INDIETRO

 

Parmenide di M. Heidegger

 

 

24-2-2016

 

Queste cose che andiamo leggendo sono interessanti, sempre per ciò che a noi interessa naturalmente, non interessa sapere che cosa Heidegger abbia “veramente” voluto dire, ma ci interessano nuove direzioni, nuove aperture che eventualmente il suo discorso può offrire. In questi libri, Parmenide e Eraclito la questione della verità è di straordinario interesse, avete visto come dall’ἀλήθεια si sia giunti alla veritas come certitudo in seguito all’esigenza da parte dell’impero romano di avere qualche cosa di solido su cui fondarsi, qualcosa che consenta di potere dire “io ho ragione, tu no” e l’ἀλήθεια non consentiva questo, cosa che è fondamentale. Heidegger immaginava che gli antichi, i presocratici in particolare e scrittori come Tucidide, come Omero eccetera, utilizzassero, e infatti li cita per questo, l’ἀλήθεια in un certo modo cioè non ancora come veritas ma come disvelamento di qualche cosa, e allora andò dai suoi amici filologi greci per chiedere se Omero, per esempio, quando parlava di ἀλήθεια la usasse in un modo che è precedente a quello della verità come adeguamento. Ciò che gli venne riferito è che no, anche Omero, già lui, già gli altri tragici greci usano il termine ἀλήθεια come adeguamento, il che comporta, se tutto ciò è vero, ma questo è irrilevante, l’eventualità che l’ἀλήθεια, intesa così come la intende Heidegger, non sia mai esistita. C’è questa possibilità, ma anche se non è stata usata, prima di Omero e degli altri, non è che ne abbiamo chissà quali notizie, non si sa praticamente nulla, ma anche se costoro non hanno usato ἀλήθεια nel modo in cui Heidegger avrebbe voluto che fosse stata usata, nonostante questo comunque ci mostra la possibilità di intendere la questione della verità in un altro modo, il che ci dice in modo molto esplicito che non c’è un solo modo di intendere la verità, cioè quello dogmatico, quello che serve all’Impero, a imperare, alla volontà di potenza. Se riprendiamo quella connessione che facemmo qualche incontro fa sull’ente e l’essere come significante e significato, allora ci viene da pensare che la verità come adeguamento, ovviamente la verità come adeguamento è della parola alla cosa, nel senso che a questo punto il segno è bloccato, dice una sola cosa, dice che le cose stanno così “questo è questo”, ponendo invece la questione dell’ἀλήθεια allora l’essere, il significato del significante, si pone in un altro modo, si pone appunto come un’apertura, un’apertura dove le cose vengono incontro ma in quanto non significate in modo definitorio, oltre che definitivo, ma come cose che domandano, e quindi come domande. Le parole vengono incontro come domande e non come significati, questo è il modo che mi è parso di cogliere più interessante per la questione dell’ἀλήθεια, indipendentemente dal fatto che sia mai esistita oppure no nei modi in cui ne parla Heidegger. Anche se ovviamente Heidegger parla di essere, di ente, tuttavia questo essere dell’ente cioè ciò che dà alla parola il suo significato, dà all’ente la sua enticità, è qualche cosa che apre dando l’enticità all’ente, perché per Heidegger la dà certo, ma la dà in quanto domanda aprente. A questo punto la produzione di senso potrebbe anche essere colta non come è stata posta per lo più dalla semiotica, ma come apertura, sì certo alla domanda, ma un’apertura al senso che è sempre in fieri, si sta sempre facendo, non è mai stabilito, non è mai posto. Questo “potrebbe”, ma questo lo vedremo più in là, potrebbe consentire una rilettura della semiotica, in particolare di Greimas, di qualche interesse, perché ciò che sta dicendo Heidegger, anche se glielo sto facendo dire io, a questo punto l’essere, e lo vedremo fra poco, come l’irruzione, qualcosa che irrompe nell’ente