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23 novembre 2022

 

L’inizio della filosofia occidentale di M. Heidegger

 

La domanda dell’essere dell’ente è la domanda. Qualunque domanda, dalla più banale alla più astrusa alla più sofisticata, è domanda dell’essere dell’ente. È la domanda che ciascuno fa ininterrottamente: che cos’è questo? va bene fare questo? questo è bello? questo è buono? si fa o no si fa? ecc., tutto questo domandare comporta necessariamente il domandare dell’essere dell’ente, cioè, se le cose stanno così. È la domanda per eccellenza. Ciascuna domanda, che ciascuno si fa miliardi di volte al giorno, è una domanda dell’essere dell’ente: come stanno le cose? come sono? è così o è cosa? mi vorrà bene o non mi vorrà bene? ecc. Heidegger si accorge dell’importanza dell’essere, vale a dire, dell’apertura – per Heidegger l’essere è un’apertura. L’essere lo si trova facilmente, dopotutto. Nel momento in cui sappiamo che l’essere è ciò che dà all’ente la sua enticità, cioè fa essere l’ente quello che è, quindi il suo significato, ci incamminiamo lungo questa via e, allora, accade quello che dice Anassimandro, e cioè che questo significato, se lo consideriamo attentamente, non è altro che l’πειρον, l’infinito. Dunque, il significato non è determinabile, cosa che si può porre anche in modo molto semplice, basti pensare alla formula banalissima A è B. Quindi, A è B, ma B? Visto che B mi dice che cosa è la A, dovrò pur sapere che cos’è la B, e come lo vengo a sapere? Chiaramente, con la domanda dell’essere dell’ente, dove in questo caso l’ente è B, qual è il suo significato. Vengo a sapere che il significato di B è C, e allora ecco il cattivo infinito che parte, cioè, non saprò mai che cos’è A. Ovviamente, anche se pongo la formula dove anziché B metto un’altra A: (A è A), anche in questo caso è la seconda A che deve determinare la prima, ma se la seconda deve determinare la prima, è chiaro che non sarà la prima, in quanto se fosse la prima non avrebbe avuto bisogno di un’altra per potere determinarsi. E, quindi, di nuovo chiedo conto della A: la A, questa seconda A con cui determino la prima, che cos’è? Sappiamo che non è la prima, ché se lo fosse non avrebbe bisogno di essere determinata. Questo, riassunto in poche parole, in modo estremamente semplice, almeno così mi appare, il problema del linguaggio: per dire qualche cosa devo dirne un’altra, inesorabilmente. Questo ha dei risvolti, naturalmente, dei corollari, delle implicazioni, il primo è che non saprò mai cosa dico. E qui aveva ragione Platone: si tratta sempre di un credere di sapere, di un δοξάζειν. E come posso credere di sapere? Non c’è niente di più semplice, basta che non interroghi niente e allora posso credere di sapere. Da qui i divieti di Platone e Aristotele di non domandare oltre, se si domanda oltre è la catastrofe. Dopotutto, anche la teoria dei tipi di Russell è la stessa storia, è un divieto. La domanda dell’essere dell’ente, pur essendo la domanda che ciascuno fa ininterrottamente, propriamente non ha risposta. Qual è l’essere dell’ente? Qual è il significato del significante? πειρον, risponderebbe Anassimandro. E, allora, torniamo a dire che la prima cosa che appare immediata è che quando parliamo non sappiamo, né possiamo sapere, di che cosa stiamo parlando. Possiamo credere di sapere ma alla condizione che dicevo prima, di cessare immediatamente di interrogare. Ecco perché per Heidegger è così importante la questione del domandare, della domanda. E, infatti, dice che è nel domandare, è nella domanda che noi troviamo l’essere, con questa domanda noi vogliamo sapere ciò che non potremmo sapere, e lì troviamo l’essere, l’πειρον. Ma occorre la domanda dell’essere dell’ente per accorgersi di questo, altrimenti non ci si accorge di niente. A pag. 132. L’essere insomma non è mai e in nessun luogo rinvenibile tout court, quindi va cercato – ovvero appreso tramite la domanda –… L’essere è nella domanda, nel domandare. E la forma più immediata in cui un tale domandare in genere inizia consiste nella domanda: che cos’è l’ente? Una domanda che ne implica già un’altra: che ne è dell’essere? In questo modo l’essere viene posto anticipatamente in questione, il cercato viene formato in quanto