24 gennaio 2024
Aristotele Topici
La caratteristica peculiare, di cui parla Aristotele, è quella caratteristica che è specifica di una certa cosa e non di altre. Questo, anche se non solo questo, ci porta a riflettere sul fatto che tutto ciò che sta facendo Aristotele è porre l’accento su una questione: la ricerca della verità, la ricerca dell’uno senza i molti, dell’uno che sia quello che è, è questa la verità. I molti, invece, vanno gestiti, se non si riesce a eliminarli bisogna gestirli. Sappiamo quale fu l’idea di Plotino: l’Uno che gestisce i molti, perché i molti procedono dall’Uno, per cui a piramide c’è l’Uno, poi l’Intelletto e l’Anima e tutto il resto che viene letteralmente generato dall’Uno; quindi, l’Uno gestisce il tutto, gestisce i molti. È come se Plotino avesse letto molto attentamente, come stiamo facendo noi, l’Organon aristotelico e si fosse reso conto che la logica non può gestire i molti e avesse avuto questa idea per cui c’è l’Uno e poi giù i molti… ma è l’Uno che li produce. Ovviamente, perché tutto ciò possa funzionare ci vuole una poderosa censura sull’Uno, e cioè che a nessuno venga in mente di mettere in discussione l’Uno. Però, se non si mette in discussione, funziona. La Chiesa, poi, ha ripreso letteralmente tutto ciò: Dio è l’Uno, non è i molti. La Chiesa l’ha diviso in tre, ma ci sono stati dei problemi; comunque, tre sono ancora gestibili. La verità è sempre cercata da Aristotele, ma non riesce a trovarla. In fondo, dice che non c’è, perché quando ci dice che ogni dimostrazione è fondata su una definizione che non ha nessuna dimostrazione, sta dicendo che non c’è nessuna verità epistemica. Io dico che tutte le A sono B: perché? Perché lo dico io! Tutto ciò non ha e non può avere alcuna dimostrazione. La caratteristica peculiare, quella cosa che è propria di quella certa cosa lì, dice Aristotele a pag. 1381, si dà o “per sé” e “senza limitazione di tempo” oppure “rispetto ad altro” e “secondo un certo tempo”. Ad esempio, la caratteristica peculiare, “per sé” dell’essere umano, consiste nel fatto di essere un “animale docile per natura”… Cosa discutibile. …invece la caratteristica peculiare “rispetto ad altro”, nel caso del rapporto dell’anima con il corpo, è il fatto che l’una tende a comandare e l’altro, invece, a obbedire… Aristotele usa retoricamente nei Topici la caratteristica peculiare; va usata, quindi, a seconda che si voglia affermare una tesi oppure confutarla. La caratteristica peculiare, quindi, è uno strumento, un utilizzabile, serve di volta in volta, può essere svariate cose. È un altro modo dell’impossibilità di Aristotele di determinare l’uno senza i molti. La stessa caratteristica peculiare in teoria dovrebbe essere una in quanto, essendo peculiare, dovrebbe appartenere a una cosa e solo a quella; ma non è così. Quando, poi, la caratteristica peculiare è fornita “rispetto ad altro”, l’indagine può seguire due o quattro vie. Infatti, se uno attribuisce alla prima realtà una caratteristica, rifiutando questa stessa caratteristica alla seconda, si presentano due sole formulazioni della ricerca, come ad esempio nel caso in cui la caratteristica peculiare dell’essere umano, rispetto al cavallo, consista nel fatto di essere un bipede. Infatti, è possibile demolire la tesi, sia dimostrando che l’essere umano “non è” un bipede, sia dimostrando che il cavallo “è” un bipede: in entrambi i casi, infatti, verrà demolita la caratteristica peculiare. È una cosa ben difficile dimostrare che il cavallo sia un bipede. A pag. 1383. La caratteristica peculiare “per sé”, inoltre, è quella che viene stabilita in relazione a tutte le altre realtà e che distingue la realtà in questione da ogni altra… Anche questo è interessante, e cioè che la caratteristica peculiare “per sé”, inoltre, è quella che viene stabilita in relazione a tutte le altre realtà. Verrebbe da porre questa domanda ad Aristotele: quindi, è stabilita per sé o in relazione a tutte le altre?