aprendolo, squarciandolo. A questo punto torniamo a ciò che dicevo un attimo fa: il significante viene aperto dall’irruzione del significato che lo spalanca in quanto domanda. La verità posta come ἀλήθεια nel modo in cui ne parla Heidegger pone delle difficoltà alla volontà di potenza, perché se qualche cosa non è più un significato quindi non è più stabile ma è un’apertura a una domanda, è chiaro che non posso utilizzarla per stabilire come stanno le cose, perché se ciò che voglio stabilire a partire da come stanno le cose è qualcosa che mi domanda, come faccio a prenderlo per vero? Questo non toglie nulla al discorso che fa Severino rispetto al principio primo, non è che viene tolto, solo che viene ricondotto probabilmente a ciò che è, e cioè un modo del linguaggio per potere proseguire la sua corsa; quando diciamo che una certa cosa è quella che è, principio primo, tertium non datur, cioè è così o non lo è, quando diciamo che è così allora che cosa stiamo dicendo? Dicendo che è così diciamo un significato, per quanto dicevo prima questo significato non è altro che un’apertura verso altre domande e allora questa apertura verso altre domande non viene tolta né viene tolta la necessità che un elemento sia quello che è, e allora torniamo a ciò che dicevamo prima, e cioè che un elemento per potere essere giocato occorre che sia quello che è ma anche che non sia quello che è. In tutto ciò dicevo tempo fa non c’è nulla di strano: per usare una parola devo sapere che questa parola significa qualcosa, cioè è connessa con altre cose, altre parole per poterla usare, per poterci giocare, nel momento in cui la gioco, la metto in gioco, la metto in gioco in un certo modo, vincolata a un significato. Se sto giocando a poker il re di fiori è il re di fiori e non è una donna di picche, cioè per potere giocare quella carta, per potere giocare quel significante devo connetterlo con un significato. A questo punto o so che connetterlo con quel significato è unicamente ciò che mi consente di giocare quella carta e basta, oppure non lo so. Se lo so allora lascio che giocando questa carta, pur avendola giocata come “re di fiori” continui a essere una domanda, devo usarlo come re di fiori per poterlo usare, giocare, ma so che c’è una domanda che continua, che insiste, oppure non lo so e allora la questione è chiusa lì “questa cosa significa questo” oppure posso dire questa cosa non significa niente perché non c’è significato, senza tenere conto che questa affermazione è già un significato, cioè ingannandomi da me, che non è una bella cosa. Detto questo proseguiamo la lettura: pag. 135 A dire il vero in seguito al lungo e consolidato predominio della falsità quale unico opposto conosciuto e riconosciuto della verità (abbiamo visto che per la veritas romana l’opposto di verum è falsum che indica il cadere, l’eliminare qualche cosa, che non c’è invece come lui ci ha mostrato, che sia così oppure no, torno a dire è irrilevante, nell’ἀλήθεια, il contrario di ψεδος non comporta la cancellazione di qualche cosa ma comporta comunque un venire fuori di qualche cosa, anche nello ψεδος cioè il contrario dell’ἀλήθεια non è il cancellamento di qualche cosa ma mantiene ciò che dovrebbe essere il suo contrario) il fatto che se v’è qualcosa che può opporsi alla verità ciò non può essere se non la falsità questo è del tutto “naturale” ed è anzi una verità spicciola, per tale motivo anche nel caso della grecità siamo propensi a cercare l’opposizione essenziale all’ἀλήθεια unicamente nello ψεδος a tale propensione vengono incontro in un certo modo addirittura gli stessi greci dal momento che anticamente pongono sullo stesso piano ἀ-ληθές e a-yeudšs, il vero e la falsità sicché ne risulta che ciò a cui la a di ἀλήθεια (cioè l’alfa privativa) sottrae qualcosa è per appunto lo ψεδος (come dire