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24 febbraio 2021

 

L’attualismo di G. Gentile

 

Siamo al Capitolo V. Gentile pone la questione della filosofia come la mèta, non certamente come la storia della filosofia o la filosofia così come viene praticata nelle università, ma la filosofia come il pensiero, e cioè qualcosa di molto simile a ciò che Hegel indicava come spirito assoluto. C’è sempre questa mèta in Hegel, Gentile, ma anche Heidegger, in molti c’è la mèta, l’obiettivo finale. Come si giunge all’idea di questa mèta? Attraverso argomentazioni, cioè attraverso sillogismi formali. Quindi, giungere alla mèta, all’obiettivo, qualunque esso sia, è sempre una costruzione argomentativa che, come sappiamo, non ha valore al di fuori di se stessa. E questo ci dà l’idea di quanto dobbiamo tenere conto in una cosa del genere, o quanto dobbiamo tenere conto di ciò che ci circonda in generale. Questa è una cosa che occorre avere sempre presente, anche quando si riflette o si articolano questioni teoreticamente complesse come queste: comunque sono il prodotto di costruzioni, costruite da sillogismi formali. E, allora al Paragrafo 2, II problema eterno della filosofia, incomincia a dire qual è il problema della filosofia. Gentile deve fare il suo percorso, cioè mostrare che la filosofia che ha in mente lui non è quella che avevano in mente i suoi predecessori. La filosofia in vero non è quella postuma contemplazione della realtà, che da Aristotele ad Hegel si ritenne, Non c’è prima il mondo, e poi il pensiero; prima la vita dell’uomo, e poi, quando i bisogni della vita siano stati soddisfatti, la filosofia. Secondo l’adagio che diceva Primum vivere, deinde philosophari. Per Gentile questo adagio è falso perché non c’è prima il vivere e poi il filosofare, perché sono la stessa cosa. L’uomo è uomo in quanto filosofo; e il mondo di cui l’uomo parla, in cui vive, di cui si dà pensiero, è il suo mondo, il mondo del pensiero, che non ci sarebbe senza il suo pensiero. L’uomo, è vero, prima di pensare vive. Ma in che senso? Egli prima di proporsi quei problemi astratti nel cui dibattito altri fa consistere il pensiero, l’uomo si propone e risolve nella prassi i problemi della vita. Se non che appunto in questa prassi, in cui si vengono ponendo tutti i problemi concreti che soli hanno valore filosofico, si realizza il vero pensiero dell’uomo e l’uomo viene perciò filosofando. L’uomo ha fame, che è pure un problema da risolvere, e la soluzione è nel mangiare. Ma la fame non è soltanto un bisogno fisiologico, né la sua soddisfazione è un fatto in cui s’impegni soltanto l’organismo fisico dell’uomo. Il quale sa la propria fame,… Sta qui tutta la questione: l’uomo “sa” la propria fame. …e fa perciò di questa un problema del suo intelletto più che del suo stomaco: tanto vero, che con l’intelletto può attutire tutti gli stimoli che ei localizza nello stomaco, e lasciarsi morire d’inedia. /…/ L’uomo dunque, che già pensa, e trova difforme la realtà dal suo pensiero, s’affida al pensiero; e abbandona quella realtà, per ritrovare nel pensiero una realtà conforme alle sue aspirazioni: una realtà immortale, da cui possa esser derivata questa che, presa tal quale, come si presenta all’immediata esperienza, gli rende impossibile la vita. Ma proponendosi una realtà intelligibile, diversa da quella in cui vive, l’uomo non cambia propriamente problema: soltanto se lo propone in una forma che gli consenta una soluzione, e così gli consenta di vivere. Qui occorre intendere, perché gli consenta di vivere, dopo le cose che ci ha detto, è da intendersi come gli consenta di pensare o, se vogliamo evocare Nietzsche, gli consenta il superpotenziamento. Questa natura vuol essere intesa come la natura, che l’uomo possa concepire senza uscir da se stesso, che l’uomo cioè possa dominare e non trovarsi innanzi come una muraglia altissima, insormontabile. Lo stesso naturalismo perciò non mira alla natura; ma, attraverso la natura, all’uomo che costruisce il naturalismo per risolvere il problema della sua vita. La quale, impossibile finché la vita sia minacciata dalla morte, è ancor meno possibile finché non abbia né anche il modo di