tale, e per la precisione come ciò di cui ne va quando a essere in gioco è l’ente in quanto ente. È questo che è in gioco: la domanda dell’essere dell’ente. Solo ed esclusivamente in virtù di questo domandare originario l’essere diviene ciò di cui ne va prima di ogni e per ogni ente. Qui c’è una questione alla quale avevamo accennato tempo fa. Heidegger continua a mantenere una separazione tra essere ed ente, una separazione che in alcuni casi non è ben definita, non è così certa; lui parla di differenza ontologica, lì chiaramente c’è una differenza, una distinzione, ma ciò che gli sfugge è che essere ed ente sono due momenti dello stesso, non si possono separare in nessun caso. Mentre, secondo lui, già in Essere e tempo, quando compare l’essere, la radura, che rischiarandosi consente di vedere le cose, la loro presenza, queste cose si fanno presenti ma scompaiono, scompare l’essere. Non che propriamente scompaia, l’essere è sempre presente, ma è sempre presente come l’indeterminabilità di ciò che mi appare: è lì che c’è l’essere, sempre πειρον. Solo nella misura in cui l’essere perviene a una comprensione siffatta l’ente in quanto tale si trova autorizzato a essere ciò che è. Come dire molto più semplicemente: soltanto quando il significante è provvisto di significato è autorizzato ad essere significante, sennò non significa niente. A pag. 133. Resta indubbiamente da prestare attenzione al fatto che, affinché l’essere venga trovato, è già sufficiente che anche solo si domandi dell’essere. Perché è nella domanda che c’è l’essere, non è da qualche altra parte. Questo apprendere tramite il domandare, in quanto tale, fornisce il reperto essenziale; e l’essere rimane un ritrovamento siffatto solo nella misura in cui e fintanto che la domanda dell’essere permane. (L’essere vien scoperto – poetato – formato). Solo finché le cose stanno così “sì” (l’essere) dà essere! Benché per l’appunto una tale domanda possa “permanere” anche in quanto non domandata (non più espressamente domandata). Apprendere l’essere tramite il domandare significa anzitutto domandare: “Che cos’è l’ente in quanto tale?”. Questa è la domanda fondamentale: che cosa sono le cose? In questo domandare l’uomo si trattiene perla prima volta presso di sé, e in tale trattenersi-presso-di-sé va espressamente incontro a ciò che, nell’atteggiamento del domandare, gli si fa incontro. Perché presso di sé? Perché l’uomo stesso è un ente e, quindi, si chiede che cos’è un ente, che cosa sono io. Sono ente, certo, ma che cos’è un ente? L’essere-uomo diviene ora l’ex-sistente uscire da sé verso l’ente in quanto tale. Domandandomi dell’ente, che io sono, devo uscire da me. Il modo più semplice e più appropriato per intendere questo è che ciascuna volta che io domando costruisco una relazione; la domanda è verso qualcosa, si aspetta qualche cosa da qualche cos’altro. Si potrebbe dire, ma per il momento la poniamo solo come ipotesi, che ogni dire è un domandare. Il domandare dell’essere è l’atto fondamentale dell’esistenza;… Sempre nell’accezione di ex-sistentia, cioè, per dirla nei termini che usa in Essere e tempo, essere pro-gettato, gettato fuori, sempre. Che è quello che accade quando si parla: ciascuna cosa che si dice viene pro-gettata fuori verso un’altra parola, cui si rivolge. Teniamo sempre conto di ciò che diceva Platone: λέγειν τί, dire qualcosa, κατά τίνός, su qualche cos’altro, è sempre un rinviare su qualche cos’altro. Il domandare dell’essere è l’atto fondamentale dell’esistenza; con questo domandare inizia la storia dell’uomo in quanto uomo esistente. Con questo domandare l’uomo trae dall’essere (e dall’essenza) il fondamento e la misura delle cose, acquistando il coraggio e il potere di se stesso. Questo domandare, in quanto domandare, costituisce il riconoscimento originario della dignità dell’essere. Che, appunto, ciascuno incontra inevitabilmente in ogni domanda, perché ogni domanda è una domanda sull’essere dell’ente. A pag. 134. L’esistenza insistente… L’esistenza insistente è quella che si aggrappa all’ente, è quella che, anziché trovarsi sempre pro-gettati, vuole trattenersi nell’ente, immaginando che l’ente sia quello che lui vuole che sia, mentre ciascun ente è sempre quello che è in quanto non è quello che è.