che ἀλήθεια senza la alfa privativa, il disvelamento senza il dis è il velamento, il velamento è lo ψεδος) ci rendiamo conto così che il velamento non cancella ciò che vela perché ciò che è velato rimane velato ma c’è, non è come il falsum il cadere, il togliere di mezzo, l’eliminare ci rendiamo conto così che quand’anche avessimo preso sul serio l’ἀλήθεια nel senso della svelatezza e dello svelamento e avessimo rigettato qualsiasi fraintendimento dell’ἀλήθεια da parte della veritas non avremmo ancora la garanzia di esperire l’essenziale iniziale dell’ἀλήθεια /…/ a pag. 149 Oltre al velamento nella modalità dell’occultare, del contraffare vi è un velare dominante che si manifesta nell’essenza della morte, della notte e di tutto ciò che è notturno (vi ricordate che per il greco antico tutte queste cose sono miti non sono fatti, dati di fatto, sono miti cioè racconti, μύθος è il racconto, detto in greco, detto in tedesco è saga Sagen racconto appunto, μύθος e Sagen sono esattamente la stessa cosa, uno detto in greco l’altro detto in tedesco, quindi fare una distinzione teorica fra mito e saga è una velleità che non porta da nessuna parte) un simile velare domina l’ente nella sua globalità, ultimità e primarietà e implica il modo che tutto predispone nel possibile svelamento e della svelatezza dell’ente in quanto tale (dunque questo velamento, questo velare dello ψεδος è qualche cosa che predispone allo svelamento cioè all’ἀλήθεια mentre il falsum non predispone per nulla alla veritas) ma quali che siano il luogo e la modalità per cui per la grecità l’ente si lascia schiudere nella svelatezza è là che l’essere perviene alla parola in senso eminente (per Heidegger il logos poi lo vedremo meglio nel suo scritto su Eraclito, la parola è uno dei modi dell’essere) di conseguenza in conformità al dominio iniziale ed essenzialmente onnipresente del velamento svelamento la parola possiede un essenza tanto originaria quanto quella del velamento svelamento, la parola ha la sua essenza peculiare nel far apparire l’ente nel suo essere e nel custodire come tale ciò che così appare cioè lo svelato, l’essere si dà inizialmente nella parola (questo non significa che per Heidegger l’essere sia la parola, sta dicendo che si dà inizialmente nella parola, poi si può considerare che senza la parola ci sarebbe l’essere, e qui la questione si complica, già Heidegger avrebbe dei dubbi)

Intervento: mi sembra di capire che l’essere senza la parola non può darsi, la parola dovrebbe essere prima …

No, la parola è uno dei modi in cui si dà l’essere, non è l’unico c’è anche la φύσις, l’avevamo visto, c’è anche l’ἀλήθεια, sono modi in cui l’essere ci appare. L’essere interviene a questo punto però parlare di modi in cui interviene l’essere potrebbe, se teniamo conto di ciò che dicevo prima, potrebbe essere inteso come modi in cui irrompe qualche cosa un significato sì nella parola certo, però anche nella natura, nella φύσις, anche nell’ἀλήθεια, sono tutti modi in cui si manifesta questa irruzione di qualche cosa nell’ente, per dirla in modo semiotico, del significato nel significante) se in base a questo rapporto iniziale, rapporto iniziale fra essere e parola tentiamo di esperire la storia essenziale nascosta dell’Occidente possiamo denominare i semplici eventi di questa storia con tre titoli per quanto il loro utilizzo qualora si arresti ai meri titoli ovviamente è sempre pericoloso. Il primo inizio della storia essenziale dell’Occidente reca il titolo “essere e parola”, la “e” quindi nomina quel riferimento essenziale che è l’essere stesso a far sorgere e non per esempio gli uomini capaci solamente di rifletterci sopra allo scopo di portarvi alla verità la propria essenza, in Platone e in Aristotele che dicono l’esordio della metafisica la parola diventa il logos