23 dicembre 2020
L’attualismo di G. Gentile
Paragrafo 5. Induzione immanente nell’universale. Si noti infatti che all’induzione, come processo che spezzi il circolo in cui il pensiero sillogistico è chiuso,… Il circolo, cioè, la premessa maggiore, la premessa minore e la conclusione formano un circolo, da cui non si esce per potere affermare qualcosa, per potere giudicare qualche cosa. …si sente il bisogno di ricorrere in quanto l’universale, che si media dentro di se stesso… Si svolge tutto all’interno del sillogismo. Il problema è la premessa maggiore, naturalmente. …e s’individualizza nel sillogismo in forza di un’asserzione, si ritiene non sia già conosciuto, ma si debba conoscere: posizione analoga a quella, a cui abbiamo visto ricondursi la concezione della logica governata dal principio di ragion sufficiente. Cioè: la necessità che ci sia qualcosa dall’esterno. Giacché bisogna cominciare a distinguere, e opporre l’uno all’altro, l’essere e il pensiero, per proporsi il problema che l’induzione dovrebbe risolvere, e stabilire se A = A. Quindi, il problema è questa sorta di opposizione tra l’essere e il pensiero. Ma questa opposizione, che l’induzione dovrebbe dissolvere, in realtà non viene dissolta, perché questo essere, che dovrebbe porsi come il primum movens del pensiero, e quindi come qualcosa fuori dal pensiero, fuori dal pensiero non è pensabile. Pertanto, ci troviamo di fronte a un problema: o questo essere è già nel pensiero oppure è fuori e non pensabile, quindi non può innescare in nessun modo il pensiero. Si può anzi più rigorosamente dire: che soltanto opponendo l’essere al pensiero si può concepire un problema; poiché, dove l’essere è pensiero esso stesso,… Per Gentile il pensiero è l’essere. …è chiaro che non ci possono essere altro che teoremi, ossia risposte agli eventuali problemi del pensiero soggettivo. Ci sta dicendo che tutti i problemi che sorgono vengono dal considerare l’astratto senza il concreto, un astratto, quindi, che rincorre se stesso all’infinito, oppure, potremmo dire così, che ogni problema che si incontra non tiene conto che tale problema è nel pensiero o, per dirla più semplicemente, è nel linguaggio. Se questo problema è nel linguaggio, è chiaro che non si pone più il problema, in quanto la soluzione è nel linguaggio, è già lì presente. Soluzione, che poi non è altro che un rinvio a qualche altra cosa. Questo ci rimanda anche un po’ a Wittgenstein, che diceva che nel linguaggio non esistono problemi filosofici, ma esistono soltanto problemi linguistici. Introdurre ciò che è proprio del pensiero soggettivo (o pensiero pensante) nel pensiero oggettivo, che è quello in cui il primo si determina, si oggettiva e si pone, è confondere due termini, che soltanto nella loro reciproca distinzione hanno un significato. Confondere, cioè, immaginare che l’astratto sia il concreto. Ora, mantenendo distinto il pensiero come problema dal pensiero teorematico, e guardando unicamente a questo secondo pensiero – dove soltanto è possibile parlare di universale da cui prende le mosse il sillogismo e in cui sbocca l’induzione – non c’è luogo a processo conoscitivo che debba adeguarsi e non sia intanto adeguato all’essere; che aspiri all’universale, ma non sia già universale. Anche qui è da ripetere: o il pensiero c’è, e si pensa; o non c’è. Se c’è, è sillogismo; se non c’è, si è fuori del pensiero; e da fuori del pensiero non c’è verso né modo di introdursi nel pensiero. Questa è una questione di estrema importanza e di grande interesse in Gentile. Continua a dirci che il pensiero è pensiero pensante, nel senso che qualunque cosa accada il pensiero è sempre e necessariamente in atto. Possiamo riferire questo anche al linguaggio: il dire è sempre e inesorabilmente in atto; qualunque cosa io dica, è qualcosa che sto dicendo. Gentile lo riferisce al pensiero, ma è la stessa cosa. E questo ci mostra come in nessun modo sia possibile uscire dal linguaggio e, dunque, dal pensiero. Non c’è modo: qualunque cosa io voglia dire, che riguardi una qualunque cosa, se la dico, nel dirla la sto dicendo: sono nel dire, e sono quella cosa lì che sto dicendo. Paragrafo 6. Conferma di questa dottrina nel concetto d’induzione completa. Il reale passaggio dal