Intervento: Nell’esistenza insistente l’uomo è travolto dall’ente. Mi chiedevo se questo implica anche una diversa disposizione verso se stesso da parte dell’uomo, essendo egli stesso un ente.

Inevitabilmente. Heidegger ha sempre questo in mente: l’uomo, l’esser-ci, il Dasein, è l’ente per eccellenza, perché è quell’ente che si pone domande sull’essere; nessun altro ente, all’infuori dell’uomo, si pone domande intorno all’essere dell’ente. L’esistenza insistente non cancella affatto la comprensione dell’essere, al contrario, non fa che consolidare una sua modalità tramandata in cui essa si tiene nascosta. La comprensione dell’essere non scompare per nulla, ma si nasconde dietro una maschera, precisamente la maschera di ciò che è massimamente non problematico. Il non problematico è ciò che ci appare come l’ente, mentre problematico è l’essere. Sono comunque entrambi problematici. Ma non appena abbiamo affinato lo sguardo per l’essenza dell’esistenza… Cioè, di che cosa è fatta l’esistenza. Ricordate: l’essenza chiede il “come è” qualche cosa, l’esistenza afferma il “che cosa”. …ci accorgiamo che questa comprensione dell’essere e questo essere, così aproblematici, innocui e indifferenti, sono in tutto e per tutto ciò che, per l’esistenza, è massimamente degno di domanda, ma di cui abbiamo disconosciuto la dignità. /…/ Tuttavia, per il solo fatto che la lasciamo non domandata, la domanda dell’essere non viene affatto eliminata, bensì repressa, e tenuta ferma in quanto non domandata. Così repressa, la domanda dell’essere “c’è” – ma dove? Nella nostra esistenza insistente. Ci aggrappiamo all’ente pensando che l’ente sia quello che è per virtù propria, e dove troviamo l’essere dell’ente? In tutte le domande che noi rivolgiamo all’ente: che cosa sei? chi sei? dove vai? A pag. 135. La domanda dell’essere, in quanto non-domandata, è massimamente vicina al nostro Esserci in quanto Esserci esistente. Infatti, che cosa può esserci di più essenziale, dunque di più vicino e intimo alla nostra esistenza, del fondamento della sua stessa intrinseca possibilità? Ma questo fondamento è appunto la domanda dell’essere – e la sua capacità di apprendere tramite il domandare. /…/ Riassumendo, ne risulta quanto segue. Essere realmente esistenti significa per noi: diventare quelli che siamo. C’è la famosa frase di Nietzsche, “diventa quello che sei!”, che andrebbe letta insieme a quell’altra, sempre di Nietzsche, “ciò che fu, io volli che fosse!”. È questo che io devo diventare: devo diventare ciò che sono stato, nel senso di accogliere tutto ciò che sono stato, perché io sono tutto ciò che sono stato e che mi ha condotto ad essere ciò che sono ora. Ma l’accadimento fondamentale di questo divenire consiste nel comprendere concettualmente, sondandolo, il fondamento della possibilità della nostra esistenza. Vedete come interviene continuamente sulla questione della possibilità di qualche cosa, di ciò che va affermando, che è la modalità del pensare teoretico; Colli, e come lui infiniti altri, non è si è mai posta una domanda del genere. Ciò significa: domandare nuovamente la non domandata domanda dell’essere. E questo implica: iniziare nuovamente il non iniziato inizio. Nell’attimo stesso in cui concepiamo il nostro essere-umani in quanto existentes, il compito di iniziare l’inizio diventa la prima e ultima necessità. Allora però l’inizio non sta più dietro di noi, alle nostre spalle, come qualcosa di lasciato indietro e di passato di cui ci si è liberati, e nemmeno si trova semplicemente nella estrema vicinanza come ciò che si nasconde nella maschera del massimamente non-problematico, bensì sta davanti a noi in quanto compito essenziale della nostra più profonda essenza. Come dire che l’inizio è ciò che continua a imporci di domandare dell’essere. A pag. 136. …la domanda dell’essere non viene domandata forse in modo tanto più immediato, quanto più esclusivamente domandiamo del tutto a partire da noi, oggi? Noi, a partire da noi. Ma chi siamo dunque noi quando comprendiamo il nostro essere in base al fondamento della sua possibilità? Noi esistiamo, il nostro essere si edifica