nel senso dell’asserzione, nel corso dello sviluppo della metafisica l’asserzione si muta in ratio ragione e spirito (un po’ come è accaduto con la veritas come certitudo, è la stessa cosa) è per questo che proprio nell’evo della metafisica e solamente in esso appare l’irrazionale (concetto assente presso gli antichi greci, non sapevano che cosa fosse l’irrazionale perché non c’era la ratio) cui segue l’“esperienza vissuta” (tra virgolette, indica qualche cosa, un concetto di esperienza vissuta che esiste da quando esiste la metafisica. Esistono alcuni concetti, dicevamo forse l’altra volta, come soggetto e oggetto che sono invenzioni relativamente recenti, tre secoli più o meno, da Cartesio grosso modo, quindi prima questi concetti non c’erano, non avevano la portata che hanno avuto dopo, sono delle invenzioni “soggetto e oggetto”. È in base a queste invenzioni che è stato possibile costruire la scienza attuale, occorreva che il soggetto si distaccasse dall’oggetto, cosa che vi dicevo per i greci non c’è, non esiste l’objectum né il Gegenstand cioè ciò che sta lì davanti a me, non c’era, l’oggetto è il pragma, che è tutt’altra cosa, è qualcosa che non è mai contro. Infatti in quel periodo grosso modo nasce la scienza con Galileo, occorreva l’idea dell’oggetto contrapposto al soggetto, cioè un soggetto che vede l’oggetto, lo indaga, lo manipola, lo elabora eccetera ma per fare questo occorre che l’oggetto ci sia e sia contrapposto a un soggetto) Se pensiamo al titolo “Essere e tempo” in tal caso “tempo” non significa né tempo calcolato dall’orologio né il tempo del vissuto nel senso di Bergson e altri, conformemente alla sua manifesta appartenenza all’essere tempo è qui il nome proprio dell’essenza più originaria dell’ἀλήθεια (del disvelarsi, il tempo è il disvelarsi) e nomina il fondamento essenziale della ratio e di ogni dire e pensare (cioè a fondamento di tutto questo nella parola più originaria, più antica l’ἀλήθεια indica ciò che è il tempo) per quanto strano possa suonare il titolo “Essere e tempo” il tempo è il nome proprio del fondamento iniziale della parola, essere e parola l’inizio della storia essenziale dell’Occidente è esperito in termini più iniziali, la trattazione intitolata Essere e tempo si limita ad accennare all’evento secondo cui è l’essere stesso che destina all’umanità occidentale un’esperienza più iniziale (questa è abbastanza tirata per i capelli perché si può intendere in qualunque modo il tempo. Per Heidegger qui il tempo non è il passare da una modalità a altra perché comporterebbe la calcolabilità del tempo, il prima e il dopo, che lui invece rigetta, per lui il tempo è questo velante svelarsi) /…/ Con ciò non dico nulla di nuovo così come generalmente nessun pensatore deve essere schiavo del gusto di dire qualcosa di nuovo, scoprire qualcosa di nuovo e inventare e a fare della ricerca e della tecnica (dice che non è necessario che un pensatore dica cose nuove anzi, per lui è il contrario, il pensatore deve continuare a pensare l’essenziale, cioè l’iniziale, ciò da cui il pensiero è iniziato) Il pensiero essenziale deve dire invece in termini iniziali sempre soltanto lo stesso, l’antico, il più antico, l’iniziale come lo dice il poeta tedesco nei suoi versi (Hölderlin versi tratti dalle Liriche): “Cuore sacro dei popoli mia patria, paziente sei come la muta terra misconosciuta se anche lo straniero coglie il meglio di sé dal tuo profondo, miete dal tuo pensiero e dal tuo spirito, vendemmia la tua uva, ma deride la tua vigna confusa, brancola sul terreno selvaggia ed errabonda” /…/ Ma nel modo greco la parola intesa quale μύθοςπος ῥῆμα e λόγος è ciò in cui l’essere si assegna all’uomo in modo che egli lo custodisca nella sua propria essenza come ciò che gli è stato assegnato e in base a tale custodia possa