Intervento: È per sé qualora è in relazione a tutte le altre.
Sì, ma questo non lo dice Aristotele. Lo dice implicitamente che è per sé in quanto è in rapporto con tutte le altre, ma manca la questione. Doveva leggere bene Eraclito: ἒν πάντα εἰναι, l’uno è i molti; e, allora, la caratteristica peculiare per sé è quella che è necessariamente in relazione ai molti. Quindi, è per sé ma è anche per altro. E qui torniamo alla questione delle categorie perché è questo che Aristotele dice nelle Categorie: la sostanza è quella che è in relazione a ciò che se ne dice; senza questa relazione non c’è nessuna sostanza. Potremmo anche dire che senza tutte le altre realtà non c’è nemmeno la caratteristica peculiare “per sé”. Ma questo Aristotele non lo dice. Al contrario, la caratteristica peculiare “rispetto ad altro”, è quella che distingue la realtà in questione non da “ogni” altra realtà, ma da una “qualche” realtà specifica, così come la caratteristica peculiare della virtù rispetto alla scienza consiste nel fatto che, mentre la prima sorge in più di una parte dell’anima, la seconda si dà solo nella parte razionale dell’anima… A pag. 1385. In realtà, le caratteristiche peculiari più utili per la discussione… Qui ci fa intendere che tutto ciò che dice nei Topici è qualche cosa che serve a favore o contro qualcuno. …sono quelle relative alla caratteristica peculiare “per sé” e “senza limitazione di tempo”… Questa è quella più utile. …come pure delle caratteristiche peculiare “rispetto ad altro”. Infatti, quando la caratteristica peculiare viene individuata “rispetto ad altro”, può assumere diverse formulazioni, come abbiamo detto anche prima: in questo caso, infatti, si danno necessariamente o due o quattro formulazioni. Rispetto a queste, poi, si daranno parecchie possibilità di discussione. Inoltre, la caratteristica peculiare “per sé” e “senza limitazione di tempo” può essere attaccata da vari punti di vista e può essere osservata rispetto a molti momenti di tempo (da un lato, dunque, la caratteristica peculiare “per sé” può essere esaminata relativamente a molte realtà, dal momento che deve essere attribuita all’oggetto rispetto a ciascuna realtà;… La caratteristica peculiare all’interno del discorso, quindi del pensiero, ha la funzione dell’uno e, quindi, deve eliminare i molti. D’altra parte, possiamo considerare tutta l’opera di Aristotele e, se vogliamo allargare la cosa, tutto il pensiero filosofico, dai presocratici ad adesso, come un modo di pensare l’uno e i molti, tentando sempre di togliere i molti a vantaggio dell’uno, perché i molti non sono a vantaggio di nessuno, in quanto rappresentano l’ᾂπειρον, l’indeterminato, l’impensabile, l’infinito, che, come sappiamo non è pensabile. Il finito, invece, è pensabile; ecco perché ci serviamo del finito, dell’uno. Per fare questo si è dovuto naturalmente cancellare la frase di Eraclito. Facciamo un salto in avanti, anche perché d’ora in poi sono solo infiniti esempi. A pag. 1421. Sta parlando dell’identico e del diverso. …l’“identico” e il “diverso” di dicono molti modi… Abbiamo visto la questione dell’omonimia: se la cosa si dice in molti modi, allora anche la cosa stessa è in molti modi. Ma se è in molti modi, come la domino, come la gestisco? …sarà difficile presentare la caratteristica di un’unica e sola realtà di fronte a chi conduce la discussione in modo sofistico. I sofisti facevano, invece, esattamente questo. Aristotele, pur non citando Eraclito, li aveva ancora nelle orecchie. Cosa facevano i sofisti? Perché erano così intollerabili? Perché ogni volta che qualcuno – Aristotele in questo caso – tentava di imporre l’uno – che si può solo imporre – i sofisti gli presentavano i molti, e l’uno si sgretola