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23 dicembre 2019

 

Fenomenologia dello spirito di G.W.F. Hegel – Volume Secondo

 

Siamo a pag. 124, capitolo III, La libertà assoluta e il terrore. Hegel dice: Nell’utilità la coscienza ha trovato il suo concetto. È una bella affermazione. Come dire che la coscienza trova il suo concetto, o significato, nell’utilità, nell’essere utile, nel reperirsi come utile. Cosa vuol dire: come utile? Che questa coscienza si reperisce come per altro, come essere per altro. L’utilità è tuttavia predicato dell’oggetto, non già soggetto essa stessa;… L’utilità è pensata ancora come un qualche cosa che è al di fuori e non come soggetto. Tenendo conto di ciò che intende Hegel con soggetto, e cioè di qualcosa che agisce, quindi, ciò che opera, ciò che fa, l’utilità posso pensarla o come oggetto, come qualcosa che è fuori di me, oppure pensarla in quanto me, per cui io sono l’utilità. Accade qui la stessa cosa che appariva per lo innanzi, quando l’esser-per-sé non si era ancora mostrato come la sostanza degli altri momenti; con che l‘utile null’altro immediatamente sarebbe se non il Sé della coscienza, e questa sarebbe così in possesso di lui. Quest’utile non è niente altro che il Sé della coscienza, vale a dire, ciò che la coscienza è di fatto. A pag. 125. …dell’esser-in-sé e per-sé dell’esser-in-sé è essenzialmente essere per altro;… È di questo che si accorge. …l’esser-in-sé, come ciò che manca di Sé, è in verità il Sé passivo o ciò che è il Sé per un altro. Questo è ciò che trova la coscienza nel momento in cui questo oggetto viene preso nel Sé; non che prima fosse fuori del Sé, ma diciamo che si accorge che è la stessa cosa, che io sono quella cosa lì. Ma l’oggetto è per la coscienza in questa forma astratta del puro esser-in-sé, da che essa è il puro atto dell’intellezione, le cui differenze sono nella pura forma di concetti. Ma l’esser-per-sé nel quale ritorna l’essere per altro, il Sé, non è un Sé diverso dall’Io, un Sé pertinente a ciò che ha nome oggetto; infatti, la coscienza come pura intellezione non è Sé singolo, cui sia di fronte l’oggetto medesimamente come proprio Sé;… Non sono due cose che si fronteggiano. …anzi, essa è il concetto puro, il guardare del Sé nel Sé, l’assoluto duplice vedere se stesso; la certezza di sé è il soggetto universale, e il suo sciente concetto è l’essenza di ogni effettualità. Cioè: di ogni cosa che accade. Si tratta sempre del fatto che ciascun momento, in ciascuna situazione, nel momento in cui mi rapporto a una qualunque cosa, a un qualunque oggetto, ciò che occorre non perdere di vista è che quell’oggetto sono io, non è altro da me, non è altro, direbbe Hegel, dal Sé, dall’intero, dal tutto, dal linguaggio. Quindi, questo oggetto non è altro dal linguaggio, ma se è linguaggio allora sono io e io sono linguaggio, né ho da cercare qualcosa al di fuori. Così è dato lo spirito come libertà assoluta; esso è l’autocoscienza che abbraccia se stessa, di modo che la sua certezza di se medesima è l’essenza di tutte le masse spirituali, e del mondo reale e di quelle ultrasensibili; o, viceversa, di modo che essenza ed effettualità sono il sapere di sé della coscienza. Dice essenza ed effettualità sono il sapere di sé della coscienza, e cioè questa essenza e questa effettualità non sono altro che la coscienza. …poiché la coscienza sola è in verità l’elemento nel quale le essenze e potenze spirituali hanno la loro sostanza, è crollato tutto il loro sistema già organizzatosi e conservatosi in virtù della divisione in masse, giacché la singola coscienza coglie l‘oggetto in modo ch’esso non abbia alcun’altra essenza all’infuori dell’autocoscienza stessa, e ch’esso sia assolutamente concetto. L’oggetto è assolutamente il concetto. Questa affermazione è forte e anche interessante. Lo aveva già detto in altre occasioni: l’oggetto non è altro che il sapere. È questo l’oggetto: il sapere. A pag. 127. …la coscienza non comincia il proprio movimento nell’oggetto medesimo come