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24 gennaio 2018

 

M. Heidegger, Essere e Tempo

 

Siamo a pag. 482, § 80 Il tempo di cui ci si prende cura e l’intratemporalità. Parla del farsi pubblico del tempo. Prima di decidere se il tempo pubblico sia “semplicemente soggettivo” o se sia dotato di “realtà oggettiva” o se non sia né “soggettivo” né “oggettivo”, è necessario determinare in modo ancora più preciso il carattere fenomenico del tempo pubblico. Il tempo pubblico è il tempo di cui ci si occupa, ma sappiamo che la temporalità non è, per Heidegger, il tempo cronologico; il tempo è dato dal progetto, dalla gettatezza e dal presente. Pubblico, perché? Perché nel progetto l’Esserci incontra enti, e fra questi enti che incontra ci sono anche le persone. Questo carattere pubblico del tempo non è altro che il tenere conto che esistono anche gli altri. Il farsi pubblico del tempo non è un fatto accessorio e occasionale. Poiché l’Esserci, in quanto estatico-temporale (gettato fuori temporalmente) è già sempre aperto (a chiunque), e poiché dell’esistenza fa parte l’interpretazione comprensiva, l’Esserci si trova ad aver già sempre reso pubblico il tempo nel prendersi cura. Sta dicendo che il tempo è già da sempre pubblico, non è che lo diventa a un certo punto, perché l’Esserci è in quanto progetto, in quanto ha sempre a che fare con qualche utilizzabile, e in questo caso anche gli altri sono degli utilizzabili. Quindi, nel momento in cui c’è l’Esserci, c’è in questo modo, cioè, in quanto progetto e in quanto gettatezza, e quindi è già da sempre pubblico il tempo di cui si occupa. Ci si regola secondo esso in modo che debba risultare in qualche modo accessibile a tutti. Non può essere un tempo solo mio: se io metto questo orologio avanti di sei ore e mi comporto di conseguenza, prendendo appuntamenti, ecc., poi non verrà nessuno oppure verranno quando non ci sono io. Devo, quindi, tenere conto che questo tempo, con cui ho a che fare, è pubblico. Benché il prendersi cura del tempo possa aver luogo nel modo descritto della datazione a partire dagli eventi intramondani, esso in fondo si attua già sempre nell’orizzonte di quel prendersi cura del tempo che noi conosciamo come calcolo astronomico e calendaristico del tempo. Questo prendersi cura del tempo si fonda su un qualche cosa di molto antico. Infatti, dirà tra poco che il primo orologio, la prima datazione del tempo, è data dal giorno-notte: di giorno si vede e, quindi, ci si può occupare degli utilizzabili; di notte no, perché non si vedono. Originariamente non c’era la luce elettrica, quando calava il sole era buio pesto. Poiché l’Esserci, in virtù della sua essenza, esiste come gettato e deiettivo, esso, prendendosi cura, interpreta il suo tempo nel modo di un calcolo del tempo. (pagg. 482-483) Sappiamo che il tempo dell’Esserci è questa successione di “ora”, quindi, è puntuale, una successione di “ora”, di adesso, di presenze. Nel calcolo del tempo si temporalizza il farsi-pubblico “vero e proprio” del tempo… È proprio nella necessità di calcolare il tempo che c’è l’aspetto pubblico: per esempio, calcolare il tempo per prendere un appuntamento. …di conseguenza si deve dire che l’esser-gettato dell’Esserci è il fondamento del fatto che “c’è” un tempo pubblico. È la gettatezza dell’Esserci a fare da fondamento al tempo pubblico, per il fatto che in questa gettatezza l’Esserci si occupa di utilizzabili e, occupandosi di utilizzabili, dice Heidegger, si trova preso nella necessità di un calcolo del tempo. Il “tempo pubblico” si rivela come il tempo “in cui” si incontrano l’utilizzabile e la semplice presenza. Per “tempo pubblico“ si intende qui anche il tempo in cui io incontro le cose, tra cui ovviamente le persone. Ne consegue che questo ente non conforme all’Esserci deve essere detto intratemporale. Questo ente si manifesta all’interno del tempo. L’interpretazione dell’intratemporalità ci permette una comprensione più originaria dell’essenza del “tempo pubblico” e, nel contempo, rede possibile la determinazione del suo “essere”. L’essere dell’Esserci è la Cura. Questo ormai lo