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23 novembre 2016

 

La volta scorsa ci eravamo posti un problema da risolvere. Il problema consisteva in questo che, parlando, ciascuno impone a quell’elemento che dice un significato, un’esistenza, lo fissa per così dire, per poterlo utilizzare. Ci si chiedeva, però, come avviene che poi questa cosa debba essere imposta ad altri, perché è quello che si verifica e il problema consisteva nel trovare qualche cosa che consentisse di intendere questo passaggio che pareva potere anche non esserci, perché si tratta da una parte del funzionamento del linguaggio, dall’altra invece di qualche cosa che si rileva ma che propriamente non ha un’argomentazione. Certo, accade così che ciascuno vuole imporsi, ma perché? E allora risolviamo il problema. Si tratta di questo: quando si parla effettivamente si impone a un elemento di essere quello che è, questo elemento da quel momento è fisso ed è fisso per poterlo usare, perché se fosse semovente non sarebbe utilizzabile. Ciò che deve essere considerato è che questo elemento fissato impone tutto ciò che segue o seguirà a questo elemento, potremmo dirla così, la sua legge, legge nel senso di costrizione, di qualcosa che vincola. Tutto che segue a questa parola che io ho fermato, fissata, è vincolato a questa parola, tutto ciò che segue dovrà tenere conto di quello. Quindi, qualunque cosa seguirà a questa parola che è stata fissata per poterla utilizzare sarà vincolata a questa parola. Naturalmente, il parlante esige che tutto ciò che seguirà, qualunque cosa sia, può essere un concetto, una sequenza, qualcuno, terrà conto rispetto a questo della legge che questa parola sta imponendo. Dunque, ciò che si aspetta è che ciò che seguirà non sia altro da ciò che questa legge legifera, una legge vincola su ciò che legifera, quindi, a questo punto, tutto ciò che segue non deve essere differente da ciò che questa parola, in quanto legge impone al resto che seguirà. Qui possiamo dire qualcosa del principio primo, il principio di non contraddizione, che a questo punto risulta non solo fondamentale ma forse risulta più comprensibile: qualunque cosa io ho detto è quella cosa e, essendo io che l’ho imposta, qualunque cosa intervenga non deve in nessun modo né alterare né demolire né mettere in discussione ciò che io ho stabilito, perché ciò che io ho stabilito è ciò che mi consente di proseguire, quindi, ciò che ho stabilito deve essere quello che è. In questo senso e per questo motivo, il principio di non contraddizione protegge ciò che io affermo da ciò che potrebbe negarlo. Io affermo una certa cosa e quindi, imponendola proprio come una legge, impedisco che qualche cosa intervenga a mettere in discussione ciò che io ho affermato, ciò che io ho comandato. In questo caso sarebbe come trasgredire a un comando che io ho dato: “tu sei questa cosa”. Il principio di non contraddizione salvaguarda ciò che io ho imposto impedendo che venga negato, che venga messa in discussione questa legge che io sto imponendo nel momento in cui fisso qualcosa. Dunque, il motivo per cui è necessario, anzi, quasi impensabile non imporre la loro volontà, procede da questo, dal fatto che ciò che viene affermato funziona come legge su tutto ciò che ne segue, su tutto ciò su cui questa legge legifera e, dunque, qualunque cosa, che sia una sequenza, che sia un discorso, che sia qualcuno, non ha importanza, deve attenersi a questa legge, a ciò che io ho comandato. Ecco perché risulta necessario per gli umani imporre la propria volontà, non è niente altro che imporre la propria legge che instaura nel momento in cui io affermo qualche cosa, cioè, dico che le cose stanno così, e questa legge, ovviamente per essere una legge, deve essere imposta su tutti, perché se non è imposta su tutti allora non è una legge e non vincola e se non vincola allora non è una legge. Deve essere un universale che deve valere per tutti, perché io l’ho affermato e affermandolo ho imposto a questa di essere così.