nascere, d’iniziarsi, presupponendo a sé una natura che è la negazione della vita umana. Posta così, la natura sarebbe la negazione. È per questo gli umani cercano da sempre di dominarla. Ma la cosa può essere letta in modo più interessante, sempre tenendo conto della volontà di potenza; quindi, non tanto il dominio della natura, sì, anche, ma è un passaggio: ciò che si vuole dominare realmente è quella cosa che non si riesce a dominare, ed è l’unica cosa che importa, e cioè la divisione che accade parlando, quello iato, quell’apertura, quella scissura: l’abisso che si spalanca tra il dire e il detto. La vita del pensiero non s’impoverisce nel suo sviluppo, né si rinnova sostituendo una forma ad un’altra: anzi si arricchisce di continuo, non aggiungendo il nuovo al vecchio, godimenti a godimenti, nuovi acquisti agli antichi possedimenti, ma fondendo e foggiando in forma sempre nuova tutta se stessa. Questa è una conclusione inevitabile se si tiene conto del pensiero di Gentile, dove il passato è presente, è qui e adesso; quindi, tutto ciò che è stato, che ho pensato, che ho costruito, che ho acquisito, tutto questo, mano a mano che lo “posseggo”, si modifica e modifica anche me, e quindi è sempre qualcosa di nuovo, cioè non è mai acquisito del tutto. Noi in particolare nel nostro autoconcetto non abbiamo nulla distrutto o rinnegato del vecchio concetto della logica dell’astratto, che abbiamo voluto più precisamente definire per garentire in modo più sicuro la conservazione in quella logica concreta, che garentisce il valore d’ogni pensiero legittimo. Sta dicendo che quello che sta facendo non è eliminare ciò che lo ha preceduto. Qui c’è Hegel, ma a integrarlo, a integrarlo e pensarlo nel concreto. Integrare è questo: pensare nel concreto; quindi, non pensarlo più solo come astratto, cioè come l’astratto dell’astratto, ma pensarlo nel concreto, cioè pensarlo come atto linguistico, come atto di parola. Paragrafo 3, Filosofia perenne. La filosofia, così come la sta ponendo Gentile è l’obiettivo che occorre raggiungere, nel senso che si tratta del pensiero puro, un pensiero che pensa se stesso, che si rende conto di essere pensiero. Quindi, filosofia perenne nel senso che è un pensare in atto perenne, è un perenne pensare in atto. Questa la verità profonda del leibniziano concetto della «filosofia perenne», a Leibniz per altro inspirato dalle filosofie sincretistiche dei Neoplatonici italiani del Quattro e del Cinquecento. … Nella nota dice che II nome stesso fu da lui preso, com’è noto, dalla De perenni philosophia (1540) del nostro A. Steuco da Gubbio (1496-1549). /…/ La filosofia non può esser mai se non questo riepilogo di tutte le filosofie, concorrenti in un sistema unico, poiché ciascuna ha in sé un momento positivo con cui concorre allo sviluppo della filosofia unica nel suo processo, che è il divenire dell’autoconcetto. Come dire ancora che tutte le questioni che la filosofia ha posto sin da quando esiste hanno un unico obiettivo, hanno un’unica domanda. Il problema è sempre lo stesso, che si trasmette da un pensiero all’altro, ma il problema è quello del linguaggio. È questo il problema che compare sempre e non si può togliere in nessun modo. Ci si accorge a un certo punto che non è un problema. Sarebbe questa a un certo punto la soluzione del problema: non il problema in quanto tale ma il volere togliere di mezzo il linguaggio. L’autoconcetto è autoconcetto, ma è anche tutti i concetti in cui egli si pone. E se ogni concetto, nella sua astrattezza, è la negazione della negatività del pensiero concreto, e si pone perciò, come abbiamo visto, in un rigido dommatismo intollerante, e rende perciò ogni sistema filosofico esclusivo e ripugnante a tutti gli altri; ogni concetto, d’altra parte, è vero e si pensa in quanto supera questa sua astrattezza e si arrende alla forza dell’autosintesi, e smette perciò la sua negatività particolare, rientrando nel processo vivo del pensiero pensante, e così mediandosi nella verità dell’autoconcetto. Qui incomincia a dire qual è la via da seguire, che è ovviamente quella dell’inserire l’astratto nel concreto, di cessare di credere nell’astratto dell’astratto, cioè, al mito. Paragrafo 