fase della filosofia di Platone scompaia la problematica del bene inteso come culmine del processo conoscitivo, esposta nella Repubblica e ripresa nel Timeo. Ed ecco la sua spiegazione: “La conoscenza è una κίνεσις dell’anima, un agire. Ogni agire è riferito a qualcosa che va realizzato. L’ente è ciò “in vista di cui” intraprendo il cammino della conoscenza. L’essere è caratterizzato come ciò “in vista di cui” conosco: è messo in relazione a un fine “in vista di cui” esso è. questa è ingenuamente concepita come un ente e come un άγαθόν. Tale “in vista di cui” è inteso come qualcosa di superiore rispetto all’essere. Qui è evidente che la questione si sta già dirigendo verso ciò che ho inteso chiamare “principio di ragione”. Il principio di ragione è ciò che rende conto del perché le cose sono così come sono, cioè, perché le penso nel modo in cui le penso. Ora, qui c’è un avvio di articolazione che poi Heidegger nel testo – stiamo ancora leggendo l’Introduzione di Volpi – articolerà meglio, ma questo essere “in vista di cui” è l’essere in vista di un utilizzabile, è l’essere gettati verso un utilizzabile. Ma utilizzabile per che cosa? Che cosa c’è dentro questa parola “utilizzabile”? C’è la volontà di potenza. Perché volere utilizzare qualcosa? Perché mai muoversi in una direzione? Perché ciò che più importa è andare verso ciò che è utilizzabile? Tutte queste domande, naturalmente, meritano di una risposta, che arriverà a breve. A pag. 44. Ciò che Heidegger intende mettere in luce è appunto lo stretto legame di Aristotele con Platone, mostrando come lo Stagirita riprenda e affronti nella sua dottrina dell’essere tre ordini di questioni rimaste aperte in Platone: 1) la distinzione tra le determinazioni formali (identico e diverso) e quelle reali (quiete e movimento) dell’essere;… Qui è posta la questione dell’antitetico come qualcosa che non può togliersi dal “tetico”, da ciò che è posto. 2) la riconduzione dialettica delle determinazioni ontologiche supreme all’unità dell’essere;… Questo è il progetto di Aristotele che sarà poi svolto da Hegel: come la distinzione di due momenti possa tornare nell’Uno. 3) la questione se l’essere sia da intendere in un senso univoco o se non vada piuttosto pensato come polisemico. Ciò che noi sappiamo oggi ci fa dire che sono entrambe le cose simultaneamente. Però, per Aristotele era una questione, era una domanda, era qualche cosa da pensare. Ciò che sto dicendo è che è ancora da pensare e che noi siamo chiamati a pensarlo. A pag. 47. …mantenere la dottrina della polisemia dell’essere che Heidegger considera a ragione come il cuore dell’ontologia aristotelica. Questo va mantenuto: la dottrina della polisemia dell’essere. Se noi pensiamo all’essere come lo pone Heidegger, come l’apertura, come la condizione per il manifestarsi dell’ente, allora questo essere appare come il λόγος, semplicemente. Lui stesso, lo abbiamo visto nei testi precedenti letti, pone il λόγος come l’essere, e viceversa l’essere come λόγος. A pag. 50. L’originalità dell’interpretazione heideggeriana risiede proprio nel modo in cui egli interpreta l’ούσία nella sua funzione di riferimento unitario dei quattro significati dell’essere, e nel compito che di conseguenza assegna alla dottrina dell’ούσία. Tale termine va inteso per Heidegger non come una determinazione ontica, ma ontologica: non indica cioè un ente reale, una sostanza, ma un modo d’essere, cioè l’“enticità”, la “sostanzialità”, ossia il carattere d’essere di ciò che per Aristotele è in senso primo e autentico. E tale carattere d’essere è quello dell’“essere presente lì davanti”. Per questo egli propone di tradurre ούσία con Vorhandensein e più tardi con Seiendheit, designando in tal modo il carattere posseduto da ciò che è ente, per appunto l’“enticità”, consistente nell’essere presente. Sembra quasi di trovarci di fronte alle questioni su cui pensava Gentile. Trovarsi di fronte, cioè, essere nell’atto; mi trovo di fronte, cioè, sta accadendo questo, qui e adesso. L’ούσία è, per dirla così, ciò che sta sotto all’atto, è ciò che è condizione dell’atto, ciò che mostra l’atto in atto. A pag. 51. Qui parla del sofista e del filosofo. Entrambi – afferma Aristotele – operano nel medesimo ambito del filosofo: il sofista si distingue da quest’ultimo per la scelta di vita… … …ossia “decisione per la ricerca scientifica”… … Il sofista e il filosofo, insomma, si distinguono per l’intento con il quale fanno ricerca: per il filosofo la ricerca è una scelta di vita, per il sofista un gioco. A sua volta il dialettico – questo è il punto -  si distingue dal filosofo per il fatto che non dice nulla in merito all’ούσία: gli manca, afferma