sulla comprensione dell’essere, anzi più ancora sulla domanda dell’essere che è già stata domandata, e su ciò che essa, tramite il domandare, ha appreso in merito all’essere. Finché noi esistiamo, quell’inizio continua ancor sempre ad accadere. Perché l’inizio è questa domanda, domanda che domanda dell’essere dell’ente. Esso è già stato, ma non è passato – e in quanto già stato dispiega la sua essenza mantenendo in tale essenza noi uomini d’oggi. A pag. 138. La domanda dell’essere non è altro che la manifestatività dell’ente, cioè della verità in quanto tale, ciò che intendiamo generalmente con verità. Passiamo alla parte terza, Il “Poema didascalico” di Parmenide di Elea. A pag. 144. Il senso e il contenuto dell’opera, nonché lo spirito di Parmenide ci divengono accessibili solo se li evochiamo, necessariamente servendoci dei mezzi interpretativi a nostra disposizione. Il profano – una categoria in cui io annovero anche una certa classe di “cosiddetti filologi scientifici” – vende in ciò, in tutta fretta, solo un tentativo di modernizzazione; vede gli strumenti attuali, e ciò che di moderno essi contengono, nonché ciò a cui con essi si mira e la meta a cui conducono, ma non vede ciò che in tal modo ci giunge più vicino. Non lo vede perché non lo vuole vedere, e non lo vuole vedere perché in fondo queste vecchie faccende gli sono indifferenti, come se ci fossero solo affinché se ne possa fare uno studio scientifico, come se i libri venissero scritto solo per evitare che i recensori restino disoccupati. È divenuto oggi di moda confutare le mie interpretazioni dei filosofi precedenti affermando “questo è Heidegger, non Hegel – Heidegger, non Kant”, e così via. Non c’è dubbio. Ma ne consegue senz’altro che l’interpretazione è falsa? Questo non si lascia affatto decidere “senz’altro”, in particolare finché si sostiene che esisterebbe in assoluto una interpretazione in sé vera e vincolante per chiunque in ogni momento. La verità di una interpretazione dipende infatti – oltre che da molte altre cose – anzitutto da quale sia il piano della problematica e dell’esigenza di comprensione in cui l’interpretazione stessa viene collocata. Dipende cioè dalla domanda che si sta facendo. Se la domanda è una domanda che apre a delle questioni che danno da pensare, allora l’interpretazione è corretta; corretta nel senso che rilancia la domanda, il domandare. Se prendessimo un qualsiasi concetto o una qualsiasi frase da una dottrina filosofica casualmente considerata – foss’anche quella heideggeriana – per poi verificare, in base a ciò, l’interpretazione, allora le mie interpretazioni sarebbero effettivamente tutte false. Ma la questione decisiva è appunto quella riguardante la necessità e l’originarietà della problematica che fa da guida all’interpretazione e a cui quest’ultima è subordinata. Le cosiddette interpretazioni “corrette” non sono quindi di x o y, ma di “nessuno” – tuttavia non per questo valgono di meno. Sta dicendo che non c’è l’interpretazione giusta, ma l’interpretazione può essere interessante se apre vero altre questioni da interpretare. Saltiamo la lettura del poema, che abbiamo già fatta altre volte, e passiamo direttamente a ciò che considera Heidegger. Tentiamo di ripercorrere in modo più chiaro quanto dice il frammento e di configurarlo in un contesto unitario – benché non sia certo che questo tentativo debba riuscire comunque. Nonostante si parli evidentemente facendo uso di determinate metafore, dobbiamo ugualmente guardarci fin da principio dal cadere preda di una smania di simboli, interpretando in modo artificioso, come accade in Sesto Empirico, che nel secondo secolo dopo Cristo ci tramanda questo frammento. Questo periodo tardo dispone di ogni altra cosa, ma non dei presupposti per la comprensione di Parmenide. L’atteggiamento mistagogico (misterico) – di allora e di oggi – non ha nulla che fare con la filosofia. Si tratta quindi in primo luogo di cogliere in modo del tutto obiettivo i dati da fatto, anche quelli riguardanti le metafore. 