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23-12-2014

 

La volta scorsa Heidegger giungeva a considerare che l’essere è quanto di più determinato e al tempo stesso quanto di più indeterminato, e dicevo che questo non è lontano dalla questione che posi qualche tempo fa rispetto alla parola e al segno, lui giunge a quella considerazione attraverso un percorso prettamente metafisico, mentre io vi ero giunto attraverso la logica e attraverso la semiotica in buona parte, e quindi non solo con riferimenti ma anche con conclusioni leggermente differenti dalle sue, comunque sia, vediamo di leggere ancora qualche cosa. Si domanda a proposito dell’essere, vi ricordate? Considerava l’essere come un flatus vocis, come un nulla, come qualcosa che di fatto non ha nessun interesse però poi dice che non è proprio così, e infatti si chiede “l’essere è solo una parola?” cioè se togliamo l’essere, togliamo questa parola, visto che non serve a niente e questo sulla scorta di Nietzsche per esempio e dice): Sarebbe solo una parola di meno della nostra lingua? No. Se togliamo l’essere non ci sarebbe allora in generale alcun linguaggio, non succederebbe più affatto che nelle parole l’essente si schiudesse come tale, e cioè che potesse essere evocato e discusso poiché dire l’essente come tale significa comprendere anzitutto l’essente come essente, vale a dire il suo essere. Supposto che noi comprendiamo per nulla l’essere, supposto che la parola essere non avesse nemmeno quel significato evanescente ebbene in tal caso non ci sarebbe più assolutamente alcuna parola. Noi stessi non potremmo essere in alcun modo dei dicenti, non potremmo in alcun modo essere quello che siamo poiché essere uomo significa essere uno capace di dire, l’uomo è uno che dice di sì o di no solo perché è nel fondo della sua essenza un dicente, è il dicente, questo costituisce la sua distinzione e in pari tempo la sua miseria, essa lo distingue dalla pietra, dalla pianta, dall’animale ma altresì dagli dei … eccetera, volendo pertanto gettare uno sguardo retrospettivo su quanto è stato fin qui detto le cose ci si presentano nel modo seguente con lo stabilire in primo luogo come dato di fatto questa cosa, parola priva di nome, (non lo nomina l’essere ancora), cioè che l’essere non è per noi che una parola vuota di significato evanescente, abbiamo abbassato l’essere e lo abbiamo conseguentemente declassato dal suo vero rango, per contro il fatto che noi comprendiamo l’essere, anche se in un modo indeterminato, ha per in nostro “esserci” il più alto valore in quanto vi si manifesta una forza nella quale si fonda tutta la possibilità essenziale del nostro esserci, non si tratta di un fatto qualunque ma di qualcosa che per il suo peso esige la più alta valutazione, a patto che il nostro esserci che è sempre qualcosa di storico non rimanga per noi qualcosa di indifferente, d’altronde anche perché il nostro esserci possa rimanere per noi un’entità indifferente occorre comprendere l’essere, senza questa comprensione non saremmo neanche in grado di dire di no al nostro esserci. (questo che sta dicendo è importante perché incomincia a porre la questione in termini tali per cui se non ci si apre al porsi storicamente nel mondo, “storicamente” cioè tenendo conto del domandare ovviamente perché è di questo che si tratta, di una domanda che è sempre e comunque posta e da porre ininterrottamente, se non avviene questo allora l’uomo non è niente, dice addirittura che l’uomo non è neanche un dicente perché per potere dire occorre potere affermare, per potere affermare occorre che qualche cosa appaia, occorre che qualche cosa si mostri (φανεσθαι) in greco l’apparire di qualche cosa, questo apparire non c’è se non c’è l’esserci, l’essere nell’accezione che indicava prima e vale a dire un dischiudentesi permanere, cioè qualcosa che permane. L’essere è questo permanere, questa permanenza che consente di potere affermare quindi dire, perché se dico, dico qualcosa e questo qualcosa occorre che permanga, che sia. Ora lui prosegue e critica la questione delle scienze che continuano a considerare l’essere come un oggetto, cioè fanno della metafisica, ecco qui continua a dire, ponendoci la questione che l’essere sia la cosa più degna di discussione) Porci in tal modo la domanda noi compiamo il passo decisivo da un fatto indifferente e dalla pretesa vacuità di significato della parola “essere” ci conduce