sappiamo a memoria. Questo ente esiste come gettato e deiettivo. L’Esserci è gettato e deiettivo, cioè, è nel mondo. Abbandonato al “mondo” scoperto nel suo Ci effettivo e confinato del “mondo” prendendosene cura… “Confinato nel mondo” non è una parola usata a caso, è chiuso all’interno del mondo dal quale non può uscire. Il suo mondo è ciò che rende l’Esserci quello che è e, a sua volta, l’Esserci è ciò che rende il mondo quello che è. … l’Esserci si aspetta il proprio poter-essere-nel-mondo in modo tale da “calcolare” con ciò e su ciò con cui esso, in-vista di questo poter-essere, ha una appagatività alla fine eminente. L’Esserci si aspetta sempre il proprio poter essere perché è quello che è, è ciò che è sempre stato. È in vista di questo poter essere, dice Heidegger, che incontra una sorta di appagatività, cioè, diventa ciò che è sempre stato. L’Esserci, in questa gettatezza, è ciò che è sempre stato, quindi, è questa la sua appagatività. L’essere-nel-mondo, quotidiano e ambientalmente preveggente, ha bisogno della possibilità di vedere, cioè del chiaro, se vuole aver commercio con l’utilizzabile, prendendosene cura, all’interno di ciò che è semplicemente-presente. Qui arriva la questione di cui dicevamo prima. Con l’aperura effettiva del suo mondo, per l’Esserci è scoperta la natura. Nel suo essere-gettato l’Esserci è rimesso alla successione di giorno e notte. Il giorno, con la sua luce, rende possibile la visione che la notte toglie. Prendendo cura sotto la guida della visione ambientale preveggente e aspettandosi la possibilità di vedere, l’Esserci si dà il suo tempo in base al “poi, quando sarà giorno”, comprendendo se stesso in base al proprio lavoro quotidiano. L’Esserci comprende se stesso a partire dal quotidiano, dalla deiezione, dalla chiacchiera, a partire da infinite cose che gli stanno attorno, è da lì che parte necessariamente. Poi, può anche rivenire a se stesso ma se non ci fosse questo punto di partenza non potrebbe fare nulla, cioè, se non fosse nel linguaggio non andrebbe da nessuna parte. Il mondo è fatto di enti ma, di fatto, questi enti non sono altro che significanti. Il “poi” di cui ci si prende cura… C’è un “adesso” che è giorno e un “poi” che è la notte. …è datato a partire da ciò che si trova nel rapporto di appagatività ambientale più stretto col fenomeno del farsi chiaro: il sorgere del sole. Poi, quando il sole sorge, è temo per… (pagg. 483-484) Qui inserisce un elemento che è importante, incomincia a dire che il tempo è sempre un tempo “per” qualcosa. Ma questo tempo “per” qualcosa parte sempre da ciò che appare, dalla presentificazione di qualche cosa. A pag. 485. La datazione del “poi”, auto-interpretantesi nell’aspettazione prendentesi cura, porta con sé: poi, quando sarà giorno, è tempo per il lavoro quotidiano. Il tempo interpretato nel corso del prendersi cura è già sempre compreso come tempo-per… Il rispettivo “ora che è tempo di questo quello” è, come tale, sempre adatto a… o inadatto a… L’“ora”, e ogni altro modo del tempo interpretato… Quando dice interpretato intende considerato in qualche modo. …non è soltanto un “ora che…”, ma, per il fatto di essere essenzialmente databile, è altrettanto essenzialmente determinato dalla struttura dell’essere-adatto o dal non-essere-adatto. Quindi, è questo aspetto che determina il modo in cui si rapporta al tempo, cioè, il fatto che questo tempo sia un tempo “per” qualche cosa, quindi, sempre riferito a un utilizzabile. il tempo interpretato ha, sin dalle radici, il carattere del “tempo-per…” o del “non-tempo-per…”. La presentazione aspettantesi e ritenente, propria del prendersi cura, comprende il tempo in riferimento a un per-che, il quale, alla fine, è a sua volta ancorato in un in-vista-di-cui del poter-essere dell’Esserci. Con questo riferimento al “per”, il tempo pubblico manifesta quella struttura che abbiamo precedentemente conosciuta sotto il nome di significatività. (pagg. 485-486) Ora qui c’ è un rimando al § 18 a pag 107, che è il caso di riprendere. Dice qui delle cose che abbiamo già lette ma che non fa male riprendere. Il § 18 si intitola Appagatività