Intervento: La questione della realtà, la realtà funziona come un universale, è ciò che garantisce della verità di un’affermazione. La realtà, in effetti, è qualcosa di fermo, di fisso e di vincolante, la legge di natura. Mi chiedevo come si connetteva il discorso che lei ha appena fatto con il concetto di realtà. Il concetto di realtà dovrebbe garantire la premessa universale. Ciò che io impongo è per me la realtà, come quando una persona scambia le proprie fantasie per la realtà, diventano uno stato di fatto.

Esatto. In effetti, io parlavo rispetto alla struttura del funzionamento del linguaggio, parlavo di imposizione del significato, ma per chi parla, a meno che non sia informato circa il funzionamento del linguaggio, quello non è un atto l’imporre qualche cosa che procede da una sua decisione, è semplicemente la descrizione di ciò che per lui è un stato di fatto, e cioè la realtà.

Intervento: Questo per qualunque cosa gli umani dicano.

Sì, necessariamente. Non si può evitare una cosa del genere. Come dicevamo tempo fa, si può soltanto tenerne conto e quindi non essere travolti da una cosa del genere.

Intervento: È anche un meccanismo di deresponsabilizzazione. Se è la realtà non sono io…

Sì, la realtà, così come la legge di natura, la legge fisica, impongono qualche cosa, sono vincolanti, costrittive per chiunque e, quindi, se è una legge di natura, nessuno può farci niente. Occorre avere presente il modo in cui funziona il linguaggio altrimenti non c’è nessuna possibilità di tenere conto di una cosa del genere, neppure di accogliere una cosa del genere, perché ha dei risvolti che riguardano la volontà di potenza, che a questo punto si esercita attraverso la promulgazione di leggi. Ogni affermazione è come se promulgasse una legge, alla quale legge ciascuno deve attenersi; per questo motivo deve essere imposta a tutti e tutti devono riconoscerla come legge, cioè come qualcosa di vincolante. La volontà di potenza è ciò che muove qualunque cosa, non ci sarebbe nessuna utilità a dire alcunché se non ci fosse la volontà di potenza, cioè la volontà di affermare di volta in volta una legge, che dice: le cose stanno così. Sottolineo il termine legge perché ha questo carattere, è vincolante, una legge che non è vincolante non è una legge, è un’altra cosa ma non è una legge. Il termine legge viene dal latino, lex, legis, e viene, facendo come fa Heidegger, dal greco λγειν, che è sì un dire, un parlare, ma è un dire particolare ché comporta il mettere insieme, il raccogliere, il riunire che opera la parola, il dire, è un raccogliere insieme della parola, è la parola che raccoglie insieme, questo è il λγειν, da cui appunto legge, come ciò che mette insieme e mettendo insieme vincola, cioè impedisce che si disgreghi. A questo punto, come dicevo, la volontà di potenza acquista una nuova configurazione, come se mentre si parla fosse una continua promulgazione di leggi, leggi universali. È una cosa che da tantissimi anni era già presente e se ne parlava ma non in termini così decisi, ricordate che si diceva che quando ciascuno parla immagina che le cose che dice siano verità, anche se dice che non è vero, di non sapere la verità, ecc., sono tutte, per così dire, delle captatio benevolentiæ, servono soltanto a schermarsi dietro un qualche cosa che protegge dalla necessità di dovere provare ciò che si afferma nel momento in cui ciò che si afferma viene accompagnato da una dichiarazione di verità. Infatti, se dicesse “questa è la verità” chiunque potrebbe chiedergli di provarlo; se, invece, dice queste cose per vie traverse, ponendole come eventualità, come sue opinioni, ecc., questa richiesta terribile non gli viene rivolta e può comunque affermare ciò che lui ritiene essere assolutamente vero.

Intervento: Sembra la continua messa in atto del metodo deduttivo…

Lo conferma a condizione che non lo neghi, è più che sufficiente. Se io affermo qualche cosa è sufficiente che nessuno neghi quello che sto dicendo e questo è sufficiente perché quello che dico io lo reputi vero: tutti lo accolgono, quindi è vero.