immediatamente. Infatti, l’attributo di una realtà caratterizzata da un accidente apparterrà, oltre che all’accidente, anche alla realtà caratterizzata dall’accidente stesso. Per esempio, ciò che appartiene all’“essere umano” apparterrà anche all’“l’essere umano bianco”… Chiaramente, questa è una argomentazione da sofisti: l’essere umano e l’essere umano bianco sono due cose che coappartengono. …d’altra parte, ciò che appartiene all’“essere umano bianco”, apparterrà pure all’“essere umano”. C’è una finezza qui di cui Aristotele non tiene conto, perché sta qui il problema: aggiungendo un elemento all’uno, l’uno si modifica, diventa un’altra cosa. Ecco il terrore dei molti, perché ne basta uno che si aggiunge a una realtà qualunque, per esempio l’uomo, e questa cambia. Ma lo dirà in modo più preciso a breve. Ad esempio, si potrebbe dire che l’“essere umano” è una cosa e che l’“essere umano bianco” è un’altra, come pure si potrebbe considerare lo “stato abituale” come qualcosa di diverso da ciò che ricava il suo nome dallo stato abituale stesso. Lui cerca di porre riparo a questa questione, però, si trova a dire poco più avanti: Infatti, l’attributo dello stato abituale sarà pure attributo di ciò che ricava il suo nome dallo stato abituale, e l’attributo di ciò che ricava il suo nome dallo stato abituale costituirà pure un attributo dello stato abituale. Poiché, ad esempio, “chi è dotato di scienza” ricava il suo nome dalla “scienza”… Qui comincia ad accorgersi che aggiungendo un qualcosa a ciò che si immagina essere una caratteristica peculiare, questa caratteristica peculiare si modifica, e cioè non è più una caratteristica peculiare. Quando, invece, si vuole considerare la tesi, occorre dire che il soggetto caratterizzato dall’accidente e l’accidente considerato insieme con la realtà di cui l’accidente è accidente non sono diversi in assoluto, ma si dicono diversi per l’alterità del loro essere: l’“essere” che è nel l’“essere umano”, infatti, è per l’“essere umano” qualcosa di diverso dall’“essere” che è nell’“essere umano bianco” e per l’“essere umano bianco”. Questa sarebbe la confutazione di Aristotele. Si deve poi anche indagare, seguendo i casi dei termini, e dire che “chi è dotato di scienza” non potrà essere “ciò” la cui certezza non può venir turbata dal ragionamento, ma che sarà “colui” che è convinto in modo da non poter essere turbato dal ragionamento… /…/ Bisogna, infatti, non esitare ad attaccare con ogni mezzo possibile che solleva obiezioni su tutto. Qui ce l’ha ovviamente con i sofisti, perché i sofisti facevano solo quello: tu mi metti l’uno e, allora, io ti metto i molti; ti mostro così che, se togli questi molti di cui è fatto l’uno, non c’è neppure l’uno. Come poniamo l’uno? Lo poniamo, certo, ma ponendolo poniamo anche i molti insieme con l’uno. A pag. 1431. Ora, quando si aggiunge il riferimento alla specie, dal momento che la caratteristica peculiare individuata apparterrebbe in questo caso a certe realtà in misura maggiore a ad altre in misura minore. Questo capita quando, ad esempio, il fuoco viene detto essere ciò che è dotato di parti che sono, in verità, più sottili rispetto a qualsiasi altra realtà; infatti, la luce è costituita di parti più sottili di quelle della fiamma e del carbone. Qui si sta dando da fare per cercare di trovare un modo per potere stabilire che la realtà peculiare può essere posta. A pag. 1451. Ad esempio, poiché il fatto di “essere immobile” appartiene al l’“essere umano in sé”, non in quanto l’“essere umano in sé” è un essere umano ma in quanto è un’Idea, allora il fatto di “essere immobile” non costituirà una caratteristica peculiare dell’essere umano. È interessante perché, in effetti, è proprio questa la caratteristica peculiare dell’essere umano, cioè, di essere fatto di idee, di pensieri, di fantasie. Ma in questa critica, che lui fa a