e significatività. La mondità del mondo. Qui parla dell’utilizzabile. L’utilizzabile è incontrato come intramondano. L’essere di questo ente, l’utilizzabilità, sta perciò in qualche rapporto ontologico con il mondo e la mondità. Il mondo “ci” è già sempre in ogni utilizzabile. (pagg. 107-108) Questo mondo è già da sempre presente nell’utilizzabile perché sappiamo che l’utilizzabile è tale perché in relazione con tutti gli altri utilizzabili, quindi, è quello che è perché in vista di qualcosa, ed è quello che è perché serve all’Esserci a qualche cosa. Il mondo è già scoperto preliminarmente, anche se non tematicamente, in tutto ciò che in esso si incontra. … La costituzione di mezzo-per… propria dell’utilizzabile fu indicata come rimando. Qui c’è la questione del segno. Lui dice un mezzo-per. Questo “mezzo-per…” è sempre un “per” un altro “mezzo-per…”. Questa è la questione della semiosi infinita di Peirce, cioè un segno è segno per un altro segno, quindi, un rimando. Come può il mondo rilasciare nel suo essere un ente che abbia questo modo di essere? Perché si incontra questo ente per primo? Quali esempi di rimandi abbiamo elencati: l’utilità a…, l’inopportunità, l’impiegabilità e così via. L’a-che di un’utilità e il per-che di un’impiegabilità designano rispettivamente la concrezione possibile del rimando. Il “significare” di un segno, il “martellare” del martello non sono però la proprietà di un ente. Sta dicendo delle cose che per la semiotica sono ovvie: il segno è rimando per un altro segno. Diciamo che questo rinviare a qualche cos’altro non è una proprietà della cosa ma è una proprietà del segno, non è la cosa che rinvia, è il segno che rinvia. Essi non sono affatto qualità, se con questa parola si vuole indicare la struttura ontologica di una determinazione possibile delle cose. L’utilizzabile ha semmai appropriatezze e non appropriatezze, e le sue “proprietà” sono, per così dire, latenti in quelle, allo stesso modo che la semplice-presenza è latente nell’utilizzabilità come modo di essere possibile di un utilizzabile. Tuttavia l’utilità (il rimando)… Ecco, qua è preciso, l’utilità è il rimando. Quindi, un utilizzabile è un segno che rinvia a qualche cosa. …in quanto costituzione del mezzo, non è l’appropriatezza di un ente, ma la condizione ontologica della possibilità che esso possa esser determinato mediante appropriatezze. Anche in questo caso si tratta di possibilità. Quindi, l’utilizzabile è una possibilità, è questo ciò che gli appartiene più propriamente, non è l’essere quello che è o le sue qualità, ecc., no, è di essere una possibilità di rinvio. Questo ha moto a che fare con la semiotica. Un segno apre a una possibilità, possibilità per altri segni, ovviamente. Potremmo dire che il segno non è altro che l’apertura di possibilità. Ma che significa allora rimando? Ecco che arriviamo alla questione. Che l’essere dell’utilizzabile abbia la struttura del rimando significa che esso ha in se stesso il carattere dell’essere-rimandato. Ecco, ha detto tutto. Lo specifico dell’utilizzabile è quello di essere rimandato a un’altra cosa, rinviato a un’altra cosa, quindi, di essere segno per un’altra cosa. questo è l’utilizzabile, questo è il rimando. L’ente è scoperto in modo che, in quanto è l’ente che è, è rimandato a qualcosa. Si sta chiedendo: in che modo si scopre l’ente? In che modo mi accorgo di un ente? In che modo un ente in qualche maniera c’è? Solo perché mi rimanda a qualche altra cosa. questo è per Heidegger il modo con cui si scopre un ente. Lo rileggo perché importante L‘ente è scoperto in modo che, in quanto è l’ente che è, è rimandato a qualcosa, proprio perché quello che è che è rimandato a qualcosa; se non fosse quello che è non potrebbe rinviare a niente. Il carattere d’essere dell’utilizzabile è l’appagatività. Giunge, cioè, al compimento di ciò a cui serve. L’appagatività di un segno è quella di essere segno per un altro segno. Nel momento in cui è segno per un altro segno incontra la sua appagatività. L’appagatività implica l’appagamento con qualcosa presso qualcosa. Il rapporto espresso dal “con… presso…” deve essere