all’avvenimento più degno di essere discusso sia al fatto che l’essere si schiude necessariamente nel nostro comprendere (che è ciò che dicevo prima cioè senza l’essere non c’è comprensione, non c’è comprensione perché se qualcosa non appare, si svela a un certo punto, si mostra potremmo dire per quello che è, se non c’è questa apertura dunque, per cui l’ente cessa di non essere e senza questo non c’è comprensione perché non c’è nulla da comprendere, assolutamente niente. Ciò che a noi interessa è questo aspetto, e il motivo per cui stiamo considerando queste cose e cioè l’idea di Heidegger che per comprendere, per potere parlare, per potere esistere, così come si intende comunemente l’“esistere”, perché tutto questo possa darsi occorre che qualcosa permanga. Si dischiude qualche cosa in questo apparire, cioè uscire dal non essere, ma di fatto la cosa che lo interessa è che anche per lui occorre che permanga qualche cosa, qualche cosa si ponga, senza questo non c’è comprensione ed è il motivo per cui diceva che l’essere è anche la cosa più determinata e anche indeterminata, perché dal nulla va verso il nulla, ma ne parlerà tra poco quando dirà dell’essere e del divenire – fa alcuni esempi, l’essere come un edificio, come una casa, come un accidente qualunque:) L’essere dell’edificio che si trova laggiù non è anch’esso qualcosa e dello stesso genere del tetto e della cantina, non vi è dunque alcuna cosa che corrisponda al parola e al significato di essere (tutte le cose che sono, sono enti) non dobbiamo però concludere che l’essere consista solo nella parola e nel suo significato, in realtà il significato della parola non costituisce, in quanto significato, l’essenza dell’essere. Sarebbe come dire che l’essere dell’essente ad esempio l’edificio da noi considerato consiste nel suo significato verbale (perché l’essere non è il significato, il significato è una cosa verbale, l’essere no per Heidegger. Se avesse considerato l’essere come un segno linguistico non avrebbe fatto metafisica ma semiotica. Non so se Heidegger conoscesse la semiotica, non mi risulta, comunque non ha importanza) Ora ritenere ciò sarebbe visibilmente scorretto, piuttosto noi intendiamo, vediamo la parola essere attraverso il suo significato l’essere stesso (cioè il significato della parola “essere” rinvia non a un segno ma all’essere.) Solo che esso (l’essere stesso) non è per niente una cosa, intendendo per “cosa” un essente qualsiasi (ovviamente se no sarebbe un ente, un essente appunto) ne consegue che in ultima analisi nella parola essere considerata nelle sue modificazioni in tutta la sua estensione linguistica, parola e significato risultano connessi in maniera più originaria a ciò che essi designano ma anche il contrario, l’essere stesso è legato alla parola in un senso del tutto diverso e più essenziale di qualunque altro ente. (per mostrare questo parlerà fra breve della parola antica, della parola dei greci, la parola originaria) La parola “essere” si rapporta in tutte le sue modificazioni all’essere che viene detto in modo essenzialmente diverso da come tutti gli altri verbi e sostantivi si rapportano all’essente che in essi è detto (sta dicendo che quando si pronuncia la parola “essere” questa parola si rapporta a ciò che viene detto cioè all’essere in modo totalmente differente, cioè non è la stessa cosa del modo in cui altri verbi si rapportano all’ente, alla cosa. L’essere non è un ente, è un altro modo per dirlo) Ne viene di rimando che le spiegazioni fornite circa il termine “essere” sono di tutt’altra portata delle varie considerazioni che è possibile fare sull’uso delle parole della lingua nei confronti di qualsiasi altra cosa, anche se per ciò che concerne la parola “essere” sussiste una particolare connessione originaria tra la parola, il significato e l’essere stesso, mentre la cosa, l’ente per così dire manca (noi parliamo dell’essere ma non c’è in questo dire intorno all’essere nessun ente, la cosa per così dire manca, la cosa, l’ente) noi dobbiamo ritenere per questo che l’essenza dell’essere stesso si lasci ricavare dalla semplice caratterizzazione del significato della parola, nel significato stesso della parola “essere” lì c’è l’essere ma non come una determinazione verbale di qualche cosa ma come qualche cosa che è al di fuori della parola (ora dopo questo excursus aggiunge ancora qualche cosina) qualunque possa essere l’interpretazione risultante