in un estraneo dal quale sia testé ritornata in se stessa; anzi l’oggetto è a lei la coscienza stessa;… Cioè: la coscienza non muove, come si suppone generalmente, da un oggetto che incontro, per cui c’è l’oggetto e parte tutto il marchingegno della conoscenza; no, dice, l’oggetto è a lei la coscienza stessa, sono sempre io. …l’opposizione consiste dunque solo nella differenza della coscienza singola e di quella universale; ma la stessa coscienza singola è a sé immediatamente ciò che aveva soltanto la parvenza nell’opposizione; è coscienza e volontà universale. L’idea è che la coscienza singola, la mia coscienza, non sia una coscienza universale. Cosa intende dire qui? Intende dire una cosa che è fondamentale in tutto il pensiero di Hegel, vale a dire, che io, sì, posso considerarmi in quanto singolo, posso farlo benissimo, ma occorre che tenga conto che io non sono altro che, per usare le parole di Heidegger, il mondo. Io, in quanto linguaggio, sono l’universale, sono il tutto, sono l’intero, non c’è altro al di fuori, io sono l’assoluto. Quindi, la coscienza non è più la coscienza del singolo ma diventa coscienza universale, cioè, potremmo dire così: la coscienza di essere il tutto, la consapevolezza di essere il tutto. A pag. 133. Nel mondo stesso della cultura l’autocoscienza non arriva ad intuire la sua negazione o estraneazione in questa forma dell’astrazione pura; anzi, la sua negazione è la negazione riempita; è o l’onore e la ricchezza che l’autocoscienza guadagna in luogo de Sé ch’essa estraniò da sé, - oppure il linguaggio dello spirito e della intellezione, a cui giunge la coscienza disgregata; o è il cielo della fede, oppure l’utile del rischiaramento. La fede o l’illuminismo. …la negazione del Sé è la morte priva di significato, il puro terrore del negativo che non ha dentro di sé niente di positivo, niente che lo riempia. Che cos’è che riempie? La questione va ripresa in modo più articolata, sennò si fa fatica a intendere bene. Ciò che sta dicendo è che se io pongo il negativo come qualcosa da eliminare, una volta eliminato, anche il positivo risulta mancante, cioè, non è più in grado di sostenersi, di essere quello che è. Vi ricordate quell’esempio preso da Severino: l’essere è e il non essere non è, ma perché l’essere sia incontrovertibilmente occorre che ci sia anche la proposizione che afferma che il non essere non è, in quanto tolta, certo, ma ci deve essere, cioè, devo negare la possibilità che non sia così. A questo punto, ecco che l’essere è incontrovertibilmente. Se io tolgo quella negazione - la tolgo nel senso che non ne tengo conto, semplicemente la elimino come se non esistesse - allora anche l’essere diventa una cosa vuota. Hegel dice che non è riempito, ma non è riempito nel senso che non si sostiene, non ha nessuna argomentazione che lo supporti. Ecco il terrore: il terrore di essere dispersi nel dire, nel linguaggio, che non ha nessun supporto che garantisca il mio dire. Mentre questo supporto, che garantisce il mio dire, è quella cosa che fa proseguire il mio dire all’infinito, e cioè questa distanza, e cioè la negazione che ritorna e, in quanto tolta, fa sì che la coscienza diventi, come dicevamo all’inizio, co-scienza, nel senso di una coscienza che è effettivamente consapevole di sé e non la coscienza, di cui parla nei primi capitoli, come l’immediato sensibile. È una coscienza che è tale in quanto ha preso possesso dell’autocoscienza, sa di sé. Quindi, a questo punto è coscienza consapevole di se stessa, ma per essere consapevole di se stessa deve avere tolto l’autocoscienza, il momento negativo. Una volta tolto, tolto in quanto integrato nella coscienza, la coscienza diventerà il Sapere assoluto, il Sapere del tutto, cioè, del linguaggio. A pag. 134. Così la coscienza sa la volontà pura come se stessa, e sé come essenza, ma non come l’essenza immediatamente essente; né sa la volontà come il governo rivoluzionario o come l’anarchia che fa di tutto per stabilire l’anarchia; né sa sé come centro d’una