4. Estemporaneità della filosofia perenne. La filosofia perenne, di cui parliamo noi, è bensì la filosofia che si spiega attraverso i vari sistemi, ma in quanto questi sistemi siano considerati non nella loro empirica fenomenologia, sì nella logica verità. La quale non si leva per altro, secondo l’opposto mito del logo platonico, al di sopra della nostra testa, come quella filosofia divina, che gli uomini possono sospirare sempre, ma possedere non mai. La filosofia perenne è la filosofia eterna nella sua presente e non transeunte eternità: sempre questa filosofia: quella che si attua col valore di filosofia. Qui sta parlando del pensiero. Il pensiero è sempre questo pensiero. D’altra parte, ho solo questo: il pensiero attuale. Come sappiamo benissimo, se io vado a rivangare pensieri antichi, li sto pensando adesso. Se penso a cosa farò tra mille anni, è una cosa che penso adesso. La quale, nella sua attualità, come quella presente filosofia che essa è, non si pone accanto e dopo le filosofie precedenti: in un presente che succeda al passato. Un presente così è un mito. Il passato non è prima e quindi fuori del presente, ma nel presente. Così tutti i sistemi sono membra dell’organismo in cui si configura e attua la filosofia perenne, in quanto non la condizionano, ma la realizzano: ne sono la produzione, la manifestazione, la prova. Nulla mai prima dello spirito, se non quello appunto che esso si getta dietro le spalle, ma che vive pur sempre della sua attuale vita. Quindi la filosofia perenne, a cui guarda la filosofia dell’autoconcetto, non è altro che la stessa filosofia dell’autoconcetto nella coscienza storica che essa ha del suo proprio sviluppo. E cioè: sa chiaramente che viene da altro, ma questo altro da cui viene è qui adesso, non è laggiù ma è qui nel momento in cui ne parlo. Così è che non si possa dire, in che obbiettivamente la filosofia consista, senza filosofare; e, qualunque metodo i filosofi abbiano creduto di adottare, sempre il loro concetto della filosofia è stato, anzi che il principio, il risultato dei rispettivi sistemi. Questa è integrazione hegeliana. Paragrafo 7. Il problema del cominciamento in filosofia. Questo punto di partenza, l’Io nella immediatezza, che esso nega con l’atto suo, è il punto da cui muove il processo dell’autoconcetto, e perciò è pure il punto da cui prende le mosse la filosofia. Di lì comincia, di lì deve cominciare. La distinzione hegeliana tra principio e cominciamento, uno proprio dell’Idea in sé, l’altro dello spirito che rifà (per lo più a ritroso) il cammino di quella, togliendo perciò il suo cominciamento dal punto opposto a quello donde s’inizia il processo logico dell’Idea, non regge, ed è infatti un residuo di quella filosofia della trascendenza che resiste alla dialettica hegeliana come logo astratto presupposto dallo spirito. Sì, in parte, però questo logo astratto è presupposto dallo spirito che lui attribuisce a Hegel, appartiene a Hegel fino a un certo punto. Anche Hegel parte dall’Io come immediatezza, perché da qualche parte accade di incominciare, ma questo inizio lo conosco soltanto dopo. Abbiamo già visto con Hegel che questo primo momento non c’è senza il secondo, il quale non c’è senza il primo. Quindi, andrei più cauto nell’attribuire a Hegel queste cose. Infatti lo stesso pensamento della logica presuppone per Hegel la Fenomenologia, la quale fu dapprima presentata dall’autore come prima parte del Sistema della scienza: e la Fenomenologia in Hegel non si distingue dalla Logica dal punto di vista fenomenologico, bensì da quello logico. Cioè, il pensiero che pensi secondo questo secondo punto di vista, distingue dalla logica, la quale espone il processo dell’idea in sé, una fenomenologia fatta per esporre il processo della coscienza che si eleva a questo punto di vista assolutamente obbiettivo e subbiettivo insieme, proprio del pensiero logico. Di modo che la filosofia riesce bifronte: va dalla coscienza al principio, o torna dal principio alla coscienza: e perciò ora guarda al principio, e ora alla coscienza. E riproduce così, in nuova forma, il doppio processo vagheggiato da Aristotele: κaθ αύτ e πρός έμάς. Sarebbe l’in sé e il per sé: κaθ αύτ sarebbe la cosa in quanto tale; πρός έμάς sarebbe il per noi. Questa distinzione, certo, c’è in Aristotele, però il porla in Hegel mi sembra un po’ tirata, perché in effetti lo si può leggere in tutt’altro modo, e cioè cogliendo il fatto che Hegel si rende perfettamente conto che l’in sé non c’è senza il per sé, e il per sé non c’è senza l’in sé; quindi, non li separa; mentre, qui in Gentile, sembra quasi attribuire a Hegel questa idea di volerli separare e tenerli in qualche modo separati, cosa che Hegel non dice assolutamente e né fa. In realtà, quando si va a vedere, quella logica, che in Hegel dovrebbe fare a ritroso il cammino della Fenomenologia, ha come conclusione il concetto come unità dell’essere e dell’essenza, cioè l’idea che si possiede, ed è perciò autocoscienza; e quando infatti si sviluppa nella esteriorità della natura si manifesta da ultimo nello spirito quella stessa autocoscienza assoluta, come risoluzione perfetta d’ogni opposizione di soggetto e oggetto, che è la conclusione della Fenomenologia. La logica perciò rifà senza saperlo la stessa strada della Fenomenologia, e nello stesso senso. Dice senza saperlo: non credo che Hegel fosse così sprovveduto. È vero che la Fenomenologia muove dalla coscienza sensibile e la Logica dall’essere. Ma che è in linguaggio fenomenologico la coscienza sensibile se non quell’assoluto astratto che è l’essere per la logica? La Scienza della logica pone la questione dell’essere e dell’essenza, ma come due momenti dello stesso. Non c’è essere senza essenza, e l’essenza dell’essere è il non essere non essere, ma sono momenti dello stesso, non può darsi l’uno senza l’altro in nessun modo. Abbattuta ogni barriera tra logo astratto e concreto, non potendosi concepire concetto che non sia momento dell’autoconcetto, non essendo la filosofia se non il pensamento concreto nella sua pienezza di autoconcetto, il principio non può non coincidere con lo stesso cominciamento d’ogni filosofare; ed è vano discutere ante limina della scelta del principio come cominciamento. Sì, ma è quello che ha fatto Hegel, né più né meno. Quindi, più che un’obiezione a Hegel ha fatto un riassunto della sua teoria di Hegel. Paragrafo 8. Il metodo della filosofia. Il metodo non è altro che il filosofare stesso. E, infatti, dice il principio della vecchia logica filosofica è il principio di una filosofia concepita secondo il mito dell’apodissi, che suppone un processo obbiettivo di pensiero attraverso una serie di concetti; in quanto questo processo può essere sì deduttivo che induttivo, così a priori come a posteriori. E di un tal principio non si può parlare, perché non c’è questo preteso processo che si svolga attraverso una molteplicità di concetti. E se non c’è questo processo, non si può parlare neppure di metodo, seguendo il quale il pensiero attuale possa dal pensamento del principio giungere al pensamento delle conseguenze. Abbiamo già visto che l’apodissi è un sistema chiuso. Il metodo distinto dal filosofare in atto è il metodo delle filosofie della trascendenza, le quali concepiscono tutte naturalisticamente il pensiero che è l’autore di ogni filosofia, e negano quindi la possibilità di una filosofia che abbia un valore (non essendoci valori in natura). Lo concepiscono naturalisticamente, perché lo concepiscono condizionato, limitato almeno dalla realtà che lo trascende, e nella quale ha sede così il principio come il metodo, a cui il pensiero dovrebbe conformarsi. Ma una filosofia dell’immanenza, ossia che attribuisca un valore a se stessa, non può ammettere altro metodo che non sia lo stesso pensare in atto. Per Gentile questo è l’unico metodo della filosofia: il pensiero come pensiero in atto. Qualunque cosa vada cercando, come immanenza o come trascendenza… che vanno bene, ma se li tengo separati, ecco che allora mi affido all’immanenza e non c’è pensiero (l’essere parmenideo), oppure mi affido alla trascendenza, e cioè a un dio, che deve garantire quello che dico. O la verità – questo lo aveva già detto – è già data, è immediata (Parmenide), oppure devo cercarla attraverso il mito dell’apodissi, della dimostrazione, e questa può andare avanti all’infinito. O, come