Il principio di non contraddizione assume qui una nuova forma, più che nuova direi più precisa perché, dicendo che salvaguarda la legge che sto promulgando, a questo punto perde il carattere di principio, come era stato posto come se fosse un qualche cosa, come anche in buona parte lo pone Severino, qualcosa quasi di prelinguistico, ma è solo uno strumento della volontà di potenza, che deve salvaguardare la legge che io parlando promulgo. Se questa è la legge che io ho promulgato allora qualunque cosa si opponga a questa legge è falso e, quindi, deve essere eliminato in un modo o nell’altro. Se nessuno ha da obiettare rispetto a quello che qualcuno dice si considera che ciò che viene detto venga accolto e, quindi, è confermato e pertanto può proseguire, può proseguire nel suo superpotenziamento. Invece, una qualunque, un qualunque ostacolo, è immediatamente un depotenziamento, minaccia la mia legge, minaccia ciò che io ho affermato e che è la condizione per potere proseguire nella volontà di potenza, cioè per potere proseguire il superpotenziamento, formulando altre affermazioni, ecc. Questa è la soluzione al problema della volta scorsa, e cioè ciò che io affermo viene imposto come una legge universale e, essendo posto proprio come una legge universale, non può in nessun modo essere contraddetto da qualcuno e quindi deve essere necessariamente riconosciuto da ciò che segue questa affermazione. Come dicevo prima, che sia una persona, che sia un discorso, che sia una sequenza, non ha nessuna importanza, ma ciò che segue non può non seguire ciò che questa legge stabilisce: ciò che segue non può ostacolare ciò che io ho affermato, perché se questa cosa che io ho affermato è legge, tutto ciò che segue dovrà necessariamente tenere conto di questa legge che io ho affermato.