fazione  o della fazione opposta; anzi, la volontà universale è il suo puro sapere e volere, e la coscienza è volontà universale come questo puro sapere e volere. Chiaramente, lui viveva ai tempi della Rivoluzione Francese, poi di Napoleone, ecc. Dice che la coscienza si rende conto che la volontà è sua, ma finché non si pone come coscienza universale non si rende conto che questo volere fa parte di un tutto, di un intero; ancora non se ne rende conto e, quindi, non sa di essere volontà universale. Soltanto nel momento in cui si accorgerà con il Sapere assoluto di essere l’intero, allora la sua volontà diventerà volontà universale, cioè, volontà di tutti e ciascuno. C’è l’accorgersi che io sono io, certo, ma che io sono io, che io sono quello che sono in quanto risultato di migliaia di anni di lavoro da parte di altri e che continua a fare insieme con altri. L’autocoscienza è dunque il puro sapere dell’essenza come puro sapere. Essa inoltre, come singolo Sé, è soltanto la forma del soggetto o dell’operare effettuale, forma che vien da lei saputa come forma; similmente per l’autocoscienza l’effettualità oggettiva, l’essere, è senz’altro forma priva di Sé; ché tale effettualità sarebbe il non saputo; ma questo sapere sa il sapere come l’essenza. Un sapere che sa di se stesso, come essenza e non più come forma, più o meno vuota, di qualche cosa, ma sa questa coscienza di sé, come tutto ciò che c’è da sapere. Siamo a pag. 136, capitolo C., Lo spirito certo di se stesso: la moralità. Qui il sapere sembra finalmente esser divenuto del tutto eguale alla sua verità, perché sua verità è questo sapere stesso, e ogni opposizione dei due lati è sparita, e non per noi o in sé, ma per l’autocoscienza medesima. È per l’autocoscienza che scompare questa opposizione tra il sapere e la sua verità, come se ci fosse un’opposizione tra le due cose. Non c’è opposizione quando l’autocoscienza… quando questa opposizione diventa per l’autocoscienza, e cioè acquisisce un significato; ma lo acquisisce diventando altro da sé. Perché è poi questo il significato: l’autentico significato delle cose dice che ciascuna cosa è altra, in quanto l’autocoscienza, come opposizione alla coscienza, scompare e si integra nella coscienza, ma rendendo la coscienza sempre altra da sé. Quindi, il significato delle cose è di essere sempre altro da sé, per dirla in modo rapido. …l’autocoscienza è immediatamente presente nella sua sostanza; questa è infatti il suo sapere, è la intuita, pura certezza di se stesso;… Questa è la sostanza della coscienza: il suo sapere. La coscienza è fatta di sapere. Potremmo dire che il linguaggio è fatto di sapere e, dicendo questo, diciamo che qualunque cosa io produca, incontri, ecc., è sempre comunque un sapere; anche quell’oggetto cui mi rivolgo è un sapere. L’essenza assoluta non è quindi esaurita nella determinazione di essere l’essenza semplice del pensare… L’essenza assoluta - quella che riguarda il Sapere assoluto, quella essenza che in fondo ciascuno cerca – dice che non si esaurisce in una determinazione di essere l’essenza di qualche cosa. …anzi, essa è ogni effettualità. È qualunque cosa accada. …e questa effettualità è soltanto come un sapere:… Cioè: qualunque cosa accade, qualunque cosa sia, non è altro che un sapere. …ciò che l coscienza non sapesse non avrebbe senso alcuno, e non può costituire potere alcuno per essa; nella sua volontà permeata dall’atto del sapere si è ritratta ogni oggettività, si è ritratto ogni mondo. Essa è assolutamente libera dappoiché sa la sua libertà; e appunto questo sapere la sua libertà è la sua sostanza, il suo fine e l’unico suo contenuto. La questione della libertà per Hegel è importante. Tenendo conto di quanto stavamo dicendo, cioè del fatto che qualunque cosa io incontri è un sapere, dice che questa effettualità è assolutamente libera perché sa la sua libertà. Sapere la sua libertà non significa altro che sapere a questo punto che non c’è nulla dell’effettualità, di ciò che incontro, che non sia io; perché