si chiedeva Wittgenstein: chi dimostrerà la dimostrazione? Paragrafo 9. La filosofia come metodo. … la filosofia in atto non è a priori se non essendo a posteriori, poiché non deduce se non inducendo, e ogni volta deducendo-inducendo in quel determinato modo singolarissimo che non si teorizza in metodi generali, ma si conosce solo in quanto si attua. E qui siamo a Mendelson. Non si può teorizzare questa cosa. Questo è importante perché l’indurre e il dedurre sono inevitabili, sono i modi in cui procede il dire. La logica non si può evitare, si può evitare di formalizzarla, se proprio non la si vuole formalizzare, ma il pensiero logico, quello inteso come consequenziale… Naturalmente, occorre stabilire delle regole perché sia consequenziale. Queste regole vengono acquisite insieme al linguaggio. Che cosa è consequenziale? Come si insegna questa consequenzialità, che deve esserci perché possano esserci inferenze? È semplicissimo. Ciò che comporta il superpotenziamento è vero, ciò che comporta il depotenziamento è falso. Vale a dire, tutto ciò che mi consente di continuare a parlare è vero. Infatti, tempo fa parlavamo della verità come operatore deittico, come uno shifter, diceva Jakobson, qualcosa che indica la direzione da prendere, cioè, il vero è ciò che consente di proseguire. Ma perché lo consente? In base a quale criterio? Sì, certo, in base a delle regole che ho stabilite, ma queste regole le ho stabilite per potere decidere che cosa mi è utile per il superpotenziamento e cosa no. Ciò che mi utile per il superpotenziamento è ciò che mi fa credere come stanno le cose, ma non può dirmi come stanno le cose, non lo può fare perché le cose non stanno. Quindi, è un mito; appunto, come lo chiama Gentile, il mito dell’apodissi. Paragrafo 10. La filosofia come filosofia determinata. Ma il pensiero che pensa filosoficamente il suo oggetto, non lo spoglia perciò delle determinazioni a cui si ferma il pensiero empirico del particolare. Giacché questa particolarità da che nasce se non dallo stesso pensiero come autosintesi, per cui si pone negandosi; e ogni sua posizione è una negazione? E che altro è la determinazione se non negazione? Il pensiero filosofico sarebbe un pensiero generico, indeterminato, senza particolarità, se potesse essere autoconcetto senza essere concetto (e quindi tutti i possibili concetti). Qui in qualche modo non dico che confuti le obiezioni che poneva prima a Hegel, ma pone qualche questione. Sta dicendo che è necessario che ci sia qualcosa di immanente, di particolare, perché ci sia l’universale, e viceversa. Quindi, è chiaro che Hegel pone l’essere come ciò che non è determinabile (l’essere parmenideo); sì, ma lo pone insieme al non essere. Sta qui la questione: attribuisce al non essere il significato, cioè l’essenza dell’essere; perché l’essere esista occorre che abbia un’essenza, e l’essenza è il suo non essere, cioè l’essere che nega la sua negazione. Capitolo Vi, La storia. Ho immaginato di leggervi come prologo alcune paginette tratte dagli Scritti su Nietzsche di G. Colli (Ed. Adelphi). È una breve raccolta di scritti di Colli, sono tutte le prefazioni che Colli per i vari scritti di Nietzsche. Colli, insieme a Montinari, è stato colui che ha pubblicato in italiano tutte le opere di Nietzsche. Qui prende le mosse dal Richard Wagner a Bayreuth, dove incomincia la critica a Wagner. A pag. 64. Per sé, con maggiore serenità, egli segue intanto altri pensieri, cerca di dare forma e consistenza alle sue meditazioni sui Greci. Forse era questa l’ambizione più personale di questo periodo basileese, e qui sta forse il significato riposto del suo atteggiamento inattuale: negli anni precedenti si era proposto una Filosofia nell'epoca tragica dei Greci, ora una considerazione su Noi filologi, tentativi parziali nella ricerca di un’opera più matura e sintetica. Nietzsche era un filologo. Era il risultato che doveva coronare i suoi lavori filologici, i lunghi anni giovanili votati a uno studio senza soste, per dipanare quel filo d’Arianna di cui intuitivamente si sentiva in possesso, e rivelare l’enigma dei Greci. Eppure questo fu uno dei rari insuccessi nl tradurre in opera pubblicata un progetto