particolare all’universale, a cui sempre effettivamente s’è avuto l’occhio parlando d’induzione, è quello che in realtà si compie mediante il giudizio, in cui il termine terminante è pensato mediante il terminato, e l’universale perciò è universale del particolare. Giudizio che, se non si vuol intendere come una relazione di fatto (che non sarebbe pensiero), si concreta, nella sua mediazione, in un sillogismo, presentandosi come la conclusione necessaria d’un processo logico. Di questa necessità era difficile in verità rendersi conto contrapponendo induzione a sillogismo, e particolare ad universale. La necessità della conclusione richiederebbe, come giustamente vide Aristotele, un’induzione completa: ossia una verifica dell’universale attraverso tutti i particolari (διά πάντων) perché soltanto tutti i particolari, nella loro totalità, sono identici all’universale; e dalla sola identità è possibile che scaturisca la necessità logica. Sta dicendo che l’induzione non produce nessuna necessità logica. Paragrafo 7. Il postulato della induzione o della previsione. Ma è possibile un’induzione completa? Inteso il particolare come cognizione sensibile, è dato realizzare tutti i casi della cognizione sensibile? Che era anche il problema di Severino. L’impossibilità è una conseguenza necessaria dei concetti di spazio e tempo, forme del contenuto d’ogni cognizione sensibile: spazio e tempo, che sono molteplicità assoluta e quindi infinita. E, data tale impossibilità, donde la necessità? Come si arriva a parlare di necessità. Il nominalismo fenomenistico, fatto sicuro dalla disperazione, nega l’universale; e del giudizio, a cui mette capo la induzione, fa una formola abbreviata e riassuntiva delle singole esperienze. Ma non ha il coraggio di rinunziare a ogni inferenza, a cui pure tale formola deve prestarsi affinché la scienza abbia valore logico e sia, non semplice segno mnemonico del passato, ma conoscenza di quel che è. Perciò torna esso stesso, senz’avvedersene, al concetto realistico dell’universale, ponendo il postulato dell’uniformità del corso della natura,… Sarebbe bastato Eraclito: la natura ama nascondersi. Se la natura ama nascondersi, diventa complicato parlare di uniformità della natura. I presocratici avevano già inteso qualcosa in più. …onde la conoscenza del passato possa valere anche pel futuro: o, come altri dice, il postulato della previsione. La preveggenza, il chiromante. Comunque si battezzi, quale la funzione di questo postulato? Esso convalida l’induzione, e la rende utile come processo logico, supplendo quasi in linea di diritto quel che le manca in linea di fatto alla sua completezza. In linea di diritto: il sole è sorto questa mattina, è sorto anche ieri, è sorto da sempre, il sole sorgerà anche domani. L’esperienza è inesauribile; ma affinché l’esperienza valga come pensiero, è logicamente necessario che essa venga considerata come esaurita, quasi la verità del principio universale fosse stata verificata in tutti i singoli casi particolari ai quali s’intende di riferirlo. In conclusione, il valore logico dell’induzione è ammissibile a patto di supporre la sfera delle conoscenze particolari, dalle quali dovrebbe dedursi una conoscenza universale, coincidente puntualmente con la sfera di questa conoscenza. Che è come dire: il particolare fa pensare l’universale se è pensato come universale. Paragrafo 9. Induzione dell’individuale. L’induzione infatti, volendo essere esatti, non si può dire che abbia di mira il giudizio universale, sibbene il giudizio disgiuntivo, individuale e assertorio: intendendo sempre queste forme nel senso da noi esposto nel capitolo quinto di questa Parte. La forza logica dell’universale che si trae induttivamente dai particolari è nel giudizio disgiuntivo, onde si formula l’universale stesso. Il quale è un’astrazione se non è necessario, come quella data possibilità che sia reale possibilità, quale si ha nella disgiunzione del giudizio assertorio. O è A, oppure non lo è. Quindi, secondo Gentile, l’induzione dopo tutto non mira al giudizio universale, ma di fatto mantiene questa disgiunzione. Come diceva Aristotele, domani ci sarà una battaglia navale oppure non ci sarà una battaglia navale: una delle due sarà vera. Capitolo