1) Abbiamo a che fare anzitutto con questo dato: a bordo di un tiro di cavalli, Parmenide giunge alla dimora della dea – ‘Aλήθεια –. Egli si lascia alle spalle la via che porta alla dea. Di questa via non si dice niente di più. È vero peraltro che qualcosa di essenziale viene detto del modo in cui tale via viene percorsa. La via e la sua importanza sono determinate … desiderio anticipato di Parmenide. È lui stesso a decidere da sé di mettersi in viaggio: a smuoverlo non è un sortilegio né un rapimento mistico-misterico. Questo mettersi-in-cammino accade ripetutamente, sempre di nuovo, (ottativo): determinante è il θυμός (stato d’animo). Ciò che i greci intendono con questa parola è reso nel modo migliore dall’antico termine tedesco Muot, da cui Mut, “animo”, come esso appare ancora nei termini Freimut, “franchezza”,… Mut è al tempo stesso “disposizione di spirito e stato d’animo”… /…/ …esigere qualcosa da qualcuno aspettandosi che lo accolga nel suo animo, nella sua mente e nel suo spirito. /…/ Il θυμός greco è al tempo stesso impulso, forza impulsiva, condotta impulsiva e risoluta disposizione di spirito. Θυμός, animus, animo: ciò che spinge Parmenide sulla via che porta alla dea non è una qualche curiosità, ma il pro-tendersi indirizzato-disposto-desiderante del suo intero essere-uomo. Lo stato d’animo di Parmenide è quello del domandare, è lui che decide di domandare, vuole sapere. Questo è importante: non è che sia stato preda di estasi o di qualche delirio, è una decisione lucida, consapevole. 2) La casa della dea ha una porta. Da questa porta si diparte nuovamente una via. È la via della dea, non la via che porta alla dea: è la via che la dea stessa percorre. Durante il viaggio lungo questa via sono le fanciulle figlie del sole a prendere la guida del carro. Prestiamo quindi attenzione fin dall’inizio e con la massima precisione a questo dato: si tratta di vie – όδοί. Possiamo intendere la “via” come un tratto di strada percorribile tra due punti di sosta; oppure come quel selciato che rende transitabile un terreno. Ma la via è tale anche in relazione alla visione circospettiva e alla vista che offre, nonché alla contrada attraverso cui conduce. Ogni via ha la sua prospettiva. Questo è il punto: όδός πολύφημος. Questa è la via della verità, la via che annuncia molte cose. Capite subito la differenza abissale tra la verità intesa epistemologicamente e la verità di cui parla Parmenide. La verità di Parmenide è una via che annuncia molte cose; la verità intesa in termini epistemologici è esattamente il contrario, chiude. …non si tratta, come sostiene Diels, della via che è “molto celebrata” – chi mai potrebbe celebrarla, dato che solo adesso viene scoperta, e proprio i molti non la conoscono affatto? Invece, la via “annuncia molte cose”… Questa potrebbe essere una traduzione di ἀλήθεια: ciò che annuncia molte cose. Che cos’è la verità: ciò che annuncia molte cose. …offre molte prospettive, apre l’accesso per… Per che cosa? Se essa è la via dell’ἀλήθεια, evidentemente si tratta dell’accesso allo svelato in quanto tale. Questa via è quindi eccellente: πάτος è il sentiero battuto, percorso continuamente da chiunque. Via da questo sentiero! Non bisogna seguire il viavai quotidiano della folla, ma rimanere in disparte dalle sue opinioni o dalle sue illusioni, senza lasciarsi condizionare da ciò che si dice, si ode e si pensa. Si tratta di vie, anzi per essere più precisisi tratta di intraprendere delle vie, e di mantenere le vie intraprese, per essere in cammino su di esse, seguendo la via e la sua essenza – μετάμεθοδος – metodo. A pag. 151. Ci troviamo nel mezzo di una meditazione fondamentale sul metodo… Vedete come sta procedendo Heidegger: lui si interroga sulle condizioni di ciascun termine che incontra. È questo che lo rende straordinario, soprattutto in questi testi degli antichi e più ancora nei presocratici. …inteso ovviamente non come una tecnica formale a sé stante – bensì? La via che Parmenide deve percorrere sotto la guida di ‘Aλήθεια è in disparte rispetto al sentiero comunemente battuto dagli uomini. Eppure non si tratta nemmeno di qualcosa di strano nel senso delle pratiche di una dottrina esoterica, o delle tecniche di iniziazione