Intervento: …

Lei dice “so che ciò che affermo non è quella cosa”, potrebbe non essere così semplice. In effetti, come so che non è quella cosa? Perché sul so che non è quella cosa abbiamo argomentazioni, ma sul perché so che non è quella cosa potrebbe essere più complessa. In effetti, anche qui si può costruire un’argomentazione che mette in difficoltà questa affermazione perché, in effetti, come faccio a sapere che ciò che dico non è quella cosa se, di fatto, già non so che cos’è quella cosa? Devo saperlo, e allora posso raffrontare ciò che dico con quella cosa, verificare ciò che dico non è quella cosa e, quindi, concludere che ciò che dico non è quella cosa, ma per farlo devo sapere che cos’è quella cosa. Quindi, per sapere che cos’è una certa cosa devo potere raffrontare ciò che dico con la cosa. Ma anche per sapere che non è quella cosa mi trovo nello stesso impiccio: come faccio a non sapere che non è quella cosa lì? Se non so che è quella cosa lì non ho nessun modo per saperlo, se non lo so potrebbe in teoria anche esserlo, non posso escluderlo a priori. Anche il principio di non contraddizione che cosa ci dice? Beh, ci dice un po’ di cose, sulle quali abbiamo discusso e alcune delle quali ci erano già parse allora quando parlavamo di Łukasiewicz e poi della critica di Severino a Łukasiewicz. Il problema era nello stabilire, per Łukasiewicz almeno, la fondabilità del principio di non contraddizione e, in effetti, non c’è la possibilità di stabilire un fondamento del principio di non contraddizione. L’obiezione che faceva Severino è che per potere affermare queste cose lui già stava utilizzando il principio di non contraddizione e, quindi, non richiede una fondabilità, nel senso che si fonda nel momento in cui agisce. Però, a questo punto, il principio primo, posto come una sorta di salvaguardia della legge che promulgo, si trova ad avere una funzione differente o, più propriamente, la sua funzione diventa più chiara: Facciamo un discorso un po’ più articolato. Io affermo una certa cosa, che “questo è questo”; se “questo è questo” allora tutto ciò che segue dovrà tenere conto del fatto che questo è questo, e fin qui lo abbiamo detto. Tutto ciò che segue può però comprendere un’affermazione che mi dice che “questo non è questo” e allora interviene il principio di non contraddizione a dire che se questo afferma che “questo non è questo” questo deve essere eliminato perché falso, perché “questo è questo”, perché io ho stabilito che è questo. Quindi, la funzione del principio di non contraddizione non è più tanto il mantenere la verità all’interno del discorso, così come è sempre stata pensata nella logica. La logica serve a stabilire la verità delle proposizioni, a stabilire dei criteri di verità delle proposizioni, ma attraverso il principio di non contraddizione, è sempre lui alla fine che decide. A questo punto siamo andati oltre la questione, nel senso che anche la logica stessa l’abbiamo interrogata rispetto ai suoi principi, alla sua fondabilità, e ci è parso che la logica non fosse altro che un gioco alla fin fine, un gioco che non offre nessuna garanzia. La nozione di verità che emerge dalla logica, dal calcolo proposizionale, è un tipo particolarissimo di verità che segue a una serie notevole di prescrizioni, di regole, di imposizioni, quindi non è che ci si affidi alla logica, la logica, sì, dice che se compio certe operazioni giungo a quel risultato ma quel risultato non garantisce alcunché, e in questo aveva ragione Wittgenstein, mi dice soltanto di avere eseguito correttamente i passaggi, finita lì, niente più di questo. Il principio di non contraddizione ha sempre dovuto nella storia del pensiero garantire della verità: ciò che non è autocontraddittorio è vero, era Kant che diceva questo, è vero, cioè stabiliti, basta che non si autocontraddica. Ma, a questo punto, la domanda era da dove salta fuori questo principio di non contraddizione e perché è così costrittivo e abbiamo visto che in realtà non è che lo sia poi così tanto ma salvaguarda ciò che io man a mano che parlo impongo che sia, che siano le cose. Per quanto riguarda il discorso che stiamo facendo, ovviamente il principio di non contraddizione lo utilizziamo perché comunque, se io affermo qualche cosa, anche se so che quello che sto affermando non è una verità sub specie æternitate, nonostante tutto occorre che quella cosa sia quella che è per poterla utilizzare; se questa cosa viene negata, cioè si mostra per esempio autocontraddittoria, non posso più usarla come un qualche cosa da cui partire per costruire altre cose, ma soprattutto e fondamentalmente non è più utilizzabile dalla volontà di potenza. È questo il motivo per cui non viene più usato, questo è il motivo per cui esiste il principio di non contraddizione: per salvare la volontà di potenza da ogni intoppo, da ogni difficoltà. Il linguaggio non può uscire dalla struttura metafisica, non può non stabilire che “questo è questo”, se voglio utilizzare nel mio discorso una parola devo fermarla, così come per giocare a poker devo stabilire che ogni volta che vedo una certa figura quella è il re di cuori e non qualcos’altro.

Che cos’è una legge? Generalmente, viene definita come una norma, come una regola che deve essere seguita da tutti. Se la si pone come una legge che deve legiferare su tutto ciò che segue è chiaro che tutto ciò che seguirà avrà quell’impronta, cioè si atterrà a ciò che la legge stabilisce, la legge, cioè, ciò che io ho detto, ciò che io ho affermato.