III, Il concetto. Paragrafo 1. Il termine e il concetto. Si può dire che tutto il meccanismo della vecchia logica abbia il suo primo principio nello scambio tra concetto e termine, όρίςεσθαι (όρισμός) e όρος (concetto e termine). Infatti, inteso il concetto come termine, ogni pensiero che è concetto vien pensato o mediato in quanto si trascende, si considera cioè parte di un tutto che consti di più parti: sicché il concetto si pensa unendo concetto a concetto nel giudizio; il giudizio, come forma sviluppata del concetto, e quindi esso stesso concetto, non potrà né anch’esso esser pensato se non unendosi ad altri giudizi nel sillogismo, che vien ad essere come una ulteriore integrazione del concetto in una sintesi, non più di due, ma di tre concetti; e una volta ottenuto il concetto come sillogismo, il pensiero continua a spiegarsi nel sistema deduttivo dell’apodissi unendo sillogismo a sillogismo; e finché ci sia processo di pensiero, si tratterà sempre di trascendere col pensiero il concetto. Il termine infatti, in quanto limite del pensiero, non per sé pensabile, ma serve solo di punto d’appoggio al pensiero. Il termine, un termine qualunque, dice, è il limite del pensabile. Dice “per sé non pensabile”: una parola potremmo pensarla fuori da un concetto, se non la metto dentro un sillogismo insieme con altri concetti? No. E torniamo a ciò che dicevamo tempo fa: che si pensa e si dice nulla. Tutti i termini, tutte le parole che si usano, sono nulla; sono qualche cosa se e soltanto se sono in una relazione: solo allora sono pensabili e pensate, sennò non c’è pensiero. Paragrafo 2. Il concetto come sistema infinito del pensiero. Il concetto, invece, come rapporto tra i termini, e cioè, vero e proprio pensiero, non può uscire da sé, chiuso com’è, mediante la sua determinazione, tra un termine e l’altro; e coincide non con una parte del pensiero quale si spiega nel sillogismo, bensì con la totalità del sillogismo, che è la sola realtà piena e concreta del pensiero. Né è un sillogismo (com’è chiaro dalla esposta teoria di questa perfetta funzione logica del pensiero) nel sistema dei molti sillogismi per cui il pensiero possa svolgersi; ma è il sillogismo unico che la mente possa pensare, come sistema infinito del pensiero attualmente pensato. È il sillogismo compiuto di Hegel, né più né meno. Un sillogismo, cioè, che si è integrato nelle sue parti, che non sono più separate né separabili, ma formano un tutto. Paragrafo 3. Confusione tra termine e concetto e origine grammaticale di essa. Nessun dubbio che l’origine dello scambio tra όρος e όρισμός nell’intendimento del concetto sia da ricercare I° nella confusione tra pensiero logico e linguaggio (onde tutta la logica derivata dall’Organo aristotelico è, com’è stato già più volte osservato, viziata da verbalismo); 2° nella empirica concezione meccanicista del linguaggio stesso. Questa sovrapposizione tra termine e concetto, dice, è colpa della linguistica, che separa le cose. Ci ha appena detto che όρος e όρισμός non sono separabili, concetto e termine non si possono separare: il concetto giunge al termine, e il termine senza il concetto è niente. Che si comincia a scorgere l’insostenibilità della concezione meccanicista suddetta, che risolve il discorso nelle parole, e considera ciascuna di queste materialmente distinta dalle altre, come segno di un elemento di pensiero; allora, venuta meno la divisibilità del discorso nelle parole,… Qui c’è un attacco alla linguistica molto vigoroso, molto preciso. Sta dicendo che la linguistica scompone le parole, e presa poi la parola la analizza come se fosse fuori dal linguaggio /…/ viene a mancare ogni fondamento all’intuizione del concetto come elemento del pensiero. Per convincersi dell’insostenibilità di cotesta concezione basta infatti osservare empiricamente che ogni parola si dimostra significativa di un’idea soltanto se surrogabile da un discorso completo, ossia almeno da una proposizione che possa valere come un periodo. Ciò evidentemente vuol dire che una parola, in quanto è una parola, non è significativa; laddove la parola nell’unità di un contesto cessa, d’altra parte, di poter esser considerata come semplice segno (fissabile come un quid materiale) del