Heidegger, “l’orientamento secondo l’idea di essere”. Il dialettico, cioè, non considera il modo d’essere degli enti, non è “ontologo” e non produce lo scarto di prospettiva che lo porta a considerare, nell’ente, il suo modo d’essere. Per Heidegger soltanto con Aristotele la filosofia giunge all’attuazione piena della sua natura di ontologia, giacché solo con lui si introduce in maniera consapevole ed esplicita la differenza tra la considerazione dell’essere e quella dell’ente. Dice qui Heidegger che in realtà c’è già in Aristotele un’anticipazione di ciò che per Heidegger sarà la differenza ontologica. Naturalmente, non possiamo metterci a stabilire se sia così o non sia così. Heidegger, anche lui compie un lavoro di lettura dei testi antichi molto disinvolto, non li legge da scolaretto, non deve capire cosa hanno voluto veramente dire, ma deve trovare in questi testi che cosa sta ancora interrogando oggi noi che li leggiamo e, quindi, sollecitare il lettore a riprendere l’interrogazione, non da dove gli antichi l’hanno lasciata, non è tanto questo, ma riprendere quella interrogazione perché quella interrogazione è ancora qui adesso e continua a interrogare. A pag. 52. Aristotele afferma in apparente contrasto con Met. E 4 che l’essere nel senso del vero è nelle cose stesse e non nella mente, e che questo è il significato più importante dell’ente. Per conciliare i due passi, Heidegger sostiene che la possibilità dell’esser-vero del giudizio è ontologicamente fondata sul fatto che l’ente stesso come tale è “vero”, e precisamente nel senso indicato dall’etimologia del termine greco ά-ληθές: esso è “dis-velato”, “non-nascosto”, “non-latente”, ossia – come asserivano gli scolastici – l’ens è manifestativum sui (l’ente si manifesta da sé). Dunque il giudizio in quanto sintesi o dieresi non è un atto conoscitivo originario, ma è fondato su rappresentazioni semplici, che in esso vengono congiunte o disgiunte, e sul loro coglimento diretto, il νοεν. Questo è interessante perché, in effetti, ci sta dicendo che non si tratta di una diversità di posizioni per cui ciò che è vero è nella cosa o per cui ciò che è vero è nel λόγος, cosa che sarà poi ripresa dalla disputa sugli universali. Ma qui è già indicata la direzione da seguire, perché dice l’ente stesso come tale è vero, in quanto si disvela, è ά-ληθές, è disvelato, l’ente mostra se stesso. Pertanto, in Met. Θ 10 Aristotele attribuisce verità non solo “alla διάνοια, ma anche al νοεν in quanto tale, al puro e semplice “coglimento” di qualcosa… νοεν è il coglimento di qualcosa, διάνοια è l’articolazione, l’elaborazione. …che ha come antitesi non l’essere-falso, bensì l’άγνοια, l’ignoranza. E ancora: “ogni coglimento semplice e diretto di qualcosa, ad esempio delle categorie, non coglie un composto, bensì qualcosa che può essere solto solo in se stesso. In ciò non v’è alcuna σύνθεσις, sicché non lo si può nemmeno cogliere in quanto qualcosa che non è. Si può coglierlo in modo semplice. Questo è il tipo di coglimento più originario: il semplice scoprire (άληθεύειν) con il semplice guardare”. Come non pensare qui al discorso che fa Hegel rispetto all’in sé e al per sé, a questo primo momento in cui c’è la percezione, il semplice cogliere qualcosa? Ma che cosa aggiunge Hegel, che mancava in Aristotele? Che questo coglimento, in realtà, è possibile solo se ciò che il coglimento coglie, ritornando sul cogliere, fa del cogliere quello che è; ché altrimenti questo cogliere è assolutamente niente. A pag. 54. Anzitutto, quanto al carattere “teologico” del primo motore immobile, egli (Heidegger) dichiara con risolutezza: “Esso non ha nulla a che fare con Dio né con la religione; ha un significato puramente ontologico. La “teologia” di Aristotele non ha nulla a che vedere con il chiarimento del rapporto dell’uomo con Dio. Ciò è stato trasformato nell’interpretazione scolastica e integrato nella comprensione cristiana di Dio e dell’uomo; ma è fuorviante interpretare Aristotele in termini cristiani. E in merito alla determinazione del primo motore immobile come pensiero di pensiero osserva: “Aristotele non pensa né allo spirito né a una persona divina, bensì unicamente a definire un ente in modo che esso corrisponda alla determinazione suprema dell’essere. Per questo Aristotele è ben lungi dal constatare un legame tra siffatto νούς e il mondo. Quest’ultimo non ha bisogno di essere creato, esso è infatti eterno, senza inizio e senza fine. La connessione di ciò che è mosso con ciò che muove, e che è in senso originario, è una connessione puramente ontologica … In questa coerenza estrema di Aristotele risiede un problema fondamentale, frainteso dall’interpretazione