23-12-2015
È interessante in Derrida l’operazione nota come “decostruzione”. La decostruzione di cui parla consiste principalmente in questo: quando ci si rapporta in ambito teorico, ma non solo, a un concetto generalmente, si prende questo concetto e lo si utilizza in vario modo. Facciamo un esempio in ambito psicanalitico, per esempio la nozione di transfert, è un esempio, può essere qualunque cosa, questo concetto viene preso a seconda della scuola in cui uno si è formato, viene preso in base alla definizione che è stata data, cioè questo concetto non è più un problema, poi si può partire da ciò che si dice del transfert, aggiungere delle cose per modificare tutto quello che si vuole, però il “transfert” non è più un problema, c’è e basta. L’operazione che ha fatto Derrida, sulla scorta di Heidegger, è di reinserire all’interno di una teorizzazione il problema, cioè la domanda, come se in questo caso il “transfert” non fosse più un concetto psicanalitico ma un problema. Dire che è un problema significa che non solo non ci si accontenta della definizione che viene fornita, ma si mette in discussione tutto ciò che costituisce questo concetto e in particolar modo il suo utilizzo, quindi diventa un problema. L’operazione fatta da Derrida, torno a dire sulla scia inaugurata da Heidegger, è di riproporre concetti in generale del pensiero, potremmo dire, non più come concetti ma come problemi, cioè cose che occorre continuare a interrogare, che non possono essere dati per acquisiti e tutta l’opera di Derrida è stata un lavoro intorno alla decostruzione, e cioè prendere un elemento che è considerato dato, acquisito, come la “semplice presenza” di cui parlava Husserl, e interrogarlo come se fosse un problema. Questa, che può apparire una operazione astratta, in realtà è qualcosa di molto concreto. I suoi scritti postumi a questi che sono i primi come La grammatologia, La voce il fenomeno, La scrittura e la differenza, sono andati in direzione politica perché questa operazione è quella che consente, di fronte a delle situazioni che sono considerate degli stati di fatto, stati di cose, consente di rimetterli in gioco. Un esempio è l’utilizzo del petrolio come fonte di energia, viene considerato come una cosa normale, naturale, non un problema, nel senso che nessuno pone un problema rispetto a questo, mentre per gli umani, per la tecnologia che c’è oggi sarebbe possibile utilizzare altro come fonte di energia, ma questo non si fa perché è impedito da interessi economici. Questi interessi economici delle compagnie petrolifere e di tutti gli annessi e connessi è ciò che la “decostruzione” di questo concetto dell’uso “naturale”, tra virgolette, del petrolio porta invece a prendere in considerazione, e cioè perché stiamo facendo questo, cioè stiamo utilizzando il petrolio, come fonte di energia? Perché? O ancora un’altra cosa banalissima come la crisi economica, che è sorta un po’ di anni fa, oggi passa come qualche cosa di normale, di inevitabile, non è più un problema. L’intento di Derrida sarebbe invece quello di reintrodurre la questione non come un evento capitato così, ma come un problema, un problema da affrontare, da intendere quali sono gli elementi che sono intervenuti a mettere in atto una cosa del genere, a chi giova una cosa del genere eccetera. Quindi vedete che la decostruzione di cui parla Derrida non è un processo astratto, la sua “decostruzione” porta a questo e non è soltanto la decostruzione come abbiamo visto del concetto di semplice presenza di Husserl, quindi della percezione eccetera, ma questo ha dei risvolti, delle implicazioni nel quotidiano di tutto. Quando mette in discussione il concetto metafisico di “presenza” mette in discussione non soltanto un qualche cosa che riguarda cose dei filosofi o cose astratte che non hanno nulla a che fare con la vita quotidiana, mette in discussione, cioè tematizza, pone come un tema ma da affrontare, ciò stesso che costituisce la base sulla quale ciascuno si muove, si orienta, pensa, fa o non fa e in che modo lui mette in discussione la metafisica della presenza, che è uno dei capisaldi del pensiero metafisico quindi occidentale? Perché la metafisica possa operare nel modo in cui opera occorre che muova da qualcosa che c’è, se c’è è presente, è lì, lo vedo, quindi la presenza come ciò che è presente qui e adesso, ma Derrida muove una obiezione a questo: toglie l’attimo, il presente dall’ambito metafisico, almeno ci prova, dicendo che ciò che intendiamo con “presente” è tale solo in relazione al passato e al futuro, come dire che il presente ha nel passato o nel futuro il suo