indicato mediante il termine di rimando. Vi ricordate quando parlava dell’essere presso… quando parlava della Cura. La Cura è l’essere presso qualcosa di cui mi sto prendendo cura. Questo essere presso qualcosa che determina la Cura, il prendersi cura di qualcosa, è il rimando, è il rinvio, è il segno. Quindi, questo è il modo con cui ci si prende cura di qualcosa, questo è ciò di più proprio nel prendersi cura. Sappiamo che la Cura è l’essere dell’Esserci, è la sua proprietà, e quindi potremmo dire che l’essere dell’Esserci, cioè la Cura, essendo l’essere presso ciò di cui mi prendo cura, non è altro che un rimando. Prendersi cura è un essere presi in un continuo rimando, in un continuo rinvio. A pag. 109. Lasciar appagare significa onticamente: nel corso di un prendersi cura effettivo lasciar essere un utilizzabile così com’è e affinché sia tale. Questo senso ontico del “lasciar essere” è da noi inteso in modo rigorosamente ontologico. Lasciar appagare significa, nel corso di un prendersi cura effettivo, lasciar essere un utilizzabile così com’è e affinché sia tale. Ma com’è? È un rimando, è un rinvio. Quindi, lasciar essere ciò che mi appare è lasciarlo essere un rinvio. Affinché sia tale, cioè, affinché continui a esser quello che è, cioè un segno. Ecco perché l’altra volta dicevo che pensare non è altro che il farsi carico del problema che la parola è, e la parola è questo rinviare continuo. Lasciare che un ente sia quello che è è lasciare che l’ente continui a sussistere come problema, come qualcosa che non è qualcosa di ovvio, di scontato, di dato come normale, ecc., ma è un problema. Perché è un problema? È un problema perché rinvia, perché non è altro che il suo essere più proprio quello di essere un segno, quello di essere un rinvio per altri segni, e così via all’infinito. A pag. 110. Lasciar “essere”, preliminarmente, non significa produrre o portare qualcosa nel suo essere… Che è ciò che tenta di fare la scienza, portare una cosa nel suo essere, cioè, cercare di coglierla per quello che veramente è, nella sua sostanza. …ma scoprire, nella sua utilizzabilità… Per scoprire qualcosa è soltanto nella sua utilizzabilità che può accadere, utilizzando questa cosa, cioè facendola lavorare come segno. … qualcosa di “essente” già da sempre, e lasciare così incontrare l’ente che ha un tale essere. Che è un po' quello che diceva prima, si tratta di incontrare qualche cosa lasciandolo essere quello che è, così com’è, affinché continui a essere ciò che è, e cioè un rimando, un segno. Dopo questa breve digressione torniamo a pag. 487. In qualche modo anche l‘Esserci “primitivo” si sottrae già alla necessità di una lettura diretta del tempo nel cielo, allorquando, anziché osservare la posizione del sole nel cielo, misura l’ombra proiettata da un ente costantemente disponibile. Tutto questo è un leggere il tempo. A pag. 488. Ma che significa “leggere il tempo”? “Guardare l’orologio” non può infatti significare soltanto: osservare i mutamenti del mezzo utilizzabile e seguire gli spostamenti della lancetta. Quando usiamo l’orologio per stabilire “che ora è”, diciamo esplicitamente o no: “Ora sono le tanto e tanto, ora è tempo per…” oppure “C’è ancora tempo…” cioè “Da ora fino a …”. Il guardare l’orologio è fondato e guidato da un prendersi-tempo. Ciò che già risultò a proposito del più elementare calcolo del tempo, si fa ora più chiaro: il regolarsi secondo il tempo guardando l’orologio è essenzialmente un dire-ora. Dire ora è un altro modo per dire, secondo Heidegger, ogni cosa è un qui e adesso, l’Esserci è qui e adesso. Ciò è talmente “ovvio” che non badiamo più, e tanto meno ci rendiamo esplicitamente conto, che nel dire-ora l’ora è già sempre compreso e interpretato nella pienezza del suo contenuto strutturale, cioè nella databilità, nell’estensione, nell’esser pubblico (pubblicità) e nella mondità. Queste cose ovviamente sono presenti quando noi guardiamo l’ora, è sempre all’interno del mondo di cui sono che questo ora è qualche cosa. la datazione che misura il tempo di cui ci si prende cura interpreta questo tempo in riferimento alla