soltanto se posso pensare che un qualche cosa sia fuori di me, allora su questa cosa non ho più nessun controllo, nessun potere, perché è fuori di me e, quindi, fa quello che vuole lei. La mia assoluta libertà sta nel prendere coscienza che ciascuna cosa che faccio, che incontro, che penso, è prodotta da me, dalla mia coscienza, che non esisterebbe se non ci fosse la mia coscienza; cioè, sono libero completamente da qualunque vincolo esterno a me. Questa è la libertà: non sono più vincolato a niente, che non sia il mio sapere stesso, cioè, la mia parola. A pag. 141. Qui affronta la questione dell’opposizione tra il puro pensare e la sensibilità della coscienza, cioè tra il pensiero e la sensibilità dei sensi. Sono cose in opposizione perché ciò che io penso non è necessariamente attinente alla mia sensibilità; almeno così si pensa generalmente, ma vedremo che per Hegel non è così. …il puro pensare è appunto tale coscienza per la quale e nella quale è questa pura unità; ma per lei come coscienza è l’opposizione di se stessa e degli impulsi. Qui già annuncia cosa sarà, e cioè di nuovo questo pensare e gli impulsi - potremmo dire la natura, per farla breve – sono pensati in opposizione anziché in unità tra loro, anziché come momenti di un intero, che deve integrarsi. A pag. 142. Anche questa unità (tra il pensare e la sensibilità) è un essere postulato; essa non c’è; ciò che infatti c’è è la coscienza o l’opposizione della sensibilità e della coscienza pura. Questa unità in quanto tale, se io la pongo fuori della coscienza, non c’è; ciò che c’è è la coscienza, è nella coscienza che intervengono queste opposizioni; queste opposizioni non sono fuori della coscienza. Ma anche, egualmente, essa non è un in-sé come il primo postulato, dove la libera natura costituisce un lato e la sua armonia con la coscienza morale cade perciò fuori di quest’ultima; anzi, qui la natura è quella natura che è nella coscienza stessa, e qui abbiamo a che fare con la moralità come tale, con una armonia che è quella propria del Sé operante; la coscienza ha dunque da attuare essa stessa questa armonia e da progredire costantemente nella moralità. Qui per Hegel si pone un problema, e cioè che la coscienza cerca di stabilire questa armonia tra la libera natura e la coscienza morale. In genere, non sono così in armonia i miei impulsi con la mia coscienza morale. Questa armonia, di fatto, è sempre da cercare, non è mai presente, non è mai qui. La moralità, infatti, è soltanto coscienza morale come l’essenza negativa,… ciò che non devo fare. …per il cui puro dovere la sensibilità ha soltanto un significato negativo ed è soltanto non conforme. Dice, per esempio: non devi assecondare i tuoi piaceri. Ma nell’armonia dilegua la moralità come coscienza… Questa armonia che dovrebbe integrare i due momenti. …cioè la sua effettualità, proprio come nella coscienza morale o nell’effettualità dilegua la sua armonia. Se io compio questa armonia allora non c’è più opposizione tra i due e, quindi, non ho più da seguire una cosa l’altra. La perfezione, perciò, non è realmente raggiungibile… Perché se in questa armonia dilegua la moralità come coscienza, vuole dire che ciò che permane è la natura. Il problema di tutto il pensiero occidentale è di fare in modo che queste due cose, gli impulsi naturali e la coscienza morale, vadano d’accordo; ma, dice Hegel, se andassero effettivamente d’accordo allora non ci sarebbe più la coscienza morale perché questa diventerebbe una effettualità, cioè, non sarebbe più una sorta di imposizione, non sarebbe più un negativo, un non dovere fare, perché non lo farei automaticamente e, quindi, scomparirebbe la coscienza morale. …ma da pensarsi solo come un compito assoluto, cioè come un compito che resta senz’altro compito. Compito che non deve realizzarsi, perché se si realizzasse scomparirebbe la coscienza morale. In pari tempo tuttavia il suo contenuto è da pensarsi come tale, che debba, senz’altro, essere, né rimanga un compito;… Cioè: non va bene che