riferimento, soltanto in relazione a queste due istanze possiamo dire che qualcosa è presente, e allora la presenza non è più qualcosa di semplicemente lì, presente a se stesso. L’idea originaria di qualcosa semplicemente presente a se stesso era la voce interiore, se vi ricordate, di Husserl, qualcosa che io mi dico tra me e me nel dialogo interiore, dove ciò che dico è immediatamente presente in me, adesso, perché ne ho l’esperienza, perché lo sto pensando. Ma se questo costituisce un po’ la matrice del presente, di ciò che si presenta qui e adesso, per Derida questo non è più semplice, non è più così puntuale, Derrida inserisce degli elementi in più che rendono questa puntualità differita, cioè una cosa è presente in quanto è sempre rapportata a qualche cos’altro, rapportato per esempio al suo significato, cioè anche il qui e ora per Derrida è un segno, se è un segno è un rinvio, quindi ciò che è presente adesso, mi appare presente adesso solo perché di fatto non è presente adesso, ma sarà presente tra un momento, quando l’avrò colto, l’avrò inteso, ma anche quel momento, a sua volta essendo un segno, sarà differito a un altro momento. Per questo dice che non c’è percezione, perché ciascuna volta la percezione, come una qualunque cosa è sempre differita a ciò a cui questa percezione, essendo segno, si riferisce; si riferisce a un’altra cosa la quale sarà riferita a un’altra cosa, da qui il differimento infinito, se il differimento è infinito la percezione non coglierà mai la cosa perché per poterla cogliere deve fermare questa corsa infinita e porsi invece come finitezza, qualcosa di finito. Tutto questo ha portato Derrida a una decostruzione totale, nel senso che essendo qualunque cosa inscritta in un segno porta con sé inesorabilmente questa cosa, differita rispetto a sé, porta sempre con sé questa differenza da sé, nel senso che questo, se è tale sempre un, per usare le parole di Heidegger “in vista di” un’altra cosa, questo spazio che c’è tra una cosa e l’altra che di fatto non è niente è soltanto appunto un differire, la famosa “differance” questo spazio è muto, non dice niente perché non ha niente da dire, eppure è la condizione perché io possa dire di ciascuna cosa che è quella che è. È soltanto la ri-presentazione che mi dà la certezza dell’esistenza della prima e anche dell’identità della prima, quindi si è trovato ad accostare questa cosa che chiama “differance”, con la “a” anziché con la “e”, come scrivono generalmente i francesi quando scrivono in modo corretto, accostarlo in un testo dice lui. In un testo scritto non c’è soltanto la scrittura, ci sono gli spazi bianchi tra una parola e l’altra, c’è la punteggiatura, c’è la virgola, c’è il punto, c’è un a capo, tutte queste cose non hanno voce, non si dicono. Gli spazi tra una parola e l’altra non si dicono, cioè non hanno una parola, sono muti, sono quel silenzio, quel niente da dire che costituisce per Derrida la condizione stessa del dire, del parlare, cioè il parlare è fatto di queste cose che non hanno niente da dire. Lui porta tutto questo anche alla parola, potrei dire: “però quando non scrivo e parlo …” quando non scrivo e parlo mi trovo nella stessa situazione, dove ci sono comunque degli spazi vuoti, spazi vuoti determinati dalla differenza fra ciò che dico e ciò che voglio dire, fra ciò che sto dicendo e ciò che avrei detto, questo continuo differire è ciò che impedisce di dare alle cose un significato perché questo significato, esattamente per lo stesso motivo per cui non è possibile la percezione, non è possibile neanche lui, non è possibile neanche il significato perché è differito all’infinito. Sono cose che avevamo già viste però qui Derrida le espone in un modo che comunque consente di ri problematizzare ancora la questione, dunque non c’è la possibilità di stabilire un significato perché è sempre differito, ciò che Derrida tuttavia non prende in seria considerazione è che se, come abbiamo già detto tante volte, le cose stessero esattamente così come dice lui, queste stesse sue parole non potrebbero dire nulla di ciò di cui lui vuole dire, cioè di fatto non starebbero dicendo niente. È così? Non è così? La questione rimane aperta, ma rimane tuttavia il fatto che comunque si trova a dire delle cose che sono grosso modo quelle che voleva dire dicendo che non c’è la possibilità di fermare un significato, dicendo questo, lui ferma un significato. Ciò di cui Derrida non tiene conto è qualche cosa che invece è presente per esempio in Greimas, vi ricordate nella Semantica strutturale quando si occupa della semiosi, cioè della produzione di senso, di