cristiana, e anche da Hegel, che vi proiettò il proprio concetto di spirito”. Qui ci sarebbe da fare una riflessione perché dice Quest’ultimo… il tutto, l’intero. … non ha bisogno di essere creato, ma è sempre stato, perché è il tempo, è il tempo in quanto simultaneità. È eterno perché non ha un passato, non ha un futuro, perché è qui adesso: questa è la definizione migliore di intero, di λόγος, di ciò che è qui adesso, continuamente qui e adesso. A pag. 63. Non c’è dubbio, potremmo aggiungere, che Heidegger ha inteso essere il primo greco dell’età contemporanea e ha voluto raccogliere, ripensandoli in un’appropriazione vorace, i problemi che i Greci per primi hanno visto dando inizio alla tradizione della filosofia occidentale. Tuttavia, pur riconoscendo qui ai Greci il merito di aver posto la domanda sull’essere dell’ente e di averla resa progressivamente più rigorosa – prima con Parmenide ed Eraclito, poi con Socrate e Platone, infine soprattutto con Aristotele –, egli è convinto che la comprensione greca dell’essere rimanga condizionata da una concezione naturalistica del tempo e dal primato accordato alla dimensione del presente. Questo è diventato il problema di Heidegger: “Come mai il presente gode di tale privilegio? Il passato e il futuro non hanno il medesimo diritto? L’essere non deve forse venire concepito in base alla medesima temporalità?”. Di qui la conclusione del corso: “Possiamo dire di aver compreso i Greci solo se torniamo a porre questa domanda, intesa nel senso dell’energico confronto nella controdomanda rivolta ai Greci stessi”. Tenendo conto di quanto accennato prima, consideriamo la domanda di Heidegger: perché i Greci hanno dato tanta importanza al presente? Per la loro estrema attenzione all’atto, al fenomeno, al ciò che è qui adesso. L’idea di cui dicevamo, in effetti, è che questo “qui e adesso”, forzando un po’ il testo, è sempre stato, è l’eterno. Non è che i Greci non si siano occupati del passato e del futuro, ma semplicemente hanno preso dal qualcosa che accade per intendere il come può accadere ciò che sta accadendo, vale a dire, qual è la ragione d’essere di ciò che sta accadendo. La ragione d’essere di ciò che sta accadendo, è quel principio di ragione di cui accennavo all’inizio, principio di ragione che può essere trovato unicamente nella volontà di potenza. È lì, nella volontà di potenza, che il principio di ragione si manifesta. Ma passiamo direttamente alle parole di Heidegger. Leggiamo solo questo per introdurre la questione. A pag. 70. Cerchiamo anzitutto di intenderci circa lo scopo e il carattere del corso. Lo scopo è approfondire la comprensione dei concetti scientifici fondamentali che non hanno solo determinato e determinano in modo decisivo tutta la filosofia successiva, ma che in generale hanno reso possibile la scienza occidentale e la reggono ancora oggi. … introduttivo non significa un discorso divulgativo finalizzato a promuovere la cosiddetta cultura generale. Dato che nella mentalità popolare la filosofia ha questo ruolo, e che anzi si è addirittura prossimi a degradarla ufficialmente a un mestiere del genere, si rende necessario un chiarimento riguardo allo stato attuale. … Punto di partenza è la concezione comune della filosofia e del suo ruolo nell’insegnamento universitario. 1) La filosofia tratta di “questioni generali” che possono riguardare e interessare chiunque. 2) Ciò di cui la filosofia domanda si può incontrarlo in ogni scienza, anzi, addirittura al di fuori della scienza. 3) La filosofia è qualcosa che, per motivi diversi, in misura diversa e con diverso grado di approfondimento, costantemente o di tanto in tanto, occupa chiunque. La filosofia è qualcosa di generale, non una disciplina specialistica. Dunque dev’essere altresì accessibile e comprensibile a tutti. Non c’è bisogno di alcuna metodica specifica, bensì del sano buonsenso comune a tutti: ogni mente lucida può comprenderla, chiunque ne può parlare. A pag. 71. Questo atteggiamento universalmente diffuso nei confronti della filosofia è davvero inquietante. La più radicale, quindi la più difficile, delle scienze è stata degradata a faccenda attinente alla cosiddetta cultura generale. La sua presentazione e la sua problematica debbono essere regolate dai bisogni dominanti. Non è questo il momento di interrogarci sui motivi e sui percorsi che hanno consentito a questa situazione di affermarsi e di diffondersi oggi più che mai. Rispetto a tale concezione popolare intendiamo piuttosto illustrare positivamente, per lo meno in termini provvisori, la possibile idea della filosofia, per cogliere con chiarezza le necessità positive del suo studio implicite in tale idea.