Platone, c’è qualcosa di interessante: lui sta cercando di stabilire qualche cosa che non sia un’idea ma, come dice lui, una realtà peculiare, perché sia quella che è. Per potere ottenere questo risultato deve eliminare i molti, cioè, eliminare il fatto che qualunque cosa possa dirsi in tanti modi. Se ciascuna cosa può dirsi in tanti modi, come la stabiliamo con certezza? Tenete conto che queste cose sono rivolte a chi discute; è chiaro che chi discute, se vuole sostenere la tesi di una realtà peculiare, dovrà sempre confrontarsi con quelli che la negano. Ma quelli che la negano, che danno, cioè, la priorità ai molti, a loro volta dimenticano che questi molti possono essere posti soltanto come uno, cioè, come una realtà peculiare. È la simultaneità quella cosa che viene costantemente cancellata; quella simultaneità posta in modo evidente da Eraclito. La separazione, cioè, la cancellazione della simultaneità, è ciò che consente di parlare, ma senza la simultaneità non ci sarebbe niente da dire. Sì, possiamo parlare, ma di che? Se parliamo di qualche cosa, questo qualche cosa è determinato in un qualche modo, quindi, dai molti. Quindi, la simultaneità, da una parte consente di parlare, ma dall’altra fa in modo di avere qualche cosa di cui parlare, perché consente di determinare l’uno, determinato attraverso i molti. Qualunque cosa io voglia dire, dico quella cosa lì, ma quella cosa lì, per essere quella cosa lì, comporta… Aveva ragione Severino: questa lampada sul tavolo è questa lampada sul tavolo perché c’è il mondo intorno, ci sono i molti, sennò non sarebbe nulla. Poi, anche Severino stesso tenta di gestire i molti, e cioè di cancellarli nel momento in cui tutti gli astratti parteciperanno del concreto, e allora i molti non ci saranno più, ci sarà il tutto. Il problema è che senza i molti non c’è neanche il tutto. Siamo al Libro sesto, a pag. 1471. L’esame delle definizioni si divide in cinque parti: infatti, si tratta di mostrare o, che, in generale, 1) non risulta vero che per ogni realtà a cui si riferisce il nome è vera anche la definizione ( infatti, la definizione di “essere umano” deve essere vera per ogni essere umano; 2) oppure che, sebbene ogni realtà abbia un genere, o, quanto meno, non nel genere che gli è proprio (infatti, occorre che chi definisce, dopo avere posto una determinata realtà in un genere, vi aggiunga le differenze,; infatti, tra gli elementi che costituiscono la definizione, sembra che ad indicare l’essenza sia soprattutto il genere)… Quindi, occorre stabilire il genere e, poi, occorre che questo genere sia diverso dagli altri. …oppure si tratta di mostrare che la definizione non costituisce una caratteristica peculiare… In effetti, la definizione non è una caratteristica peculiare, perché la caratteristica peculiare è qualche cosa che attiene a quella cosa lì, è specifica, mentre la definizione deve essere universale. Se, dunque, la definizione dice il vero rispetto alla realtà a cui viene attribuito il nome, lo si deve esaminare sulla base degli argomenti relativi all’accidente; e, infatti, ogni ricerca parte proprio dalla domanda se una cosa è vera o non è vera. E cioè: è una cosa che è così per sempre o è così com’è in questo momento, quindi, un accidente? Infatti, quando in una discussione diciamo che l’accidente appartiene a una determinata realtà, diciamo che è vero; quando, invece, non le appartiene diciamo che non è vero. Se, poi, ciò che deve essere definito non è stato posto nel genere opportuno, o se la definizione fornita non è appropriata, occorre esaminarlo sulla base degli argomenti forniti quando si è parlato del genere e della caratteristica peculiare. A pag. 1473. Ora, per quanto riguarda la definizione scorretta, di essa ci sono due parti: una consiste nel fatto di usare un’espressione oscura (infatti, è necessario che chi definisce