meditato con serietà, parallelo allo scacco finale, suggellato dalla pazzia, per cui il progetto di un’opera filosofica “ultima” non poté essere realizzato. /…/ Il filologo classico è attaccato brutalmente, con un’accentuazione dei motivi già presentati alcuni anni prima, in Sull’avvenire dei nostri istituti di cultura. Intellettualmente il filologo è incapace di comprendere l’antichità: quest’ultima è accessibile a pochi, comunque a un numero di persone assai inferiore a quella che è la consistenza numerica della classe dei filologi. Ma l’attacco si estende alle qualità morali di tale classe. Dove è presente una maggiore intelligenza, la filologia è una congiura per nascondere la vera natura dell’antichità. Tenete conto che i filologi fanno anche la storia. Se infatti il vero volto dell’antichità fosse rivelato nella sua crudezza, l’uomo moderno si ritrarrebbe con orrore e ribrezzo da quest’immagine: così giudica Nietzsche. In generale, tutto il quadro “umanistico”, con cui la filologia ha caratterizzato negli ultimi secoli l’antichità classica, è una grandiosa falsificazione. Qui Nietzsche scende sul terreno di un’interpretazione diretta e originale, contrapponendo “umano” a “umanistico”. Se con humanitas si vuole alludere a una natura fondamentalmente buona e dignitosa dell’uomo, che esclude da sé ogni rozzezza, smisuratezza, crudeltà, la si cerchi altrove, ma non nella Grecia antica:… Qui in qualche modo c’entra anche il discorso che facevamo qualche volta fa tra queste due figure che mi ero inventate: l’eroe greco e l’anima bella. …quest’ultima al contrario, se messa in chiaro nella sua vera natura, risulta per l’appunto antitetica all’umanesimo. Gli appoggi all’interpretazione “umanistica” vengono ricavati tutti quanti dalle idee dei Romani ellenizzati; ma questo secondo Nietzsche è l’aspetto declinante, indebolito dell’antichità, a lui interessa la Grecia non Roma, e inoltre la Grecia preellenistica. Qui l’essenza non è “umanistica”, bensì “umana”. L’elemento umano dei Greci consiste in una certa ingenuità, con cui presso di loro si rivelano l’uomo, lo Stato, l’arte, il vincolo sociale, il diritto di guerra e il diritto internazionale, le relazioni sessuali, l’educazione, i partiti: si tratta precisamente dell’elemento umano, che si mostra ovunque e presso tutti i popoli, ma che presso di loro si rivela senza maschera e con assenza di umanesimo. “La perfetta trasparenza dell’anima nell’agire è già una prova, che essi erano senza vergogna, che non avevano una cattiva coscienza… una specie di ingenuità fanciullesca li accompagna. In tal modo, nonostante le loro malvagità, essi mostrano un tratto di purezza…”. Ma in questo modo si dovrà riconoscere “come i più grandi prodotti dello spirito abbiano uno sfondo terribile e cattivo”. È già in qualche modo adombrato lo Zarathustra. E qui è possibile avvertire un’evoluzione nel concetto di dionisiaco, che dalla negatività schopenaueriana in cui è inteso nella Nascita della tragedia si avvia già a quella interpretazione affermativa, che sarà caratteristica del pensiero posteriore di Nietzsche. A chiarire quell’aspetto “umano” della Grecia più antica può forse aver contribuito un accresciuto interesse per Tucidide, come documentano i frammenti postumi. Una Grecia siffatta è indubbiamente inattuale, e così si può comprendere meglio perché Nietzsche parli di una congiura della filologia: è difatti difficile pensare che l’uomo moderno si induca volentieri a fare istruire i suoi figli sul modello di un’antichità di tale natura. Con queste meditazioni Nietzsche si muove verso l’isolamento. In questo periodo pensare a sé significa, per lui, pensare ai Greci. All’epoca della Nascita della tragedia, se pensava ai Greci, egli pensava “anche” a Wagner. Non più ora, e le sue riflessioni non solo risultano indipendenti, ma più ampie e più mature. … parallelamente la ricerca della Grecia autentica ed essenziale lo porta più indietro nel tempo, lo fa retrocedere dal quinto al sesto secolo. Di notevole interesse sono alcuni frammenti di Noi filologi, secondo cui le guerre persiane sarebbero state la causa della fine della grandezza greca. Il successo fu troppo grande, inebriante, e