pensiero, e s’immedesima col pensiero stesso. A questo punto non c’è più distinzione tra la parola e il pensiero o, come diceva prima, tra il termine e il concetto. Paragrafo 4. Critica della teoria della definizione. Dalla dottrina verbalista del concetto deriva la teoria classica della definizione, come giudizio convertibile col concetto, e pure distinto dal concetto stesso: quasi potesse possedere il concetto chi sia tuttavia alla ricerca della sua definizione. La parola, infatti, nella sua materialità (elemento del discorso), non è pensiero, e il concetto, che si presume corrispondente alla parola, non può perciò esser pensato. Se non è concetto, se non rinvia ad altro, non è pensabile, perché il pensiero è fatto di questo rinviare. Se non rinvia a niente, ma è lì immobile, sub specie æternitate, non è pensabile e, quindi, non lo penso. La comprensione d’un concetto, che dovrebbe esser data dalla definizione,… Di solito avviene così: la definizione dovrebbe consentire la comprensione di un concetto. …non è altro che il significato della parola: funzione lessicale, e non logica, e nella sua alogicità affatto assurda, non essendoci, per chi considera il linguaggio nella sua attuale concretezza, nessuna parola che abbia poi davvero un significato, ma essendoci solo pensieri; ciascuno dei quali, a considerarlo come un pensiero pensato, non può non presentarcisi come assolutamente unico, ossia sempre infinito. È chiaro che non posso non pensarlo come pensiero pensato, ma il fatto di pensarlo come pensiero pensato, dice Gentile, comporta il pensiero pensante: se è pensato vuol dire che c’è un pensiero in atto, un pensare. Paragrafo 9. Il concetto come l’essere pensabile. Il concetto logico, sottratto alla sua antica e volgare confusione col termine logico, raccoglie in sé tutto il pensabile, non come astratta forma dell’essere, bensì come l’essere stesso in quanto pensabile, quale ci si rivela nel pensiero che pensiamo. Come dire che nel concetto c’è tutto il linguaggio. Perché il concetto possa essere concetto, per essere pensabile, occorre che ci sia il linguaggio in toto. Esso è tanto l’intuizione empirica quanto la scienza o la filosofia. Tutto che si pensi, non può pensarsi se non come concetto, e risponde sempre alla gran domanda socratica: «Che cosa è?». E risponde, come s’è visto, con una parola, con un monosillabo, o con un trattato, con una serie di trattati, con una biblioteca, con tutte le infinite parole che, correndo per la distesa indefinita del tempo e degli spazi dove si possano immaginare parlanti e pensanti, il pensiero può adunare in un sol discorso, che snodi, fantasticamente raffigurato, l’universo scibile, sempre così contenuto, per vasto che sia, d’un attuale pensiero, come un determinato pensiero pensabile, che non può essere se non, come diceva Aristotele, il nesso di ciò di cui si parla e di ciò che se ne dice. Tutto lo scibile, tutta la scienza, tutta la filosofia tutto ciò è contenuto, per quanto sia vasto, nel pensiero attuale, in un unico pensiero, è già tutto lì. E questo non è nient’altro, come dice qui citando Aristotele, il nesso di ciò di cui si parla e di ciò che se ne dice, tra il dire e il detto. È questo nesso che costituisce la “garanzia” che lì c’è tutto il linguaggio. Non la parte, il pezzetto che sto considerando; no, tutto, perché anche se voglio considerarne un pezzetto, per considerare quel pezzetto mi serve tutto il linguaggio. Paragrafo 10. Valore e limite del concetto come forma del pensiero astratto. Pure in questa sua infinità o verità, il concetto non è più che materia del pensiero. La quale, se ha in sé quel tanto di vita che lo spirito le ha dato, come essere che pone se stesso (affermazione, negazione, disgiunzione, sillogisticamente, giusta tutta l’analisi che se n’è fatta), non ne può aver altra; né può crescere né diminuire, né può svolgersi, né entrare in quel divenire, in cui pure abbiamo visto consistere propriamente il valore, come libertà. La verità sta semplicemente nel fatto che il pensiero è in atto. Essendo in atto, chiaramente produce un pensiero pensato, che esiste in quanto lo sto pensando. Come dicevamo la volta scorsa, pensare un pensiero pensante lo determina come un qualcosa, e se lo