dai singoli esempi addotti circa il modo di dire “è” (ha fatto prima una serie di esempi: Il cane è in giardino. Dio è. La terra è. Rosso è, poi altre cose: Quest’uomo è della Svezia. Tutti i modi in cui l’“è” acquisisce dei significati ciascuna volta differenti … Semioticamente potremmo dire a seconda del gioco linguistico all’interno del quale è inserito. Se dico che quell’uomo è della Svezia, questo “è” è diverso dall’“è” per esempio dell’affermazione “la terra è rotonda”.) Qualunque possa essere l’interpretazione risultante dei singoli esempi addotti circa il modo di dire “è”, una cosa risulta chiara nell’ “è” l’essere ci si dischiude in molteplici guise, l’asserzione a prima vista così ovvia che l’essere sia una parola vuota, ci si rivela di nuovo e ancora più efficacemente come falsa (perché se ogni volta determina cose diverse è ovvio che non è vuota) ma si potrebbe tuttavia replicare che l’essere viene inteso veramente in guisa molteplice (come direbbe la semiotica) la ragione di ciò non risiede affatto nello stesso “è” ma dipende unicamente dalla varia portata degli enunciati i quali riguardano ognuno, quanto a contenuto, enti diversi: dio, la terra, la coppa, il contadino, il libro, la carestia, la pace sulle cime (quindi contrariamente a quanto dice la semiotica, e qui c’è la linea di demarcazione fra la metafisica e la semiotica: ogni volta questo “è” direbbe la semiotica cambia di significato a seconda del sistema linguistico in cui è inserito, Heidegger invece dice che non è così perché tutte queste cose rispetto alle quali la “è” cambia significato sono enti non si riferiscono all’essere,) è solo perché l’ “è” rimane in se stesso indeterminato e vuoto, per questo può cambiare significato, quanto al suo significato che può prestarsi a un uso così svariato e riempirsi e determinarsi secondo ogni caso. La varietà dei significati specifici proposta prova per conseguenza il contrario di ciò che doveva dimostrarsi, essa denota solo nella maniera più chiara che l’essere deve essere indeterminato per essere determinabile. (che è una notazione abbastanza acuta in effetti: quando dice “la terra è, dio è, questo è svedese eccetera” tutti questi “è” sono riferiti a un ente, non dicono dell’essere propriamente, come diceva lui “si riempie e si determina secondo ogni caso la varietà dei significati specifici proposta prova per conseguenza – che cosa? – il contrario di ciò che doveva dimostrarsi – perché l’essere varia, è mutevole a seconda dei modi in cui lo si impiega – ma “essa denota solo nella maniera più chiara che l’essere deve essere indeterminato per essere determinabile” – e cioè questo essere per potere determinarsi in quanto essere, deve potere apparire negli enti, nelle cose, è lì che trovo l’essere “se so interrogare” aggiungerebbe) Che cosa si può replicare? Entriamo qui nell’ambito di una questione decisiva, le perviene una tale molteplicità di significati in ragione del contenuto via via trasmessogli dalle singole frasi o per meglio dire dalle singole sfere alle quali essere si riferiscono oppure “le” cioè a dire l’“essere” cela in se stesso quella molteplicità di significati il cui plesso rende possibile che noi facciamo accessibile l’essente nella sua verità com’è di volta in volta? (Questa è la domanda che si pone, ve la rileggo perché è importante “le perviene a una tale molteplicità di significati in ragione del contenuto via via trasmessogli dalle singole frasi? “L’“essere” cela in se stesso quella molteplicità di significati il cui plesso rende possibile che noi ci facciamo accessibile l’essente nella sua varietà com’è di volta in volta l’ente, possiamo accedere all’ente in tutte le sue varietà perché questo ente è debitore dell’essere?” Perché l’ente è, se l’ente non è, è nulla, quindi l’ente per potere essere percepito, per potere esistere, per poterlo descrivere, per dire che quella casa è quella cosa, che dio è, che la terra è, che Cesare è di Torino, tutti questi enti non potrebbero … sarebbero non enti cioè ni-ente se non ci fosse l’essere a garanzia, quella che in altre occasioni chiamava “φύσις”. Adesso considera i vari aspetti dell’essere cioè delle cose che si aggiungono generalmente all’essere, lui dice all’essere in genere si attacca qualche cosa “l’essere è qualche cosa”. Parla di essere e divenire, che sono i due capisaldi del pensiero, Parmenide, Eraclito tanto per intenderci) Questa