rimanga soltanto un compito; ci deve essere l’idea che questa armonia si possa raggiungere. …sia che in questa meta ci si rappresenti la coscienza interamente tolta, oppure no;… Si dovrà propriamente dire che la rappresentazione determinata non deve interessare né venir cercata, perché ciò porta a contraddizioni, - alla contraddizione di un compito che deve restare compito e tuttavia venir compiuto, di una moralità che non deve più essere coscienza, che non deve essere effettuale. Ma, ammesso che la moralità portata a compimento conterrebbe una contraddizione, ne verrebbe a soffrire la santità dell’essenza morale, e il dovere assoluto apparirebbe come qualcosa di ineffettuale. Dice che la moralità, portata a compimento nell’effettuale, conterrebbe una contraddizione. Dice che ne verrebbe a soffrire la santità dell’essenza morale. Che cosa viene a soffrire qui? Dicendo che ne verrebbe a soffrire la santità dell’essenza morale è come dire che se l’umano può raggiungere questa moralità assoluta, allora il dovere fare appare come qualcosa di ineffettuale, cioè, non si fa più, se è raggiunta non si fa più, non c’è più nessun dovere. È questo il paradosso che sta evidenziando Hegel. A questo punto volevo però leggervi alcune cose di Kojève (Introduzione alla lettura di Hegel), che riprende le cose appena dette. A pag. 282. Nell’atteggiamento dell’Auto-coscienza, il soggetto conoscente si riferisce a sé come a un oggetto conosciuto. Il Selbst-bewusstsein è necessariamente anche Bewusstsein, cioè coscienza dell’esterno, di qualche che è al di fuori della coscienza e che qui è d’altronde la coscienza stessa. Nell’Auto-coscienza l’Io di cui prendo coscienza è necessariamente, anche, un Gegen-stand, un oggetto esterno o cosa, che è posto di fronte a me e che io contemplo come un Sein, come un Essere statico e dato, che resta identico a se stesso, senza cambiare in seguito al fatto che di esso si prende coscienza, lo si conosce. Questo è l’atteggiamento comune. Tutto questo è incontestabile. Nessun filosofo ha pensato di descrivere il fenomeno dell’Auto-coscienza diversamente da come fa Hegel nella prima frase del passo citato. Le divergenze incominciano solo là dove si tratta di spiegare il fenomeno, di far comprendere come e perché avvenga che l’Io o il Soggetto possa riferirsi a se stesso come a un Oggetto, che l’Oggetto al quale si riferisce l’Io o il Soggetto possa essere questo stesso Soggetto. Qui Kojève ha individuato bene il passo che fa Hegel rispetto alla filosofia tradizionale, che ha sempre distinto soggetto e oggetto, res cogitans e res estensa; Hegel, per primo, ha detto che sono la stessa cosa, soggetto e oggetto sono lo stesso. La spiegazione di Hegel la conosciamo da lungo tempo. Egli ragiona nel modo seguente. Nell’Auto-coscienza l’Uomo si riferisce a se stesso come a un Oggetto. Io sono io: io (soggetto) sono io (oggetto). Perché l’Auto-coscienza sia una Wahrheit, una verità, cioè la rivelazione di una realtà, occorre che l‘Uomo sia realmente Oggetto. Perché l’Auto-coscienza sia una verità, occorre che, precedentemente, l’Uomo si oggettivi realmente. Anche qui è interessante perché mostra come perché ci sia la possibilità di oggettivare qualche cosa, cioè perché ci sia una realtà, occorre che ci sia questa distanza tra me e il mio dire, meglio ancora, tra il mio dire e il mio detto. Questa distanza è quella che consente la creazione dell’oggetto, cioè di qualche cosa che appare fuori di me. Mediante l’Azione negatrice del Lavoro che crea il Mondo umano della tecnica, oggettivo e reale quanto il Mondo naturale. E mediante l’azione negatrice della Lotta che crea il Mondo umano sociale, politico, storico, esso stesso reale e oggettivo quanto la Natura. Il Mondo tecnico e storico è opera dell’Uomo. Esso non esisterebbe senza di lui. È dunque propriamente di una realtà umana che si prende coscienza, prendendo coscienza di questo Mondo. E si prende coscienza di una realtà umana, di una Wirklichkeit, di una realtà-oggettiva, perché questo