determina come un qualcosa è un pensiero pensato. Ma il pensiero pensato come lo penso se non pensando? È ciò che vi dicevo prima rispetto al dire: il dire è sempre necessariamente in atto, e così il pensiero è sempre necessariamente in atto, non può non esserlo. Posso immaginare un pensiero che non c’è più, che era lì o che metto da qualche parte per riprenderlo dopo? No. Nel momento in cui faccio questa operazione lo sto già pensando. Non può, se quello stesso spirito che l’ha fatta, non la disfà; com’è suo costume. Quel costume che ognuno può sorprendere ingenuo e spontaneo nel fanciullo, che non fa se non per disfare; e spezza tutti gl’idoli in cui s’è un istante cullata la sua fantasia. Eterno insoddisfatto di tutte le cose, perché niente, che sia una cosa, pareggia l’infinita realtà che gli germoglia impetuosa di dentro; e pur volto sempre alle cose, e in esso distratto e distolto da ogni riflessione, poiché il soggetto vive nell’oggetto che genera e da cui si nutre, come il Kronos del mito, divoratore de’ suoi figli. Questo è interessante per quanto riguarda la volontà di potenza. Il fanciullo che deve disfare ogni volta ciò che ha costruito, perché non lo soddisfa, perché nel suo pensiero, nel linguaggio, c’è molto di più di quell’oggetto, di quella determinazione: nel concreto c’è molto di più dell’astratto; l’astratto è una determinazione che c’è nel concreto. È per questo che non è mai soddisfatto. È attratto, sì, dall’astratto, ma ne è attratto in quanto in quel momento immagina che l’astratto coincida con il tutto; salvo poi accorgersi che non è così, che il suo pensiero va ben oltre quell’astratto, per cui non è soddisfatto e distrugge, per costruirne un altro da qualche altra parte.
Intervento: Per farlo non rinuncia all’astratto…
Non può rinunciare in nessun modo, sennò non lo crea. Passiamo alla Logica del concreto, Capitolo I, Logo astratto e logo concreto, Paragrafo 3, Forma organica del logo astratto. Ma il giudizio non è possibile mai in realtà come un giudizio unico. Giacché tale unicità farebbe rinascere l’immediatezza naturale e la connessa impensabilità. È ovvio che il giudizio non è mai unico ma è un giudizio che ha il suo opposto, direbbe Hegel. Il giudizio afferma qualche cosa in quanto nega che questo qualche cosa sia ciò che non è. Il giudizio pensabile è relazione che si pone come esclusione della propria negazione: è doppia relazione, doppio giudizio, uno dei quali si pensa come vero per la sua opposizione all’altro dal quale non si può quindi disgiungere senza precipitare nell’impensabile. Siffatto organismo immanente al logico concepire è la deduzione a cui oscuramente guarda la sillogistica aristotelica, senza riuscire mai a definirla nettamente e impigliandosi perciò in una complicata rete di classificazioni empiriche desunte da un’osservazione meramente materiale delle forme estrinseche assunte dal pensiero nella sua empirica configurazione. Se questo doppio giudizio, questa doppia relazione io la separo, gli elementi così separati sono impensabili, perché sono unici, cioè non più in relazione: nella formula A=A, A non è più in relazione ad A, non è neanche più A, non è niente, perché per essere A deve essere A=A. Paragrafo 4. L’accusa di sterilità contro la logica dell’astratto. Il sillogismo è semplicemente dimostrativo; e come tale non può essere estensivo;… Cioè, dimostra, come diceva prima, all’interno di sé, non può andare oltre, non può andare fuori. … e se fosse estensivo, cesserebbe di adempiere a quella importante funzione che gli spetta, di dimostrare. Per dimostrare deve rimanere all’interno dei tre momenti del sillogismo che sappiamo. Paragrafo 5. Funzione dimostrativa del pensiero pensato. Dimostrare non è altro che questa riflessione interna di un pensiero stesso, la quale, mediandolo internamente, lo fa possedere veramente nella sintesi dei suoi elementi analitici. A = A, questo appunto è il pensiero, che non è né l’uno né l’altro A, ma la sintesi di entrambi nella loro distinzione,… Cioè: non è uno più l’altro, non è né l’uno né l’altro, ma è la relazione tra i due. …in quanto il primo si richiama al secondo e il secondo al primo: e in questo reciproco annodamento, che è la riflessione dell’essere su se