distinzione, contrapposizione, sta al principio dell’indagine sull’essere, ancora oggi essa costituisce la più comune delimitazione dell’essere mediante qualcosa d’altro, (che cosa limita l’essere? Il non essere, e il non essere è altro dall’essere, abbiamo l’essere e l’altro dall’essere) in quanto risulta immediatamente da una rappresentazione dell’essere cristallizzatasi in evidenza banale, ciò che diviene non è ancora, ciò che è non abbisogna più di divenire, (se è, che cosa addiviene a fare?) ciò che è l’essente ha lasciato ogni divenire dietro di sé, ormai è divenuto o ha potuto divenire (si dovrebbe dire “è potuto divenire” comunque non importa) ciò che autenticamente è resiste altresì a ogni impulso del divenire, (se una cosa autenticamente è non ha più bisogno del divenire, in questo senso “resiste a ogni impulso del divenire” se è, è già compiuto) in una visione grandiosa degna dell’assunto Parmenide vissuto tra il VI e il V secolo ha messo in luce in forma di pensiero poetico l’essere dell’essente in contrapposizione al divenire. Il suo poema didascalico ci è pervenuto sotto forma di frammenti … (questo è Parmenide:) “Resta ormai solo il discorso della via sulla quale si rivela l’essere com’è, su questa via ci sono molte cose che stanno ad indicarlo come l’essere senza nascere né perire se ne sta tutto intero solo e del pari senza timore in sé senza essere stato portato a compimento, esso (l’essere) non fu in passato e nemmeno in futuro poiché come presente esso è tutto in una volta, unico, unificante, unito da sé, in sé raccogliendosi, capace di tenere insieme colmo di presenzialità.” Queste poche parole si ergono con la maestosità delle statue greche … quel che viene detto a partire dall’essere sono dei “semata” non già dei contrassegni dell’essere né dei predicati ma quanto nel riguardare verso l’essere ce lo mostra in se stesso a partire da sé, (questo è importante, per Heidegger il fatto che “l’essere si mostra a partire da sé” e non da qualche altra cosa, ogni tanto oscilla e Severino glielo fa notare: perché ci sia l’essere occorre che ci sia un ente altre volte sembra che possa darsi anche l’essere senza l’ente, come per esempio in questo caso appare che l’essere si dia senza l’ente, tant’è che dice “non dei contrassegni dell’essere né dei predicati ma quanto nel riguardare verso l’essere ce lo mostra in se stesso a partire da sé” - non a partire dall’ente – ma da sé) per potere avere una tale visione dell’essere occorre infatti rimuovere da lui ogni nascere, ogni perire prescindere nel senso attivo di allontanarli con lo sguardo, eliminarli – non nasce, non muore, non fa niente – ciò che con οδέ viene tenuto lontano non è della misura dell’essere, la misura è tutt’altra, possiamo da ciò inferire che l’essere si mostra a questo dire come la solidità propria dello stabile in sé raccolto immune da turbamento e da cangiamento, (questo è l’essere di Parmenide ovviamente) ancor oggi quando si espongono le origini della filosofia occidentale si usa contrapporre a questa dottrina di Parmenide quella di Eraclito, da lui proverrebbe la frase frequentemente citata πάντα ε (tutto scorre) per conseguenza non vi è alcun essere tutto è divenire (però dice qui Heidegger che non è proprio così secondo la sua interpretazione del testo di Parmenide e di Eraclito, di fatto entrambi più o meno dicono la stessa cosa, perché lui dice che non si deve interpretare la dottrina del divenire di Eraclito nel senso del darvinismo attuale) l’opposizione di essere e divenire non si è mai più presentato in maniera così esclusiva come nel dire di Parmenide, in questa grande epoca il dire dell’essere dell’essente ha in sé medesimo l’essenza nascosta dell’essere di cui si parla, è in si fatta necessità di carattere storico che risiede il segreto della grandezza, per ragioni che appariranno più chiare in seguito ci limitiamo per ora a porre questa prima antitesi “essere e divenire” (ora parla di essere e apparenza) questa distinzione è altrettanto antica quanto la prima da me menzionata, il carattere ugualmente originario delle due suddivisioni “essere e divenire” “essere e apparenza” denota l’esistenza di un più profondo rapporto che permane ancor oggi celato (dunque dice che questa seconda distinzione “essere e apparenza” va colta però nel suo autentico contenuto per fare questo ecco che bisogna rifarsi alla parola greca, dice poi che questa distinzione “essere e apparenza” ci