significato, muove dal fatto che esiste un elemento, lui lo chiama il “nucleo semico” che è grosso modo la definizione nei termini che fornisce il dizionario, al quale si agganciano dei semi contestuali, i semi contestuali insieme al nucleo semico formano il semema. Ma il semema è appunto l’effetto di significazione di un discorso, di una serie di parole accostate fra loro in un certo modo, ma perché tutto questo possa avvenire, cioè questo processo di significazione, è necessario che ci sia il nucleo semico da cui parte, senza questo nucleo semico i semi contestuali sono contestuali a che? A niente. La presenza del nucleo semico è la condizione perché possa avviarsi quel processo di semiosi attraverso i sememi, l’organizzazione di sememi eccetera e quindi produrre un discorso, un racconto. Quindi per Greimas, anche se lui non lo dice in modo così esplicito, il nucleo semico è la condizione della produzione di significato, cioè un elemento che deve essere quello che è, cioè il nucleo semico, una definizione qualunque, quella del dizionario, dà avvio a un processo di semiosi. Anche altri hanno posta la questione, lo stesso Nietzsche quando diceva che la verità è un’illusione che tuttavia deve esserci per potere continuare il gioco, il problema in effetti se dobbiamo proprio porlo come un problema, è che se qualche cosa non viene posto come identità e cioè come qualche cosa che è quello che è il gioco non si avvia, cioè non si parla. Anche Derrida, dopo tutto quando afferma una qualunque cosa non può non affermare implicitamente che quella cosa è qualche cosa, se quella cosa è qualcosa allora è quello che è, appunto qualche cosa. Non c’è più differimento in questo caso? Parrebbe di no, se qualche cosa deve essere quella che è non può differire, perché differendo non è più quella che è ovviamente. Cioè per potere differire da un elemento a un altro occorre che l’elemento da cui differisce sia già quello che è, lui invece dice che l’elemento da cui si muove diventa quello che è in un percorso di ritorno, e cioè la percezione è tale nel momento in cui io rappresento qualcosa, e questa rappresentazione, cioè questa ri-presentazione di qualche cosa mi presenta ciò che doveva essere il primo elemento ma che di fatto non esiste, perché se non ci fosse il secondo elemento non esisterebbe neanche il primo. Ci troviamo di fronte a due posizioni apparentemente contrarie: l’una che dice che se non c’è un elemento che è identificato non è possibile avviare nessun gioco, non è possibile quindi un rinvio perché se questo elemento non è identificato il secondo differisce da che cosa? Differisce in tutte e due le accezioni cioè non essere identico e anche di spostamento, si sposta da che se non è identificato? E l’altra è quella di Derrida che invece dice che è soltanto il secondo elemento cioè la ri-presentazione che letteralmente consente al primo di essere presente. Quale delle due ci piace di più? Perché a questo punto è di questo che si tratta, sembra strano ma è così, perché vedete entrambe le posizioni sono costruite da argomentazioni ovviamente, prevalentemente da inferenze “se questo allora quest’altro” se questo si presenta la seconda volta allora vuol dire che il primo da sé non è presente se il secondo non lo ri presenta”, sono tutte argomentazioni fondate prevalentemente su inferenze come accade nelle argomentazioni. Ora tutte queste argomentazioni si reggono su che cosa? Cioè fanno affidamento su che cosa? Sul fatto che un’inferenza conduca a qualcosa di certo. Per tutte queste inferenze si fondano sulla fiducia posta da ciascun parlante nel sistema inferenziale, senza il quale nessuna di queste conclusioni potrebbe essere tratta, né l’una né l’altra. Da dove viene questa fiducia così sconfinata nel sistema inferenziale? Qualcuno potrebbe dire “beh perché non ce ne sono altri” è un buon argomento ma non basta, non basta dire che è solo perché non ne abbiamo altri a disposizione, questo non garantisce assolutamente niente e in effetti non c’è nessuna garanzia, semplicemente ci troviamo presi in un gioco che non possiamo neanche dire che ci trascenda perché senza il parlante questo gioco non si gioca oppure potremmo anche dire che ci trascende volendo. Usando però sempre argomentazioni, altre inferenze, delle quali continuiamo ad avere fiducia perché ogni volta che diciamo delle cose, se giungiamo a una conclusione, per esempio quella di Derrida che dice che è soltanto dal secondo elemento, cioè dalla ripresentazione che qualcosa si presenta, per dire questo abbiamo avuto fiducia nelle argomentazioni, non tanto in quelle di Derrida, ma