anzitutto trovare e mantenere a sua volta la propria essenza in quanto uomo (ci sta dicendo che queste parole iniziali disvelandosi all’uomo indicano un qualche cosa che assegna all’uomo il compito di custodire queste cose, custodirle come? Se teniamo conto della lezione di Heidegger il custodirle è il mantenerle nella loro inizialità, cioè continuare a interrogare lo stesso, continuare a interrogare ciò che è iniziale per il pensiero, quindi queste parole che sono state iniziali per il pensiero, quindi ciò che accade nel disvelarsi di qualche cosa non è il possederlo come fa la scienza, farlo a pezzi e vedere cosa c’è dentro, volerlo conoscere, volerlo quindi dominare e controllare ma è il custodire la domanda iniziale. Il compito dell’uomo, per allargare ancora la posizione di Heidegger, ma non sarebbe in disaccordo con questo, il compito dell’uomo è custodire la domanda iniziale delle parole iniziali che hanno avviato il pensiero dell’uomo e lì, tornando lì, o meglio rimanendo lì perché è sempre lo stesso ciò che interroga l’uomo, è sempre lo stesso da quando esiste. Rimanendo lì, allora si adempie il “compito” tra virgolette, un compito che nessuno ha assegnato, ma diciamo che è più degno, è ciò che è più degno di essere pensato, ciò che costituisce l’inizio, potremmo dire, della condizione stessa del pensiero. Lasciarlo dire anziché zittirlo, anzi che farlo a pezzi per vedere cosa c’è dentro, per poterlo come scrive altrove attraverso la conoscenza, manipolazione, elaborazione dell’ente che è questo ciò che fa la scienza) pertanto il destino di avere la parola λγονχειν (perché diceva un attimo prima “in base a tale custodia possa anzi tutto trovare e mantenere a sua volta la propria essenza in quanto uomo” cioè per Heidegger è questa l’essenza dell’uomo, continuare a domandare circa la parola iniziale) costituisce il contrassegno essenziale di quell’umanità passata alla storia come grecità (il destino di avere la parola non nel senso di possederla, ma di trovarsi con la parola a potere dire e quindi lasciarsi interrogare) ora proprio perché la saga in quanto parola svelante (saga è dire raccontare eccetera) reca in sé il riferimento iniziale dell’essere all’uomo e quindi in primo luogo il riferimento dell’uomo all’ente, ne consegue che sia essa sia il detto che dice “sono più essenti di ogni altro ente che l’uomo possa altrimenti produrre e addurre” (la parola essendo ciò che definisce l’uomo è quanto di più determinante per lui per il suo destino, perché è appunto la parola che consente di interrogare le cose) secondo quanto afferma Pindaro nelle Nemee il rema è superiore a tutti gli ργματα ovviamente non è che una qualsiasi parola sia superiore a qualsiasi altra opera ma è soltanto quel detto dicente che gode del favore della χάρις (grazia), così che nella parola appare la generosa benevolenza dell’essere che si dischiuderà … /…/ pag. 155 (si sta occupando delle parole iniziali, una di queste è “πργμα”, l’azione) La parola come ambito essenziale della mano umana, scrittura manuale, scrittura macchina. /…/ Pρττω, πράττω significa penetrare, attraversare, percorrere una via attraverso un che di non occultato e su questa via giungere a qualcosa in modo tale da addurre come presente ciò a cui l’attraversare ha condotto (questa è la traduzione di πράττω, è una traduzione che propone Heidegger per indicare questo nodo dal quale viene πργμα, quindi vedete in tutto ciò che ha detto non c’è nulla che richiami l’oggetto, nulla che richiami il Gegenstand cioè ciò che sta lì, gegen-stand ciò che sta contro, sta di fronte, ma sta, “stand”. Il greco antico non conosceva l’oggetto come lo conosciamo noi, come non conosceva il soggetto) Al medesimo campo semantico appartengono le parole ργο, ργον (la forza, l’energia) in origine e ancora in Pindaro