presentazione della semplice-presenza che è accessibile come unità di misura e come quantità misurata soltanto in una presentazione particolare. È esattamente quello che dicevo prima: soltanto da ciò che si presenta qui e adesso è possibile pensare a un “poi”, è possibile pensare a un “fu”. A pag. 490. La misurazione del tempo conferisce al tempo un marcato carattere pubblico, cosicché per questa strada si giunge a conoscere ciò che chiamiamo comunemente “il tempo”. Nel prendersi cura è assegnato a ogni cosa il “suo tempo”. Essa “ha” tempo e può “averlo”, allo stesso modo di ogni ente intramondano, solo perché è in generale “nel tempo”. Abbiamo definito il tempo “in cui” si incontra l’ente intramondano come tempo-mondano. Sul fondamento della costituzione estatico-orizzontale della temporalità cui appartiene, il tempo-mondano ha la medesima trascendenza del mondo. Cioè, così come il mondo, che è trascendente rispetto all’ente particolare, presente. Ciò che è presente è immanente, ciò che non è presente trascende. Con l’apertura del mondo… Quindi, con l’Esserci, che si apre al mondo. …è reso pubblico il tempo-mondano, sicché ogni esser-presso (temporalmente prendentesi cura) l’ente intramondano comprende, secondo la visione ambientale preveggente, questo ente come incontrato “nel tempo”. Riprendendo la domanda da cui eravamo partiti “come so che c’è il tempo?” oppure “quando parliamo del tempo di che cosa stiamo parlano esattamente?” qui ci sta dicendo che è aprendosi a mondo, da parte dell’Esserci, che io ho la possibilità di poter dire che questo ente è incontrato nel tempo. Il tempo “in cui” la semplice-presenza si muove e riposa non è “oggettivo”, se con ciò si intende la semplice-presenza-in-sé dell’ente che si incontra nel mondo. Ma altrettanto poco è “soggettivo”, se con ciò intendiamo l’esser-presente e il presentarsi in un “soggetto”. … Il tempo-mondano è però anche più soggettivo di qualsiasi possibile soggetto, in quanto solo esso, rettamente inteso nel senso della Cura, cioè dell’essere del Se-stesso effettivamente esistente, rende possibile proprio questo essere stesso. “Il tempo” non è semplicemente-presente né nel “soggetto” né nell’“oggetto”, né “dentro” né “fuori”, ed è “prima” di ogni soggettività e di ogni oggettività, perché è la condizione della possibilità di questo stesso “prima”. Il tempo di cui sta parlando è la condizione del “prima”, quindi del “dopo”, ecc. Perché è la condizione? Pensate all’Esserci, alla temporalità dell’Esserci, e cioè del progetto, della gettatezza e del presente. Il presente, che è un “ora”, non potrebbe darsi senza il progetto e la gettatezza, cioè se non fosse che l’Esserci è sempre progettato verso un qualche cosa, verso un futuro, e se non si rendesse conto di essere sempre stato questa gettatezza verso un qualche cosa. Ora, in questa operazione incontra un ente ma lo incontra nell’“ora”, qui, adesso, in questo modo io incontro l’ente. Infatti, dice il tempo “in cui” la semplice-presenza si muove e riposa… perché sta lì il tempo, il tempo sta nell’“ora” della semplice presenza. È questo “ora” della semplice presenza che consente l’avvio di tutto ciò che si pensato e che si è detto del tempo, perché questo “ora” della semplice presenza è quella che mi consente di stabilire un “poi”: ora questo ma poi… Heidegger si domanda: da dove arriva la possibilità di questo “poi”? Ci deve essere già il tempo se dico “poi”. Ed è vero. Ma da dove arriva questo “poi”? Lui insite a dire che il tempo non è né oggettivo né soggettivo ma è prima della possibilità di dire “prima”. Qui si pone una questione abbastanza complessa. Sempre riferendosi alla domanda riguardo il tempo, dice Possiamo dire, in generale, che il “tempo” possiede un “essere”? E se no, sarà un fantasma a sarà più “essente” di ogni “ente” possibile? Una ricerca che si muova nella direzione di questi problemi va a urtare contro lo stesso “limite” che già sbarrò la strada alla discussione preliminare della connessione fra verità e essere. Perché sono la stessa cosa. Che cosa ci sta dicendo? Perché l’essere, di cui stiamo parlando, è il tempo. È esattamente