nell’argomentare stesso, cioè nella capacità di un’argomentazione di giungere a una conclusione accoglibile. Sembra che tutto si giochi sull’estrema fiducia dei parlanti nel sistema inferenziale, o comunque in un sistema logico che è quello del linguaggio, della sua struttura, quindi al punto in cui siamo potremmo affermare che tanto la posizione di Derrida quanto quella, diciamo quella di Severino, entrambe queste posizioni sono accettabili, sono corrette, sono inferenzialmente valide, sono vere? Sì, possiamo anche dire che sono vere, nessuno ce lo vieta, ma tutte queste argomentazioni cosa fanno esattamente nel momento in cui si articolano? Costruiscono sequenze, costruiscono sequenze a partire da delle premesse che sono state accolte, ma accolte per che cosa? In base a che cosa? Soltanto per potere giocare? Parrebbe di sì, visto che qualunque premessa di fatto rinvia a un’altra premessa, quindi potrebbe anche darsi che non troveremmo mai la prima premessa, anzi per alcuni non la troveremmo mai. Quindi ciò che fanno queste argomentazioni è costruire dei giochi linguistici al solo scopo di costruire giochi linguistici, si tratta in definitiva di un gioco, di un gioco senza fine, il gioco che noi stiamo facendo è un gioco sì, particolare certo, è un gioco che interroga se stesso nel suo giocare, che chiede al gioco stesso “ma tu come giochi?” come fai a giocare? cosa metti in campo per giocare? Quali sono le tue pedine, quali sono le tue regole? Quali sono le mosse che consentono di giocare cioè di costruire giochi linguistici? È quello che stiamo facendo, vedete, la posizione di Derrida è sicuramente suggestiva e ha avuto anche un notevole influsso in tutto il pensiero, almeno quello più recente, molte cose per esempio della teoria di Verdiglione vengono in parte da Derrida, quella sorta di infinitizzazione del significato, di rinvio all’infinito del significato viene da lì, lo stesso Verdiglione ha colto senza volere, senza sapere, perché non c’è traccia nei suoi scritti, che comunque in questo spostamento c’è un punto di arresto, quando parla del passo e del piede. Il passo comporta lo spostamento, il piede la fermata, qualcosa si ferma in questo spostamento, in questo differimento infinito qualcosa deve potere fermarsi perché in effetti se così non fosse non ci sarebbe neanche la possibilità di affermare il differimento continuo, per poterlo affermare è necessario che queste parole “differimento” e “infinito” abbiano un significato, cioè siano delimitate, siano determinate, se ciascuna di queste due parole “differimento” e “infinito” fosse effettivamente un differimento infinito di significato queste due parole si svuoterebbero di significato e non sarebbero più utilizzabili. Ciò che ci interessa particolarmente sono i modi in cui Derrida affronta le questioni, le tematizza, le pone come tema da affrontare, le problematizza. Moltissime domande, moltissimi quesiti, moltissime riconsiderazioni di cose che appaiono già considerate meritano di essere considerate ancora, perché questo gioco è infinito, e non possiamo non farlo. Un gioco che è il gioco dei giochi, è il gioco che interroga il giocare stesso nel momento in cui si sta giocando e chiede conto di come fa a giocare, come dicevo prima, quali sono le mosse, le pedine, quale cosa è consentita e cosa no, quindi potremmo dire che è vero che il processo di semiosi, d’altra parte lo diceva già Hjelmslev, che il processo di semiosi è infinito, possiamo dirlo e anche con buone argomentazioni, il problema rimane sempre che per poterlo dire è necessario che non sia infinito e cioè che qualcosa sia determinato. Occorre che io determini, stabilisca un nucleo semico, occorre un nucleo semico per potere avviare un processo semiotico quindi quel nucleo semico deve essere determinato, la domanda che si porrebbe Derrida è “chi lo dice?” perché deve essere determinato? Chi lo dice? Qui il problema va affrontato in un altro modo, non è tanto chi lo dice, quanto il fatto che se non lo faccio non posso giocare, è come se gli chiedessi “chi è che dice che questa carta è un re di fiori?” “noi” lo abbiamo deciso per potere giocare a poker, ma di fatto non c’è nessuno che possa affermare con assoluta certezza, metafisicamente, che quella carta è un re di fiori, non significa niente. Infatti Peirce diceva “la prima cosa da fare è intendersi sulla definizione, se non ci intendiamo su quelle è inutile che parliamo perché ognuno prenderà la sua strada e non ci incontreremo mai da nessuna parte”. Ci troviamo di fronte a una situazione tale per cui sembra che non ci sia più nulla, in questo, seguendo