misterica… Era Colli che voleva condurci lungo questa via dei misteri e di altre cose strane. Quando non si hanno argomentazioni, ecco il deus ex machina. …poiché la via ci fa accedere per la prima volta all’Aperto, se prendiamo questa parola nella sua pienezza. Ciò che è decisivo è la prospettiva. La dea dice: è necessario che tu apprenda tutto – πάντα. Tutto che cosa? Tanto la svelatezza quanto le opinioni degli uomini, che sono dunque differenti dalla verità, e sono quindi in qualche modo delle non-verità. La dea dice che Parmenide deve venire a sapere entrambe le cose, come se fosse necessario sapere entrambe le cose. Non è che deve seguire una e abbandonare l’altra, assolutamente no, deve conoscerle entrambe. Adesso vedremo anche il perché. Ma non abbiamo appunto udito che la via della dea si trova ben lungi dal sentiero battuto dagli uomini? Eppure Parmenide, adesso, deve apprendere anche queste opinioni, deve quindi percorrere anche questa via. Non è proprio così. Parmenide non deve percorrere il sentiero battuto dagli uomini per conoscere le loro opinioni, ma per apprendere, ovvero per conoscere che cosa questo sentiero ha di importante in quanto tale. Egli non deve prestare orecchio a opinioni mezze vere e mezze false, ma riconoscere l’essenza dell’opinione, della δόξα, quindi la verità sulla δόξα. Ciò che va compreso concettualmente non è quindi solo una molteplicità di verità – ammesso che ne esistano -, bensì l’essenza della verità e la verità essenziale. Tuttavia la verità sulla δόξα può evidentemente essere ottenuta solo percorrendo la via della verità. Vale però anche l’opposto, dato che la visione offerta dalla via della verità può essere abbracciata nella sua interezza solo se anche la verità sulla δόξα è divenuta comprensibile. Non posso conoscere l’una se non conosco anche l’altra. Questa questione, che sta ponendo Heidegger, è straordinaria, non la trovate da nessun’altra parte, in nessun commentatore di Parmenide: nessuno ha rilevato questa cosa, che io invece ho trovato fondamentale. Il πάντα, il tutto, comprende 1) l’essenza della verità; 2) l’essenza della δόξα. Il tutto è entrambi questi due momenti. A questo punto possiamo intenderli come momenti, hegelianamente parlando. Ma questo è davvero tutto? No: ἀλήθεια e δόξα – che cosa intende questa “e”? Si chiede anche che cosa si intende con una congiunzione, perché per lui ha un significato. Ovvero: perché mai porre accanto all’ἀλήθεια un qualche genere di non-verità? Perché e in che modo accanto all’ἀλήθεια assume la sua sovranità anche la δόξα, tanto da attrarre comunemente gli uomini sulla sua via? È un fatto che va chiarito, perché solo allora sapremo che cosa significa ἀλήθεια e δόξα. /…/ ciò nondimeno dovrai imparare a conoscere addirittura anche questo: come la parvenza, a suo modo, conformemente alla sua essenza, assuma la sovranità su ogni cosa. Solo quando si sarà appreso tutto ciò la via della dea sarà colta nella sua interezza. Ci sta dicendo che le vie della dea non sono due ma tre; ne aggiunge una quarta, ma questa la possiamo tralasciare. Quindi, sono tre: una è quella dell’ἀλήθεια, l’altra è quella della δόξα, e poi c’è quella del non-essere, della quale adesso ci dice. L’autentica meditazione sulle vie, sul metodo, corrisponde alla domanda che si interroga sull’essenza della verità… L’ἀλήθεια che cos’è? È la domanda dell’essere, è questa la via regia. … (ma quest’ultima è la domanda dell’essere! Comprensione dell’essere) e sulla sua possibile relazione essenziale con la non-verità. Chi vuole comprendere concettualmente la verità deve comprendere la non-verità, non può eluderla, bensì accogliere entrambe nel loro più intimo confronto reciproco. Notate qui subito la prossimità tra le parole di Heidegger – non sono le parole di Parmenide, anche se Heidegger cerca di attenersi non tanto al pensiero di Parmenide ma alla domanda che pone – con Eraclito: ἒν πάντα εἰναι, uno è tutte le cose, simultaneamente. Ripetiamo nuovamente: la via di Parmenide non ha più nulla in comune con il mito e i misteri, poiché ciò che caratterizza il rapimento e l’estasi dell’iniziato – che