stesso, consiste la determinazione del pensiero. È esattamente quello che diceva Hegel: l’essere è perché non è non essere. Perché l’essere sia essere occorre che non sia non essere; necessita di questo. Se rimane l’essere così, da solo, non è neanche pensabile, sarebbe l’essere di Parmenide, incoglibile, impensabile, ecc. Se lo voglio pensare devo pensarlo come quello che è, e perché sia quello che è occorre che ci sia il non essere in quanto negato. Al posto di A mettete l’essere degli Eleati, o l’idea di Platone, o l’atto di Aristotele, o l’uomo, o l’animale, o la stella, o la pietra, o l’aria, o un’enciclopedia, o un trattato scientifico, o un poema o altro che sia l’oggetto in cui si determina il vostro pensiero; e vi troverete sempre innanzi a un A = A, a un’interna mediazione, a una riflessione di una cosa su se stessa, onde la cosa diviene pensabile, e però effettivamente pensata, ed è pensiero. Potremmo aggiungere che solo a questa condizione è pensiero. S’intende bene che altro è l’atto onde il pensiero perviene al pensamento d’un dato oggetto, altro l’oggetto quale esso deve apparire intrinsecamente determinato, in quanto oggetto attuale dello stesso pensiero. Distinzione tra pensiero pensante e pensiero pensato. Il pensiero è pensare ed è pensato: ed il pensiero che pensa è tutt’altro dal pensiero che è pensato. Non sono la stessa cosa. L’apoditticità, o dimostratività (sinonimo di logicità nel più comune senso di questa parola), è la forma propria del pensiero pensato. Il pensiero pensato è il modo in cui appare, e non può non apparire, il pensiero quando lo pensiamo: appare come pensiero pensato, come astratto. Come dicevamo prima, non posso in nessun modo togliere l’astratto, non c’è la via per cui elimino l’astratto e mi fermo sul concreto; no, continua a dire, come già Hegel faceva, che se tolgo uno tolgo anche l’altro, se tolgo l’astratto tolgo anche il concreto. Paragrafo 7. Natura del pensato. Conviene piuttosto considerare – almeno qui, dove non ci è dato di approfondire questa questione del progresso proprio del pensiero – che, quale che sia la natura e la virtù del pensiero pensante, noi possiamo pensare, ossia realizzare questo pensiero pensante, solo a patto di pensare qualche cosa. Se penso, penso qualcosa; se dico, dico qualcosa. Cosa o persona che debba essere per noi l’oggetto del pensare, esso come oggetto del pensare è sempre cosa. Cosa è lo stesso atto del pensare in quanto lo oggettiviamo… Il pensiero pensante inventa, costruisce la cosa. La cosa non è altro che il pensiero pensante in quanto pensato: è una cosa, cioè, la cosa è questo. …e, presolo ad oggetto del nostro attuale pensare, lo contrapponiamo pertanto all’atto onde procuriamo di pensarlo, e siamo in via di pensarlo, e potremo credere una volta di averlo pensato. È chiaro che sfugge di mano la cosa, perché io posso anche dire di averlo pensato, ma lo sto dicendo adesso, lo sto pensando ora. Lo stesso atto del pensare si pone avanti a noi con certa sua pensabilità, com’e proprio di tutte le cose aventi un’essenza, che non è pensiero pensante ma pensiero pensato. L’atto del pensare, se lo penso, è pensiero pensato. Sicché non bisogna né prevenire né inseguire l’atto del pensiero, con cui tutti sentiamo di acquistare conoscenza nuove, scoprire, inventare, estendere l’ambito del nostro sapere, ampliare l’orizzonte del pensiero stesso. Basta entrare dentro allo stesso atto di chi pensa. Lì è il pensare; ma lì è pure ciò che si pensa,… Il pensare e ciò che si pensa. Abbiamo visto che non sono separabili: se penso, penso qualcosa, se non penso qualcosa non penso. Lì è il pensare; ma lì è pure ciò che si pensa, il pensiero pensato; e se questo non ci fosse, non ci sarebbe pensare; e però né anche il pensante. Se non ci fosse il pensiero pensato non ci sarebbe neanche il pensiero pensante; senza il pensiero pensato non penso. Ma pensando sono nel pensiero pensante, che tuttavia pensa il pensiero pensato. Lo pensa nel senso che, nel pensarlo, è già pensiero pensato. Il quale c’è, poiché appunto pensiamo: e c’è dunque il pensato, e non se ne può fare a meno. Non c’è dialettica che possa cancellarlo. In effetti, la dialettica non cancella – Hegel non l’ha mai detto – la dialettica