in parte Derrida, nulla che possa dare un valore se non, questo lo diceva già Nietzsche, se non io stesso, sono io che devo dare un valore alle cose mano a mano che procedo, come gli do valore? Fermando un elemento, dicendo “questo è questo”, il discorso metafisico intende un’operazione trascendentale, nel senso che “questo è questo” in virtù del suo essere, in virtù del fatto che questa cosa è quella che è perché c’è un essere che fa di quella cosa quella cosa che è, se no non sarebbe quella cosa che è senza un essere. Oppure posso considerarlo semplicemente come un mezzo per continuare a giocare, come si fa con le carte da gioco, cioè io dico che quella cosa è così, cioè do un valore allo scopo di potere giocare, ma a questo punto dove si situa la volontà di potenza? Non è forse proprio in questo? Nel momento in cui io decido che una certa cosa è quella, in quel momento metto in atto una volontà di potenza, dico come sta il mondo, anche se non lo faccio propriamente, però è come se dicessi come sta il mondo, come stanno le cose cioè, tu sei questo, tu sei questo e tu sei quest’altro e ciascuno di voi non è altro da quello che è. In questo modo sto organizzando il mondo, per potere continuare a giocare. Se non facessi questo non potrei continuare a giocare con le cose, cioè con le parole, e se non posso giocare con le parole, letteralmente non posso parlare, perché parlare è mettere continuamente in gioco le parole, farle giocare le une con le altre. Ciò che occorre sapere per non essere totalmente ingenui è sapere che si sta giocando, e che qualunque determinazione io attribuisca a una parola e quindi anche a una cosa questo lo faccio e non posso non farlo per potere giocare con quella cosa, con quella parola. Quando lui Derrida scrive la Grammatologia e usa questo termine “grammatologia” di cui dà anche una definizione, questa cosa è quella cosa lì, per lui non è un’altra, cioè per potere utilizzare questo significante “grammatologia” deve attribuire a questo significante un significato che è quello ed è quello in quanto è determinato ed è determinato in quanto esclude che sia altra cosa da questa. Dunque l’invito è ovviamente a continuare a giocare e, come dicevo prima, il gioco è senza fine, è la sua bellezza, e anche l’occasione per potere continuare a giocarlo certo ma continuare a giocarlo con la consapevolezza di ciò che si sta facendo, e cioè si sta “semplicemente” continuando a giocare perché non possiamo smettere. È possibile farlo o consapevolmente oppure ingenuamente, il modo ingenuo è quello di pensare che le cose sono quelle naturalmente, oppure utilizzare la determinazione di un certo elemento facendo finta di non farlo, come fa Derrida, più o meno consapevolmente, perché per potere usare la parola “grammatologia” deve determinarla cioè darle un significato, una definizione, e quindi da quel momento in poi ogni volta che interviene questa parola sarà sempre utilizzata in quella accezione, cioè sarà identica a sé, se è un’identità che non può togliersi, perché altrimenti “grammatologia” ha un significato a pagina 5, e un altro a pagina 10 e quindi non si sa più come utilizzare, cioè come giocare con questa parola. Ricordavo prima di Greimas: il nucleo semico deve essere quello che è per potere avviare una produzione semiosica. Ma questa cosa che fa Derrida, questa operazione che descrive, che vedremo nella “Grammatologia” è importante perché è come se richiamasse ogni volta le persone dicendo “guardate che le cose vanno problematizzate, il fatto che ci sia la crisi economica non è una cosa che va da sé, è qualcosa che giova a qualcuno” accoglierla così come un fatto, un evento naturale è un modo ingenuo, da sprovveduti. In conclusione, tutte queste costruzioni sono possibili grazie alla fiducia sconfinata che ciascuno di noi ha, inevitabilmente perché non possiamo farne a meno, del sistema inferenziale, fiducia che se le nostre deduzioni sono corrette la conclusione deve essere quella a partire da quella premessa e questa è l’ossatura, lo scheletro del gioco. è il sistema inferenziale, lo scheletro di questo gioco che chiamiamo “gioco linguistico” del quale dobbiamo fidarci. Ha ragione Nietzsche, lui parlava della verità ma è la stessa cosa, diceva è “un’illusione”. Anche questo sistema inferenziale è un’illusione, ma dobbiamo fidarci per potere continuare a giocare, se no smettiamo di giocare e siccome non lo possiamo fare perché siamo travolti dalla volontà di potenza, allora non possiamo che avere una fiducia sconfinata in questa illusione che chiamiamo “sistema inferenziale”. Va bene, buon Natale.