è abituale è una cosa molto semplice, dice “una cosa è oppure appare?” È così o sembra che sia così? La cosa più banale che ci sia. Poi fa distinzioni: l’apparenza come splendore, come rilucere, l’apparenza “il parere come apparire”, l’apparenza come pura apparenza cioè sembrare) per comprendere questa intima connessione di - essere e apparenza- interamente l’essere in maniera ugualmente originaria vale a dire come l’intendevano i greci, già sappiamo che l’essere si schiude ai greci quale φύσις – ciò che è la natura, ciò che è lì, ciò che sta – “lo schiudentesi permanente imporsi” (ricordate la definizione che da) è nel medesimo tempo in se stesso l’apparire che si mostra. Le radici “fu sa” designano la stessa cosa φειν “lo schiudersi” che riposa in se stesso e φανεσθαι “il risplendere”, “il mostrarsi” “l’apparire”, tutti quegli aspetti determinati dell’essere che nel corso della nostra esposizione, in conseguenza al nostro riferimento a Parmenide, siamo andati via via citando. Sarebbe nel contempo istruttivo illustrare l’efficacia denominativa di questa parola (stiamo sempre parlando dell’essere) alla grande poesia dei greci, basti per esempio riferirsi a Pindaro per il quale il φυ costituisce la determinazione fondamentale dell’esistenza, cioè a partire dal φυ e per via di esso, è in tutto e per tutto il più potente, φυ designa quello che è uno e già originariamente o/e autenticamente ciò che è in quanto già stato, a differenza dalle opere e dalle azioni che si producono in seguito con sforzo deliberato, essere è la determinazione fondamentale di ciò che è nobile e della nobiltà ossia di ciò che ha per sua essenza un’altra origine e riposa in essa, è con riferimento a ciò che Pindaro conia la massima “γενοι οος σσι μαθν”, “possa tu apprendendo riuscire quello che sei” (che non è il “conosci te stesso” di Socrate, anche se sembra evocarlo in qualche modo, “possa tu apprendendo, riuscire quello che sei” – se sono, cosa devo riuscire? Se sono già. Però dice:) questo stare in sé non significa altro per i greci che “starci” (sarebbe il suo “Dasein”, “stare alla luce” che significa “uscire dall’oscurità” cioè “apparire”) essere significa “apparire” quest’ultimo non è qualche cosa di accidentale (l’apparire, qualche cosa che abbia a che fare qualche volta con l’essere, qualche volta l’apparire ha a che fare con l’essere, qualche volta no) l’essere è come apparire, il passo decisivo che si tratta ora di compiere sulla base di una concezione più adeguata dell’essere inteso alla maniera dei greci, deve valere a schiuderci la comprensione dell’intima connessione esistente fra essere e apparenza, si tratta di formarci l’idea di una connessione che per quanto propriamente greca in origine ha avuto notevoli influssi sullo spirito occidentale, l’essere è come φύσις lo schiudentesi imporsi” è apparire, (cioè sta dicendo che le cose che aveva attribuito all’essere adesso le sta attribuendo all’apparire, perché anche l’apparire è uno “schiudente imporsi”) l’apparire conduce all’evidenza … Questo già implica che l’essere, l’apparire conduca fuori dal nascondimento (è questo ciò a cui vuole giungere Heidegger ,e cioè l’essere come ciò esce dall’ombra, esce dall’oscurità, dal nascondimento, difatti la verità la pone come disvelamento “λήθεια) per il fatto che l’essente come tale è, esso si colloca e permane nella non latenza, (se l’essente è qualche cosa, è perché è innanzi tutto e quindi perché è uscito dalla non latenza, cioè dal non nascondimento, appunto “αλήθεια”) tradurre questa parola “αλήθεια” con verità significa in pari tempo sconsideratamente fraintenderla, è vero che ora si comincia un po’ alla volta a tradurre la parola greca alla lettera ma ciò serve a ben poco se si ricomincia subito dopo a intendere “verità” in un senso del tutto diverso spacciandolo per quello del vocabolo greco, i greci concepiscono infatti l’essenza della verità unicamente in accordo con quella che è per essi l’essenza dell’essere la “φύσις”, solo basandosi sulla peculiare connessione essenziale di “φύσις” e “αλήθεια” i greci possono dire “l’essente è in quanto essente vero” e cioè la “φύσις” è quello che è perché si esce dal nascondimento, e di rimando il vero in quanto tale è essente, ciò significa che quello che si mostra imponendosi sta nella non latenza (ciò che si mostra e si impone sta nella non latenza essendo nella non latenza è vero, essendo vero è, o