scatenò gli istinti di unificare la Grecia sul puro terreno politico. Il dominio di Atene soffocò grandi forze spirituali; così non poté realizzarsi una grande riforma unificante, di natura più alta, che era stata preparata dai filosofi presocratici. In tal modo ciò che nel profondo è valido dell’antichità classica si allontana nel tempo, si restringe in un quadro remoto, dove i documenti sono esigui ed enigmatici. Eppure nulla è da tenere in maggior conto di un’educazione su questo modello. È qui il momento nella storia dell’uomo in cui fu creato il più grande numero di vere individualità. Ma Nietzsche soggiunge che è assurdo il tentativo di impartire ai giovani un simile insegnamento: solo uomini maturi possono accoglierlo. Per contro, tutto il resto dell’antichità dev’essere condannato. Per Nietzsche a questo punto soltanto dai presocratici in qua; tutto ciò che viene dopo ai presocratici non ha alcun interesse. E la ragione di questo rifiuto va forse cercata nel chiarirsi di un altro motivo antiwagneriano, ossia la condanna del cristianesimo, che già in questo periodo assume toni radicali. “Il più mostruoso delitto dell’umanità, ossia l’aver reso possibile il cristianesimo, quale in realtà fu possibile, è colpa dell’antichità. Assieme al cristianesimo, sarà tolta di mezzo anche l’antichità”. Platone, la metafisica, quindi, la religione. Ma che cos’è l’antichità per noi? Qui si rivolge agli storici, ai filologi. Qui si muove l’attacco mortale a filologo (ma non soltanto a lui). La posizione del filologo di fronte all’antichità è di colui che vuole scusare, oppure di chi è ispirato dall’intenzione di rintracciare nell’antichità ciò che è tenuto in gran conto dalla nostra epoca. Il punto di partenza giusto è quello inverso, consiste cioè nel prendere le mosse dalla comprensione della follia moderna, e nel guardare all’indietro: in tal caso, molte cose urtanti dell’antichità si presentano sotto la luce di una profonda necessità. Ci si deve rendere chiaramente conto, che noi ci comportiamo in modo del tutto assurdo, quando difendiamo e discolpiamo l’antichità: che cosa mai siamo noi!”. “È solo dalla conoscenza del presente che si può ricevere l’impulso verso l’antichità classica. Solo dalla conoscenza del presente: è esattamente ciò che dirà tra poco Gentile. Senza questa conoscenza, donde mai potrebbe giungere l’impulso?”. Qui c’è Gentile. Questo impulso a conoscere da dove viene se non dal mio pensiero pensante? I filologi invece, dice Nietzsche, non conoscono il presente. I filologi sono sempre nel pensiero pensato, hanno solo quello. Quindi sono tagliati fuori dal problema dell’antichità. E chi crede di conoscere il presente, aggiungiamo noi, non avverte l’impulso di cui sopra. Forse perché non comprende “la follia moderna”? Dunque, lo storico. Lui parla del filologo, ma è la stessa cosa. Come approcciare, allora, la questione della storia? Nietzsche ci ha dato una traccia, una direzione: si parte dal pensiero pensante, cioè da me che sto pensando la storia. Riprendiamo Gentile. Paragrafo 1. Storia e storiografia. Nel presente, che è in noi, e che infatti, astratto da noi, può tosto convertirsi così in un passato (pei posteri) come in un futuro (per i trapassati), in questo presente che è non solo ora, ma sempre in noi, ed è esso stesso noi, si attua ed esiste realmente tutto ciò che esiste, e a cui convien pensare quando si ha interesse di pensare, come avviene nella prassi, non ai sogni e alle chimere, bensì all’esistente e alle sue leggi. Cioè, al mio pensiero pensante. Giacché se il fare è inattuale rispetto al narrare,… Sta dicendo che il fare non è fuori dal linguaggio. …il narrare bensì lo contiene, ma in quanto lo costruisce; e costruendo il fare costruisce se stesso; o altrimenti, lo costruisce in quanto costruisce se stesso. La coscienza dello storico si determina nella sua opera, nel processo generativo di questa; e attraverso di questa nasce così la storia come realtà inattuale che è l’oggetto della storiografia, come la storiografia che è realtà attuale unica. Distinzione fra storia e storiografia. Non è lontanissima dalla distinzione che faceva Nietzsche tra umano e umanistico. Paragrafo 