si richiama a fenomeni d’eccezione – è il fatto di essere trasportato via nel suo regno più proprio, trovando riparo al suo interno, riparo e protezione da ogni non-verità. Invece la via di Parmenide conduce fuori all’Aperto, in quel Libero dove si libera anzitutto e per la prima volta l’intera antiteticità di verità e non-verità. Si tratta della via che il Libero libera e mantiene libera per se stesso – il metodo per eccellenza. Verrebbe da dire: la dialettica di Hegel. A pag. 153. Se teniamo presente questo sguardo d’assieme rivolto alla via della dea è facile mostrare che i versi 1, 33 sgg., che in Diels seguono immediatamente quelli da noi riportati – e che già Sesto Empirico riporta così – qui non sono al loro posto. In base a Simplicio è possibile mostrare tuttavia che, nel frammento da lui citato, Sesto Empirico ha tralasciato proprio i decisivi versi 31 e 32, nei quali si fa appunto riferimento alla coappartenenza essenziale di ἀλήθεια e δόξα. Avete visto che cosa è andato a scovare? Questi frammenti di Simplicio, che recupera dei versi saltati da Sesto Empirico. In questi frammenti Parmenide dice esattamente questo, e cioè della coappartenenza di ἀλήθεια e δόξα, il che è una cosa fondamentale, è il punto centrale di tutto il poema, di cui Sesto Empirico invece se ne sbarazza. Che egli potesse comprendere questo aspetto sarebbe stato pretendere troppo dal modo dozzinale in cui escogita la simbolica di questa “introduzione”. È per questo che si è limitato a ometterli. Il motivo per cui i versi 1, 33-38 qui non sono al loro posto può essere indicato facendo riferimento alla disposizione effettiva. D’altronde, tutti gli interpreti e curatori prima di Diels hanno visto molto meglio di lui. Reinhardt riprende la disposizione precedente. Corrisponde infatti a uno sviluppo del tutto naturale della narrazione il fatto che la dea, adesso, dopo avere offerto a Parmenide la veduta d’insieme di ciò di cui egli dovrà fare esperienza, riprenda in modo più approfondito la meditazione sulle vie. A pag. 154. Siamo al frammento D 5. …τό γάρ αύτό νοεῖν έστίν τε καί εἶναι (poiché pensare ed essere sono lo stesso), che Heidegger traduce così: …poiché percepire ed essere sono lo stesso. Parmenide è dunque adesso in cammino sulla via della dea, ben lungi dal sentiero battuto dagli uomini, con l’intenzione di percorrerla fino in fondo. Dove conduce tale via, e quale veduta offre? Abbiamo già sentito che ciò di cui si deve fare esperienza è πάντα. Πάντα, un concetto che non è lontanissimo da quello di Severino, il concreto. Πάντα, il tutto, è la coesistenza di ἀλήθεια e δόξα. Ma non semplicemente così, in genere, solo in modo tale che qualcosa – qualsiasi cosa – sia portato a conoscenza, poiché ciò che importa è piuttosto la via stessa e la capacità di mantenerla. Il domandare della vita non è meno essenziale del domandare la cosa in questione, anzi in futuro le due vie non potranno più essere separate. Qui c’è una Nota. Se e dove troviamo questa coappartenenza. Dunque, come facciamo esperienza dell’ente. Che tipo di esperienza è un’esperienza fondamentale? Esperienza della prima e suprema attestazione – ovvero di ciò che in essa dev’essere manifesto. Entrambe (ἀλήθεια e δόξα) si concedono reciprocamente l’autorizzazione alla necessaria coappartenenza. Essere in “sé” – impossibile – in che senso? Concretamente! Non qualcosa cui bisogna credere! Però un compito / non si tratta quindi del fatto che l’essere sta in relazione con qualcos’altro, di qualsiasi altro si tratti – ma del fatto che l’essenza dell’essere consiste in tale “relazione” con altro – dove questo stesso altro sussiste solo in quanto rapporto con l’essere. Ho trovato questa nota di una precisione straordinaria. Non è che l’essere è in relazione con qualche altra cosa, l’essere “è” relazione. Dice l’essenza dell’essere consiste in tale “relazione” con altro, è relazione, né più né meno, anticipando di ventisei secoli Peirce. Torniamo al testo. Bisogna quindi anzitutto meditare su quali siano le vie che il domandare può in assoluto prendere in considerazione. La via è una via dell’andare alla ricerca, andare