integra (Aufhebung). Che è quello che fa anche lui: integra il pensiero pensante e il pensiero pensato, che, potremmo dire, costituiscono l’atto; atto che è sempre e necessariamente atto di parola e che è fatto di questo, di pensiero pensante e pensiero pensato. Paragrafo 8. Generazione del pensato dal pensare. Il pensare non presuppone nulla; e il pensato, assolutamente, presuppone il pensare. Proposizione difficile forse a intendere esattamente in tutta la sua universalità; ma alla quale non si possono fare eccezioni e restrizioni senza annullare di pianta ogni possibilità di pensare e condannarsi all’assurdo. Ma questo pensare genera dal suo seno il pensato, e vive in questa sua generazione, fuori della quale cesserebbe perciò di essere quell’attività che esso è. E basta questa eterna immanente generazione del pensato dal pensare per costringerci a convenire che una logica del pensiero non può fare a meno di una logica del pensato. Quando dice che il pensare non presuppone nulla sta dicendo che il linguaggio non presuppone nulla, cioè, che non c’è nulla fuori del linguaggio. Paragrafo 9. L’errore della logica dell’astratto. L’errore non consiste nell’assunzione di questa logica del pensato, ma nell’illusione che una tale logica possa reggersi in se stessa e rappresentare tutta la logica. Cioè, la sovrapposizione tra il pensato e il pensante, tra l’astratto e il concreto. Certo, essa è tutta la logica del pensabile, se per pensabile intendiamo ciò che si deve intendere a rigore, ogni possibile oggetto, semplice oggetto del pensare. Ma poiché il pensabile suppone il pensare,… Il pensabile qui sarebbe l’astratto, ciò che è pensabile, che quindi ho determinato: presuppone il pensiero. …la logica stessa del pensabile ne postula un’altra, che dal pensabile passi al suo presupposto, al pensare. E chi non avverta la necessità di questo passaggio scambia quello che io ho detto logo astratto pel logo concreto. Il quale non è altro che l’atto del pensare,… Il concreto è l’atto del pensare. Il concreto è l’atto, non è una cosa sta lì vicino all’astratto; no, il concreto è l’atto in cui l’astratto si dà, accade. …ossia il pensiero che solo effettualmente esista. Esista e abbia valore: che è un punto di grande rilievo, intorno al quale sono troppo frequenti e gravi gli equivoci. Ve la ricordate la lampada sul tavolo? Questa lampada che è sul tavolo è il concreto, dove non c’è nulla di determinato, di fissato, ma è una scena, è il mondo, direbbe Heidegger, dal quale però posso astrarre quello che voglio, nel caso specifico la lampada, per accenderla, p.es. Ma occorre che presupponga questo mondo perché possa anche soltanto vedere la lampada, concepire la lampada, sapere della lampada: tutto quel mondo deve già essere presente. Cosa molto simile a ciò che Husserl chiamava Lebenswelt, il mondo della vita, cioè tutte quelle cose che devo sapere per potere compiere anche una banalissima operazione. Anche una banalissima operazione, come avvitare una vite, richiede una serie di saperi che non so di sapere, semplicemente li metto in atto. Paragrafo 10. Che cosa è concreto. Esistente, così, non solo per l’uomo volgare, ma anche per la scienza positiva e pel criticismo, è ciò che è contenuto dell’esperienza: la quale non potrebbe percepire (intuire, dice Kant) questo suo contenuto, se non nelle forme dello spazio e del tempo: ed esistente sarebbe pertanto ciò che è nello spazio e nel tempo. Concetto inaccettabile per noi, che non sappiamo vedere un contenuto dell’esperienza fuori dell’esperienza; e pur mantenendo al suo contenuto il doppio carattere spaziale e temporale, questo carattere non possiamo attribuire alla stessa esperienza, al quale detto contenuto appartiene; e diciamo che l’atto dell’esperienza veramente esiste, e questo esistente non è quello (astratto) che è nel tempo e nello spazio, ma quello piuttosto dentro al quale hanno senso spazio e tempo, non potendo essere esso medesimo contenuto dentro limiti di sorta. Esperienza o pensiero (che è lo stesso), questo esiste: e quivi è assoluta, vera concretezza. È esattamente ciò che vi dicevo prima: il mondo di Heidegger, cioè, lo spazio e il tempo sono nel mondo, non sono entità che stanno da qualche parte, sono concetti.