Mondo è reale e oggettivo, è un Sein (un Essere) quanto il Mondo naturale. La coscienza, che prende atto dell’esistenza del mondo, è questo mondo. Dunque solo prendendo coscienza della sua opera oggettiva, del prodotto della sua Azione che si mantiene nella Wirklichkeit, l’Uomo può diventare auto-cosciente, pervenendo, mediante questa coscienza a una verità nel senso proprio del termine. Cita poi un brano di Hegel: L’attività umana è precisamente il divenire di questo Spirito in quanto Coscienza (-esteriore). Dunque: ciò che questa Coscienza è in sé, essa lo sa-o-conosce a partire dalla sua realtà-oggettiva. Cioè: del farsi oggetto. Pertanto, l’individuo (umano) non può sapere-o-conoscere ciò ch’egli è fintanto che non si è portato alla realtà-oggettiva mediante l’Attività. È nel fare che l’umano trova la sua verità, la sua essenza, perché è soltanto nel fare che mette in moto ciò che deve muoversi. Il fare va inteso come il dire; è soltanto nel dire che c’è questa possibilità di produrre, produrre altro linguaggio, altre parole. A pag. 284. L’uomo è (esiste) solo nella misura in cui egli “sopprime dialetticamente” il Sein, l’Essere-dato. E questa “soppressione”, che conserva il soppresso sublimandolo, è la Tat (in tedesco: l’azione), cioè l’Azione umana della Lotta e del Lavoro che trasforma, cioè nega o sopprime, l’Essere-dato in quanto dato, ma lo conserva in quanto Essere prodotto dall’uomo, e, mediante questa “soppressione” cosciente e volontaria, lo “sublima”. Pensiamo sempre all’opera dell’uomo come al dire, al linguaggio. L’opera dell’Uomo è più umana (“spirituale”) della materia prima. È in quest’opera, in quanto Sein sublimato, umanizzato, che l’Uomo realizza se stesso. E solamente prendendo coscienza di quest’opera egli diventa veramente autocosciente, prende coscienza di ciò ch’egli è veramente e realmente, oggettivamente, giacché egli non è nient’altro di più della sua opera. Tenendo presente ciò che dicevamo prima: l’uomo non è nulla di più di quello che dice. È questa azione realizzata, oggettivata nella sua Opera e cosciente in essa di se stessa, quel che Hegel chiama Geist, Spirito. … Ora, è mediante la Scienza di Hegel che l’Uomo lo sa. … l’Uomo sa di essere Azione, e sa che l’oggetto al quale si riferisce è Opera sua. Sa dunque che questo oggetto è, in realtà, lui stesso, che conosce se stesso conoscendo l’oggetto. E soltanto così, nella e mediante la Scienza hegeliana, l’Uomo è veramente Selbst-bewusstsein, Auto-coscienza. Diventa autocosciente nel momento in cui si accorge che l’oggetto della sua conoscenza è sempre lui stesso; non può conoscere nient’altro che se stesso. Per quanto si sforzi di conoscere oggetti piccolissimi o grandissimi, di fatto, l’uomo sta sempre e soltanto conoscendo se stesso, cioè, il suo pensiero, la sua parola, il suo linguaggio. Prima di diventare Hegel o Uomo hegeliano, l’Uomo non è che Bewusstsein, Coscienza-esteriore. Vale a dire che, prendendo coscienza dell’oggetto, del Mondo in cui vive, non sa che di se stesso egli prende coscienza. Non lo sa, perché non sa ch’egli è la sua Azione, ch’egli è in questa sua opera, che l’opera è lui. Come dire che ciò che dico sono io; non nel senso che mi rappresenta, ma sono realmente io, non sono nient’altro che questo. E, non sapendolo, crede che l’opera o l’oggetto siano un Sein fisso e stabile, indipendente da lui: un Entgegen-gesetztes, un’entità opposta a lui. Quest’oggetto è quindi, per lui, un’entità determinata, fissa, immutabile; una forma plastica, concreta. Riconoscendosi così nell’opera, egli comprende dunque se stesso come una Bestimmtheit e una Gestalt (una certezza e una forma): l’Uomo è allora per se stesso una cosa fissa e data, avente qualità determinate e stabili. È quanto Hegel afferma nella terza frase del passo. Ora, dice Hegel nella prima parte della quarta frase, è precisamente così che l’Uomo si comprende nella Religione o nella Teo-logia. Egli contempla sé nella sua opera senza sapere che è opera sua;… Ricordate la questione