alla ricerca e cercare a scopo di conoscenza. Si cerca di ottenere qualcosa nella sua evidenza, quindi a scopo di conoscenza; ma il cercare che indaga e decide altro non è che il domandare. Qui la domanda torna e appare fondamentale. Ciò che ora va innanzitutto chiarito e stabilito è questo: che cosa in assoluto può essere domandato e che cosa no? Anche questa è una domanda legittima. Quale via e direzione deve prendere il domandare, e quale invece non può, ovvero non deve prendere? Qui sta anticipando la questione del non-essere. Questa seconda via dev’essere data in modo altrettanto chiaro ed evidente della prima. Di nuovo si dice due vie, anzitutto. Nondimeno questa suddivisione non va senz’altro paragonata a quella precedentemente considerata nell’introduzione: ἀλήθειαβρωτών δόξαή μένή δέ. Qui la prima via. Il sentiero percorrendo il quale possiamo costruire su qualcosa. È questa la via del domandare fondato, che poggia su qualcosa di solido e lo annuncia. La seconda via è invece il sentiero che è in tutto e per tutto assolutamente da sconsigliarsi, dato che è completamente privo di prospettive. Leggiamo, con Proclo, παναπειθής, poiché conserva con la massima precisione la contrastante corrispondenza che in effetti attraversa in modo altrettanto netto la separazione delle due vie. Queste due vie – la prima che dev’essere percorsa, la seconda che è completamente impraticabile – non vengono distinte semplicemente chiamandole così, poiché al tempo stesso ci viene detto che cosa di volta in volta su ciascuna via può essere domandato oppure risulta totalmente precluso. Sulla via del non-essere posso pormi domande? Come? Con che cosa? Sulla prima via si domanda “come è – come l’“È” – la frase non ha soggetto, o meglio il predicato è esso stesso soggetto e viceversa. Ma il come “è” non è appunto ciò che comprendo quando mi rivolgo all’ente ed esprimo ciò che ho compreso? “È”. Quindi, che ne è dell’essere? È questo che si domanda, così come al tempo stesso ci si chiede come l’essere non possa non-essere, cioè come l’essere scacci assolutamente da sé il “non”. Sulla seconda via si domanda “come non è”, qual è l’essenza del “Non-È”, che ne è di quell’ “è” (come stanno le cose riguardo all’ “è”, non al cogito!) che ha il carattere del “non”. Il nulla – poiché là dove come in questo caso c’è il “non”, sussiste la necessità che non vi sia nessun essere. L’essere infatti non genera alcun “non”. A sua volta però il “non” scaccia l’essere, quindi sostiene solo il nulla. La via che porta al nulla è però assolutamente da sconsigliarsi, su di essa non si può assolutamente costruire, dato che in essa non è in nessun caso possibile produrre nulla, quindi nessuna possibile conoscenza, né alcuna indicazione in merito. E qui si allaccia immediatamente il frammento 5 (pensare ed essere sono lo stesso), che fornisce la fondazione del genere così nettamente differente delle due vie e delle loro peculiari prospettive: dove c’è essere c’è anche percepire, e viceversa, dove c’è percezione c’è essere. Invece, dove c’è il nulla non c’è nemmeno percepibilità, quindi nessun percepire, nessuna via, e viceversa. Dove nulla può essere ap-preso e percepito, là non c’è nemmeno essere. Se non c’è il linguaggio non c’è domanda. in fondo sta dicendo questo, non possiamo domandare nulla senza linguaggio. Per-cepire rende il greco νοεῖν, che significa: cogliere con lo sguardo, e precisamente: a) guardare e recepire la veduta; b) cogliere con lo sguardo, guardare qualcosa in profondità, pensare a fondo, ap-prendere. La separazione tra le due vie si fonda sull’essenza dell’essere, che qui viene concepita già da un punto di vista decisivo. Questa separazione si fonda sull’essenza dell’essere cioè il fatto di essere νοεῖν, di essere quindi pensiero, linguaggio. Questa caratteristica essenziale possiamo esprimerla in sintesi così: l’essere si dà solo al comprendere, e ogni comprendere è comprendere l’essere. Essere e comprensione dell’essere sono lo stesso, si coappartengono facendo tutt’uno. Questo “coappartengono” possiamo intenderlo come simultaneità, o come due momenti dello stesso.