2. La storia come storia eterna. Il presente, di cui si vuol parlare nel determinare qui il concetto di storia contemporanea, è il presente che abbiamo detto di non confondere con quel presente che media tra passato e futuro; e che è presente ora, ma fu già futuro, e sarà passato: un presente cioè per sua natura scisso e però scindibile dall’atto del soggetto, per cui è presente. Il nostro presente è presente assoluto, che non tramonta e non precipita nel suo opposto: è l’eterno, come esso riluce nell’atto dello spirito che lo cerca, nell’atto del pensiero che pensa, e pensa il vero, e nel vero la verità storica degli avvenimenti che proietta nel tempo dietro al momento attuale. Eventi passati che, però, sta pensando in questo momento. Qui un riferimento a Severino sarebbe dovuto. L‘eterno in Severino è questo, non è un perenne presente. No, l’eterno è ciò che ci mostra in atto che non ci sono né il passato né il futuro; quindi, ogni atto è fuori dal passato e fuori dal futuro, è eterno, è in atto. La storia, dunque, solo per intenderci press’a poco, possiamo dirla contemporanea. Non è la storia del tempo a cui appartiene lo storico: non è la storia d’un tempo, se non pel suo contenuto astrattamente inteso con un concetto che prende per attuale l’inattuale, lasciandosi sfuggire l’atto in cui tutto ciò che è inattuale ha la sua radice. Essa è propriamente la storia del puntuale atto pensante, per cui lo storico crea a un tratto la sua storiografia e la storia rispettiva: per cui Mommsen scrive la Storia di Roma, ma proietta insieme sullo schermo della realtà in cui il suo pensiero si affisa, una determinata realtà storica, una Roma, una repubblica di Roma, che non è quella di Livio, né di alcun altro mai che abbia cercato di conoscerla. La storia contemporanea è la storia di quel presente, che non si distende né nell’ultimo secolo, né nell’ultimo cinquantennio, né nell’ultimo quarto di secolo, né nell’ultimo lustro, e neanche nell’ultimo anno, o mese o giorno o ora: ma si ritrae e raduna e unifica, consolidandosi nell’unità attuale del presente eterno, fuori del tempo, là dove si attua il pensiero. Eterno nell’accezione che indicava prima, dove non esiste né il passato né il futuro, ma soltanto l’atto. Paragrafo 3. La soggettività della storia. Non ignoro che quest’assoluto soggettivismo storico, per cui l’historia rerum diventa un’historia sui ipsius, e la storia del mondo delle nazioni si svela davvero, come Vico la disse, storia eterna, perché coincide con la stessa Scienza Nuova che è la storia (come storia e come storiografia) dello stesso autore, va incontro all’accusa di scetticismo. Ma questa è l’accusa contro la quale deve di necessità urtare la presente teoria della conoscenza come logica dell’autoconcetto; e non può cadere se non si raggiunga il punto di vista di questa logica. La quale è indirizzata appunto a una critica perentoria e definitiva dello scetticismo, insuperabile finché la logica chieda al pensiero una verità che non sia lo stesso suo atto, ma il presupposto del suo atto, definito con un astratto concetto. In fondo, la logica chiede una verità che è fuori del suo atto, fuori del pensiero. E se altri si turba e adombra pel soggettivismo storico, essa insiste nella sua posizione, e fa osservare che lo scetticismo storico è inevitabile quando la storia si presuppone alla storiografia, quasi materia alla quale il pensiero debba adeguarsi, poiché non sarà mai possibile che il pensiero esca da sé, avendo egli piuttosto natura di rinserrarsi sempre più in sé e di scendere con le sue costruzioni sempre più al profondo di se medesimo. … La soggettività della storia eterna è dunque la massima oggettività che possa competere alla verità storica, poiché è l’oggettività della verità stessa: dell’unica verità che si possa affermare con la maggiore possibile sicurezza. E cioè: che qualunque cosa io faccia, sto parlando. Se costruisco un’argomentazione storica non potrò in nessun modo essere Tito Livio, essere lì presente; sono sempre io, qui e adesso, che sto parlando, che sto pensando. Questa è la verità: tenere conto che sono nell’atto di parola, sempre e comunque, e dal quale non posso uscire.