viceversa) la verità come non latenza non è qualcosa che si aggiunga semplicemente all’essere (l’essere ha tante cose e anche questa no) la verità (αλήθεια) appartiene all’essenza dell’essere (cioè si appartengono le due cose, non c’è l’una senza l’altra) l’essere essente (significa l’essere qualcosa, qualcosa) comporta i seguenti significati: pervenire all’evidenza, prodursi nell’apparire, proporsi, produrre qualcosa; non essere significa per contro ritrarsi dall’apparizione, dalla presenza. L’apparizione nella sua essenza comporta l’entrare e l’uscire, l’in e il fuori da, nel senso autenticamente mostrativo, manifestativo, quest’ultimo è ciò che in ragione della sua prossimità e continua accessibilità si impone qua e la, dappertutto, in quanto “apparente” si dà a vedere, δκει (dokei) δόξα significa “considerazione” (qui introduce un nuovo elemento δόξα, la traduzione opinione, infatti c’è l’agenzia δόξα che attraverso i suoi schedari mostra qual è l’opinione comune) dunque “δόξα” significa considerazione, la considerazione di cui uno gode (qui si rifà all’accezione greca del termine, antica) …. nel caso che tale considerazione in relazione a ciò che si mostra in essa si riveli eccellente, un bravo uomo, un nobile, δόξα acquista il significato di lustro, gloria (sempre per i greci antichi) nella teologia ellenistica e nel nuovo testamento δόξα θεο è la magnificenza di dio, il glorificare, il fatto di attribuire considerazione e manifestarla per i greci ha il valore di porre in luce, procacciare con ciò la stabilità, l’essere (come dire, il dare stabilità, il dare luce, il dare fama eccetera, e dando tutte queste cose si dà l’essere, è come quando si dice “riconoscere qualcuno”, lo si fa esistere, lo si fa essere, si riconosce di essere, di esistere) la gloria non è per i greci qualcosa di semplicemente accessorio ma costituisce la modalità dell’essere più eccelso, per la gente d’oggi non è più oramai da gran tempo che la celebrità, una cosa come tale assai dubbia, un’acquisizione diffusa e profusa qua e là dai giornali, dalla radio, quasi l’inverso dell’essere, quanto a Pindaro se per lui glorificare costituisce l’essenza della poesia, poetare significa essenzialmente porre in luce (badate bene, “poetare” come porre in luce, cioè fare dischiudere l’essere) ciò non è da attribuirsi al fatto che per Pindaro la rappresentazione della luce abbia un’importanza particolare ma unicamente al fatto che egli pensa e opera eticamente come un greco all’interno cioè dell’essenza dell’essere assegnatagli. Ci siamo proposti di fare vedere come per i greci all’essere competa l’apparire o più esattamente come l’essenza dell’essere stia anche nell’apparire in che modo, lo si è visto a proposito della gloria e del glorificare ossia della più alta possibilità riservata all’uomo così come lo concepiscono i greci, gloria si dice “δόξα(non soltanto opinione ma gloria nell’accezione che indicava prima). Δοχω significa “mi mostro” “appaio” “vengo in luce”. La considerazione di cui uno gode resta qui in base soprattutto al vedere e all’aspetto, viene desunta piuttosto dall’udire e dal richiamare un’altra parola greca usata sempre per “gloria” χλες, in base a questa parola “gloria” risulta la rinomanza di cui uno gode (è rinomato per una serie di cose) dice Eraclito “una cosa soprattutto scelgono i più nobili: la gloria, che permane stabile di contro a ciò che muore, la massa è invece sazia come le bestie. Quanto sopra deve essere comunque accompagnato da una riserva che in pari tempo denota l’essenza intima della cosa, “δόξα” è la considerazione di cui uno gode e in senso più largo quello considerevole che ogni essente cela e svela nel suo aspetto, nel suo mostrarsi, mostrarsi εδος, δέα. Una città presenta un aspetto, una vista grandiosa, l’aspetto che un essente racchiude dentro di sé e che può quindi presentare solo di propria iniziativa si lascia poi sempre cogliere da questo o da quel punto di vista. L’aspetto è sempre quello che noi cogliamo, ci formiamo in base alla nostra esperienza, al nostro commercio con l’essente vien fatto sempre riformarci nelle vedute particolari del suo aspetto e delle sue idee (insomma dice che opiniamo continuamente e opiniamo semplicemente, “supporre” si dice in greco δχεσθαι, il supporre come assunzione è sempre collegato all’offerta dell’apparire eccetera, ora dice) siamo giunti al punto che volevamo la ripresa dell’essere come φύσις.