pragma significa sia l’addurre come tale sia ciò che viene addotto (quindi tanto l’addurre quanto ciò che viene addotto) più precisamente pragma significa l’unità originaria di entrambi nel loro riferimento vale a dire l’unità ancora indivisa e nella sua essenza indivisibile dell’apportare giungente e di ciò che nel giungere viene ottenuto ed è così manifestamente presente (cioè il qualcosa che si aggiunge ma simultaneamente è anche questo aggiungere stesso, presi in una unità indivisibile, questo vi mostra ancora come per il greco antico non vi sia l’oggetto, la cosa che si manipola, questo è un concetto nostro, attuale) πργμα qui non è ancora differenziato diviso e separato in quanto cosa e fatto dalla πρξις intesa come supposta attività (πρξις sarebbe la prassi, l’agire, il fare, ricordate Marx che diceva che la prassi domina la teoria, l’idea, prima c’è l’agire, e le idee seguono alla prassi) Il termine pragma non è ancora ridotto al concetto del fatto di cui si tratta (il concetto del fatto di cui si tratta è un concetto nostro, non esisteva per i greci) non di meno traducendo abbiamo reso il termine πργμα proprio come Handlung in tedesco è azione, sebbene in effetti la parola azione non sia la traduzione letterale di pragma (infatti avevamo detto che pragma è la cosa) essa se rettamente intesa coglie l’essenza originaria ed essenziale del termine (adesso ci dice perché) anche le cose agiscono nella misura in cui in quanto presenti sotto mano e a portata di mano vengono alla presenza nell’ambito della mano, la mano si protende e ottiene πρττει, il giungere presso qualcosa ottenendo vale a dire πργμα rimane essenzialmente riferito alla mano (cioè originariamente era questo il senso della mano che si protende e arriva a qualche cosa quindi è un qualche cosa che si offre alla presa della mano) le parole agiscono nella misura in cui in quanto presenti sotto mano (questo essere presenti secondo Heidegger quindi per i greci antichi è un agire, questo mostrarsi delle cose essere presenti, disvelarsi non è un dato di fatto ma un agire, è un mito, è un racconto) l’uomo stesso agisce con la mano e la mano è con la parola il contrassegno essenziale dell’uomo, (solo l’uomo ha il pollice che si oppone quindi può afferrare le cose la scolopendra non lo può fare) soltanto l’ente che come l’uomo ha la parola μύθος, λόγος può e deve “avere” anche la mano, per mezzo della mano vengono al tempo stesso la preghiera, l’assassinio, il saluto, il ringraziamento /…/ Anche l’opera della mano, il manufatto, utensile (la tecnica) la stretta di mano fonda il patto vincolante, la mano causa l’opera della devastazione solo là dove c’è svelamento e velamento la mano è essenzialmente presente in quanto mano nessun animale ha una mano e mai da una zampa, da uno zoccolo, un artiglio può nascere una mano, anche la mano disperata non è mai anzi essa meno che mai un appiglio a cui l’uomo si aggrappa a qualcosa, unicamente dalla parola e con la parola è nata la mano (unicamente dalla parola e con la parola è nata la mano, cioè occorreva la parola, occorreva il racconto, occorreva il disvelarsi di qualche cosa e questo avviene solo con il logos perché la mano fosse la mano cioè potesse essere utilizzata per fare tutte quelle cose che ha elencate e molte altre) Non è l’uomo che ha le mani è invece la mano che custodisce in sé l’essenza dell’uomo (questo è molto greco, poiché la parola in quanto ambito essenziale della mano è il fondamento essenziale dell’uomo, la parola in quanto traccia e quindi mostrantesi allo sguardo è la parola scritta, la scrittura, ma la parola in quanto scrittura è “Handschrift” scrittura manuale, grafia pag. 160) Esperito in modo greco il dimenticare (vi ricordate che ne avevamo parlato prima rispetto al velare, all’occultare) non è né uno