centrale della religione. È per questo che Hegel si è occupato della religione. Ne parlerà ancora a lungo. Perché è proprio nella religione che l’uomo si contempla, contempla sé, ma senza prendere atto che sta contemplando in realtà sé mentre crede di contemplare Dio. Per questo è importante per Hegel questo passaggio attraverso la religione o la teologia. Torniamo a Hegel. A pag. 149, La distorsione. Nella concezione morale, da una parte noi vediamo la coscienza stessa produrre consapevolmente il suo oggetto; noi non la vediamo trovar l’oggetto come un estraneo, né vediamo l’oggetto divenire inconsapevolmente a lei; anzi la coscienza procede ovunque secondo un fondamento movendo dal quale essa pone l‘essenza oggettiva; essa dunque sa l’essenza come se stessa, perché sa sé come l’elemento attivo da lei prodotto. Sembra dunque pervenir qui alla sua quiete e al suo appagamento; ché appagamento può trovar soltanto là dove non ha più bisogno di procedere oltre il suo oggetto, più non procedendo questo oltre di lei. D’altra parte tuttavia, essa pone l’oggetto fuori di sé, come un al di là di sé. Ma questo in-e-per-sé-essente è anche posto come tale da non esser libero dall’autocoscienza, ma da essere, anzi, a disposizione di questa e per mezzo di questa. Quindi, nella concezione morale, ed è questo il motivo per cui se ne occupa, avviene questo fenomeno: la coscienza vede il suo oggetto, sa che lo produce, ma al tempo stesso lo pone come un qualche cosa che è al di fuori di lei, e quindi non riesce a mettere insieme le due cose, non riesce a integrarle. A pag. 150. Si meni per buona anzitutto la presupposizione che ci sia una vera coscienza morale, dacché immediatamente tale presupposizione non viene fatta in rapporto ad alcunché di precedente, e volgiamoci all’armonia della moralità e della natura, cioè al primo postulato. L’armonia deve essere in sé, e non per la coscienza effettuale; non deve essere presente, ché anzi la presenzialità è soltanto la loro contraddizione. Nella presenzialità la moralità è accettata come data, e l’effettualità è messa in una posizione tale da non essere in armonia con la moralità; ma la coscienza morale effettuale è una coscienza che agisce; nel che consiste appunto l’effettualità della moralità sua. Ma nell’azione stessa quella posizione è immediatamente spostata e distorta; l’agire infatti altro non è che l’attuazione del fine morale interiore, non è altro che la produzione di un’effettualità determinata dal fine, ovvero dall’armonia de fine morale e della stessa effettualità. Se io metto in atto questa moralità è sempre una moralità determinata in un certo modo, non è mai la moralità pura, assoluta. Quindi, se la metto in atto non è più la moralità assoluta, se non la metto in atto non pratico la moralità. A pag. 153. Se noi accostiamo questi momenti attraverso i quali la coscienza spingevasi avanti nel suo rappresentare morale, sarà chiaro ch’essa toglie di nuovo ciascun momento nel suo contrario. Essa parte da questo punto: che per lei la moralità e l’effettualità non armonizzano; ma poiché nell’azione è qui per lei la presenza di questa armonia, essa non fa qui sul serio. Nel momento in cui queste due cose non si armonizzano, nel momento in cui agisco, dice Hegel, è qui per lei la presenza di questa armonia, cioè, è per questo che lo faccio, per ottenere questa armonia. E neppure fa sul serio con questo agire, perché l’agire è qualcosa di singolo, mentre tanto alto è il fine suo: il bene supremo. Ma ciò è di nuovo soltanto uno spostamento e una distorsione della cosa, ché ivi altrimenti cadrebbero ogni agire e ogni moralità. Ovverosia la coscienza non fa propriamente sul serio son l’agire morale; anzi la cosa in sommo grado desiderabile, l’Assoluto, è che si realizzi il bene supremo e che l’agire morale si renda superfluo. Ecco la questione cui abbiamo già accennato prima, questa contraddizione: se io realizzo il bene supremo, l’agire morale non è più necessario; quindi, non c’è più nessun agire morale.