quella temporalità, di cui parlavamo prima, dove, sì, non c’è ancora un prima e un dopo, però c’è un essere progettato verso qualche cosa e un essere nella gettatezza da sempre, dalle quali cose si staglia il presente. Questo porta Heidegger a considerare che non c’è nessuna differenza tra l’essere, di cui sta parlando, e il tempo. Il tempo, quindi, è gettatezza, è un progetto gettato, è il presente. È solo perché mi occupo del mondo, essendo un progetto gettato, che incontro degli utilizzabili, ed è perché incontro degli utilizzabili che mi pongo la questione del tempo, perché ho delle cose da fare, da fare prima o da fare dopo. Infatti, ci diceva che il tempo è sempre un “tempo per…” e l’Esserci è esattamente la stessa cosa, l’Esserci è un qualche cosa che è per qualche cosa, che sta facendo qualche cosa. Sta dicendo che non c’è nessuna differenza tra l’essere e il tempo, l’essere è tempo. Dire che l’essere è tempo non è niente altro che dire che l’Esserci è sempre un essere “in vista di…” e il tempo è sempre un tempo in vista di un utilizzabile. È in questo modo che l’Esserci incontra il tempo, lo incontra sotto forma di un utilizzabile presente, che si presentifica, ma se questo utilizzabile si presentifica è perché me ne sto occupando, sennò non si presentificherebbe nulla. E se me ne sto occupando è perché sono progetto gettato, continuamente, un progetto gettato verso qualche cosa, in vista di qualche cosa. Quindi, la questione del tempo, che appare così complessa in Heidegger, in realtà potrebbe essere pensata in modo molto semplice. L’Esserci è un progetto gettato, quindi, è in vista di qualche cosa, di un utilizzabile, e questo utilizzabile è nel mondo. Il modo in cui mi approccio all’utilizzabile, cioè il fatto che è un qualche cosa che è sempre in vista di, un segno, un rimando verso qualche altra cosa, pone una questione, e cioè il “poi”. Il rimando è sempre un in vista di, cioè in vista di un “poi”, quindi, l’Esserci è sempre un essere in vista di un “poi”. È in questo modo che Heidegger intende il tempo: l’essere sempre in vista di un “poi”, di un presente, da cui naturalmente si parte sempre, ciò che è immediatamente presente, ma che è sempre in vista di un “poi”. Diciamola in un altro modo: un significante è sempre tale in vista di un altro significante. Ma perché per Heidegger è così importante la questione del tempo? Per due motivi. Intanto, verifica che l’essere un progetto gettato comporta sempre l’essere gettato verso qualcosa che ancora non è propriamente, quindi, in vista di un “poi”: un progetto è un progetto per qualcosa che sarà ma che non è ancora. Quindi, il solo fatto di avere posto l’essere, quello della filosofia tradizionale, come un Esserci, cioè come un progetto gettato, comporta necessariamente un “poi”, l’essere gettato verso un qualche cosa per un “poi”. L’altro aspetto è quello della storicità, che viene anche questa da questo approccio de tempo cosiffatto. La storicità è ciò di cui ciascuno è fatto, il mondo in cui si trova, che è storico nel senso che non può non tenere conto di essere da sempre un essente stato. Questa è la storicità in modo più proprio in Heidegger, e cioè accorgersi di essere un essente stato sempre. È da sempre che è essente stato, è sempre stato gettatezza. Quindi il tempo è essere perché entrambi sono in vista di, sono sempre per qualche cosa, sono sempre per qualche altra cosa. Per Heidegger la questione del tempo è importante anche per sottolineare una distanza dalla filosofia tradizionale, dove il tempo è immutabile ed eterno: il cavallo nasce e muore ma non la cavallinità, quella è sempre. Invece Heidegger ci sta dicendo che, no, neanche il tempo è sempre, perché il tempo è sempre in vista di, è sempre un tempo per, è sempre vincolato all’utilizzabile, è sempre vincolato al progetto, cioè, è vincolato all’Esserci che poi, di fatto, è lui stesso, non c’è differenza fra l’Esserci e il tempo, sono la stessa cosa. Quindi, il tempo non è né oggettivo né soggettivo, non riguarda nessun oggetto e nessun soggetto, ma il soggetto e l’oggetto possono essere pensati per via del tempo.