usi l’espressione più chiara possibile… Come vedete, si tratta per lo più di consigli retorici. …dal momento che la definizione viene formulata proprio allo scopo di conoscere la realtà in questione, mentre la seconda consiste nel fatto che la definizione dica più del necessario… Perché il fatto che la definizione dica più del necessario è retoricamente un errore? Perché più cose si dicono e più si offre all’avversario la possibilità di attaccarci. Il primo schema riguardante l’oscurità si ha se ciò che viene detto è omonimo rispetto a qualcos’altro, come ad esempio se la generazione consiste nel “passaggio” all’essere, oppure se la salute consiste nel giusto “equilibrio” degli elementi caldi e di quelli freddi; infatti, “passaggio” ed “equilibrio” sono omonimi. Quindi, non è chiaro quale dei molti significati del termine si voglia intendere. Questo è il punto: non è chiaro quale dei molti significati del termine si voglia intendere. Qui Aristotele è preciso: non quali significati della cosa ma quali significati uno utilizza in quel momento; perché la cosa, sulla scorta delle Categorie, non è altro che le cose che se ne dicono e, quindi, devo precisare, per essere chiaro, in che modo intendo questa certa cosa. È la stessa che diceva Peirce molti secoli dopo: in una discussione la prima cosa da fare è stabilire che cosa intendiamo con i vari termini che usiamo. Tutti sono disposti a dire che il bene è meglio del male, ma i problemi incominciano laddove dobbiamo stabilire che cosa si intende con bene; quindi, se il bene non è definito, allora diventa una categoria universale, il bene, ma se noi cerchiamo la definizione del bene, ci accorgiamo che questa definizione non ha nessuna dimostrazione, per cui qualunque cosa io dica essere il bene, io non lo posso provare, come direbbe Severino, in modo incontrovertibile. Una situazione simile si verifica anche quando ciò che deve essere definito si dice in molti modi, nel caso in cui non vengano fatte distinzioni; infatti, non sarà chiaro quale significato sia stato dato alla definizione e sarà possibile attaccare l’avversario in modo subdolo dato che la definizione non si applica a tutte le realtà di cui egli ha fornito la definizione. L’omonimia, cioè, il fatto che le cose si dicano in tanti modi, naturalmente può essere usato sia a favore sia contro. Vedete che la questione è ancora quella dell’uno e dei molti: se io sostengo l’uno, cioè, sostengo una verità, l’altro mi obietterà i molti, cioè, tutti i significati possibili e immaginabili di questa definizione. Se io sostengo che questa cosa ha molti significati, l’altro mi obietterà che, sì, ha molti significati, ma tutti questi significati convergono su una cosa e che determinano quella. È sempre uno e molti, sempre, non si esce da qui; non c’è modo, come si direbbe oggi, di superare Parmenide. Anche Eraclito, naturalmente, ma è Parmenide che ha posto per primo la questione dell’uno e dei molti attraverso l’essere e il non essere: l’essere come uno e il non essere come i molti. A pag. 1503. E ancora, occorre fare attenzione se è posta come differenza l’affezione. Ogni affezione, infatti, quando aumenta di intensità, modifica l’essenza stessa, mentre la differenza non fa questo. Questa è una distinzione sottile di Aristotele, quasi sofistica; peraltro, lui ha preso molto dai sofisti. A lui non piace questa idea, ma sono stati i sofisti i primi ad utilizzare questi strumenti. Anzi, al contrario, sembra che la differenza salvi piuttosto ciò di cui è differenza… Se io pongo una differenza, devo pensare che i due elementi, che stabiliscono questa differenza, siano quelli che sono; sennò come faccio, per esempio, a sottrarre? Se devo sottrarre 3 a 5, occorre che 3 e 5 siano quello che sono e non che all’improvviso siano un’altra cosa. …e, in generale, è impossibile che ciascuna cosa