stato soggettivo (perché non c’è soggetto per i greci quindi non può essere uno stato soggettivo) né si riferisce solamente a ciò che è passato e al ricordo di esso e nemmeno concerne in generale solo il pensare nel senso del rappresentare, il velamento colloca nel velato l’intera essenza dell’uomo e in tal modo lo strappa via dallo svelato (cioè fa l’operazione contraria all’ἀλήθεια, il velamento, dice, non è che copre qualche cosa ma strappa via la svelatezza che è un’altra cosa, è un agire) l’uomo è via dallo svelato (viene tolto dallo svelato, dall’ἀλήθεια cioè lo ψεδος non è il contrario dell’ἀλήθεια ma è ciò che toglie all’ἀλήθεια, la svelatezza, la sua proprietà, ma non toglie la cosa, la mette in un'altra condizione, in un'altra posizione, una posizione la vela e l’altra lo svela, sono posizioni diverse in cui comunque permane sempre la cosa) egli trascura e tralascia ciò che gli è assegnato (nel velamento questo perché pone la dimenticanza come velamento e non come cancellazione, la nozione di rimozione per il greco non sarebbe stata pensabile) il velamento coglie di sorpresa e trae via  πραγμτων ρθ¦ν δν (è il modo in cui la cosa viene dimenticata) il dimenticare è un non esserci più e non già solo un non ricordarsi più in termini di rappresentazione mentale siamo tentati di sostenere che i greci concepissero il dimenticare non soltanto in riferimento all’atteggiamento conoscitivo e speculativo (quello nostro) ma anche all’agire pratico tuttavia così dicendo pensiamo già in modo non greco che il velamento riguarda fin da principio l’intero esserci dell’uomo presso l’ente è solo perché le cose stanno così che il dimenticare riguarda simultaneamente e in termini altrettanto originari l’agire sia teoretico sia pratico, in base a questa delucidazione dell’essenza della dimenticanza in quanto velamento (tenete sempre presente questo: la dimenticanza come un velare, un velare e uno strappar via la disvelatezza) e in vista di ciò che seguirà possiamo riassumere la meditazione qui compiuta in una sorta di definizione la λθη l’oblio è quel velamento che fa cadere ciò che è passato, presente e futuro nel via di un’assenza essa stessa assente, “mettendo via” nel contempo l’uomo medesimo nella velatezza riguardante questa sottrazione e precisamente in modo che a sua volta il velamento nel suo complesso non giunga all’apparire, la λθη vela sottraendo mentre nasconde se medesima essa sottrae facendo al tempo stesso cadere via lo svelato e il suo svelamento nel via di un nascosto assentamento (l’oblio, la dimenticanza, la λθη, non fa nient’altro che “mettere via”, che lui mette tra virgolette, non soltanto ciò che viene dimenticato ma l’ente stesso, cioè l’uomo, anche lui si sottrae, scompare nella dimenticanza intesa in questa maniera, non c’è il soggetto che dimentica ma in questa dimenticanza è l’uomo stesso in quanto ente che viene via, che non c’è più perché lui è connesso, adesso la dico in modo un po’ rozzo, è connesso con la sua dimenticanza, non è il soggetto che dimentica una cosa quindi c’è un soggetto che cancella l’oggetto, questo per i greci non c’è, se scompare l’oggetto scompare l’ente, scompare l’uomo, l’uomo stesso agisce, è agito in questo dimenticare. È difficile intendere in modo greco, e cioè sospendere il pensiero sul soggetto/oggetto, è questo, Heidegger lo dice spesso, che ci rende difficile, se non impossibile intendere in modo greco o forse nel modo in cui intende lui il greco, però su questo non ha tutti i torti cioè l’idea del soggetto e dell’oggetto da un’altra parte è ciò che impedisce di pensare la dimenticanza come l’eliminazione di quella cosa mentre il soggetto rimane uguale, per il greco no, questa dimenticanza comporta l’andare via di entrambi, entrambi quindi vengono strappati alla svelatezza, all’apparire.