sia priva della differenza; infatti, se non si dà “terrestre” non c’è nemmeno l’“essere umano”. Più in generale, poi, si deve dire che ogni caratteristica, che modifica la realtà che la possiede, non è differenza, dato che tutte queste caratteristiche, se aumentano di intensità, finiscono per modificare l’essenza di quella stessa realtà. Quindi, se uno ha indicato una differenza di questo tipo, ha sbagliato; infatti, in generale, non ci modifichiamo sulla base delle differenze. Ma è l’affezione che modifica l’essenza, non la differenza; anzi, come dice lui, la differenza consolida l’essenza. L’affezione, il πάθος, modifica l’essenza, modifica la cosa che il πάθος, per esempio, colpisce. È una questione interessante perché potrebbe rispondere alla domanda: che cos’è che modifica il nostro pensiero? Le differenze? Certo che no, anzi, queste lo consolidano: la differenza, per esempio, stabilisce il nemico. Non è la differenza ciò che importa ma l’affezione, cioè, il mio sentire, vale a dire, le mie fantasie, le fantasie di cui ciascuno è fatto: sono queste che stabiliscono la tonalità affettiva. Come dicevo, è una questione importante: uno cambia il proprio pensiero non in relazione alle differenze o al come stanno le cose – non importa niente a nessuno di come stanno le cose – ma alle sue emozioni; sono queste che determinano ciò che io crederò. L’emozione principale è quella che si prova quando si ha la certezza di essere nel vero, la ήδονή di cui parla Aristotele. Si parla per via delle emozioni, e qual è l’emozione che domina ogni cosa? È quella emozione che procede dalla sensazione di dominare ogni cosa: questa è l’ήδονή vera e propria. Quindi, si parla e si credono quelle cose che sono funzionali alla propria volontà di potenza. Se è funzionale alla mia volontà di potenza l’idea che sia meglio, per dir così, un governo di sinistra, allora è buono un governo di sinistra; se, invece, la mia volontà di potenza è sorretta da altre argomentazioni, ecco che è buono un governo di destra. Tutto il resto, sembra dirci Aristotele, non qui perché qui non lo dice, non conta niente. Questa è una posizione proprio da sofisti; Gorgia ed Eutidemo potrebbero dirci una cosa del genere. Ciò in cui credo è sempre l’uno. Per potere credere una qualunque cosa, qualunque essa sia, devo pensare che questo uno sia separato dai molti, sennò non la posso credere. Posso dirla, certo, ma non posso crederla perché questa cosa contiene tutti i suoi contraddittori, tutte le sue negazioni, sono tutti lì. Per quante argomentazioni a favore noi possiamo sostenere, altrettante possiamo sostenerne contro, sempre. Questo perché? Ce lo dice Aristotele: per via dell’omonimia, perché una cosa può dirsi in molti modi, cioè, una qualunque cosa è anche e simultaneamente i molti. Ecco perché è possibile confutare e stabilire qualunque cosa: perché ciascuna parola è una e molti. Sennò non sarebbe possibile né confutare né stabilire alcunché. È un’operazione che è necessaria per potere parlare; come dicevo prima, per potere parlare occorre che io faccia come se non ci fosse simultaneità, ma è grazie alla simultaneità che io ho qualcosa da dire. Quando credo ho fatto questa operazione: ho posto uno e ho cancellato i molti, cioè, ho fatto un’operazione, ci direbbe Hegel, religiosa, per cui ecco il bene e il male. In questi giorni si parla molto dell’asse del bene e l’asse del male. L’asse del bene sono io, l’asse del male sono tutti gli altri, che non capiscono e che continuano a insistere che loro sono l’asse del bene e io l’asse del male. Tenete sempre presente la questione dell’uno e dei molti. È la questione più antica, ma è l’unica. Ce la portiamo appresso ancora oggi, è qui mentre parliamo, è sempre presente. E siccome per parlare dobbiamo cancellare i molti, accade che si suppone che i molti possano essere eliminati.