Dopo aver risolto il problema, d’altra parte ogni problema è prodotto dal linguaggio, quindi il linguaggio può risolverlo. Seminari di Zollikon, 2 e 5 novembre 1964. Qui sono in casa di Boss, uno psichiatra che si era formato come psicoanalista con Freud. Siamo a pag. 59. Per introduzione un aneddoto su Socrate. Un sofista, che aveva viaggiato molto, domanda a Socrate: “Stai sempre qui e dici sempre le stesse cose? Ti fai la cosa troppo facile”. Socrate risponde: “No, voi sofisti ve la fate facile, giacché dite sempre ciò che è il più nuovo e il nuovissimo e sempre qualcos’altro. Ma il difficile è dire lo stesso, e il massimamente difficile è: dire dello stesso lo stesso”. Anche per questo Socrate è stato il più grande pensatore dell’Occidente, in quanto non ha scritto nulla. Anche qui noi vogliamo sforzarci a dire lo stesso dello stesso. Al sano intelletto umano ciò appare strano. Ciò la si chiama una tautologia. Considerata logicamente, questa è una proposizione che non dice nulla. Siamo dunque in contrasto con la logica. La generale difficoltà nel nostro sforzo è costituita da una difficoltà metodica. Essa concerne l’accesso ai fenomeni e la specie e il modo della loro esibizione ed esibibilità. Quanto più ovviamente ci si sente a casa propria nel mondo della rappresentazione scientifico-naturale, tanto più estranea sarà la riflessione qui da noi esercitata sui fenomeni dello spazio, della temporalità, dell’uomo, della causalità. Questo esordio che fa Heidegger riprendendo Socrate “dello stesso”: dire dello stesso significa dire che cosa qualche cosa è, che cosa qualcosa è in quanto se stessa. Questo per Socrate era la cosa più difficile, di dire ogni qualvolta che cosa qualcosa è in quanto tale. Quindi, dicevo, il più difficile è stabilire che cosa qualcosa è. Perché è il più difficile? Perché investe un problema, su cui ci siamo soffermati un po’ di tempo fa, quando dicevamo che per dire che qualche cosa è devo dire sempre qualcos’altro, cioè ciò che quella cosa non è, quindi, se volessi dire, anziché qualcos’altro, proprio ciò che quella cosa è, mi trovo di fronte a una difficoltà immensa, insormontabile, e questa è la difficoltà con cui Heidegger intende confrontarsi. Se Loro si sentono a casa propria nel rappresentare scientifico-naturale, ciò significa già anche che possiedono un sapere di questo Loro procedere scientifico-naturale? È certo che, se si sentono a casa propria nel pensiero scientifico-naturale, il Loro rappresentare è costantemente indirizzato alla natura. La natura come riferimento, perché è la cosa più stabile che si immagina generalmente, la cosa fissa, la cosa vera. La natura è la rappresentazione di ciò che è. Pongo Loro il problema: che significa qui natura? Il tratto fondamentale della natura intesa dal rappresentare scientifico-naturale è la conformità a leggi. Di tutto ciò che è, viene considerato solo ciò che è misurabile, quantificabile. Da tutto il resto nelle cose si prescinde. Domanda: sotto quali presupposti posso pensare così la natura, cos’è l’elemento primario qui? Si sta chiedendo quali sono i presupposti per cui io penso così la natura, e cioè che sia sottoposta a leggi? Il progetto di uno spazio omogeneo e di un tempo omogeneo. Questa è la risposta di Heidegger alla domanda di quali sono i presupposti. Lui parla di progetto, non di istanze o di istituzioni. Qui vengono misurati i movimenti, conformi a leggi, di punti-massa riguardo al mutamento di luogo e al tempo.(pag. 60) Ricorderete che abbiamo già visto una questione del genere in Sentieri interrotti, dove diceva appunto che per potere formulare delle leggi fisico-matematiche occorre un progetto all’interno del quale quelle leggi siano situabili, perché fuori da quel progetto non c’è nulla: Qui sta riprendendo la questione, sta dicendo che ci sia uno spazio omogeneo e un tempo omogeneo, quindi calcolabile, misurabile, che sia omogeneo, identico, che non cambi per strada, cioè che sia quello che è, ecco questo è il progetto all’interno del quale è possibile pensare la natura in quanto dominata da leggi. Quindi, ciò che è necessario primariamente è che esista questo ambito, un progetto all’interno del quale io ho stabilito che il tempo è una certa cosa e lo spazio è quell’altra certa cosa, omogenei, cioè che lo spazio è quello che è, cioè devo avere già formulato una legge, come dicevamo prima, cioè un’affermazione che dice che è così, e cioè che lo spazio è omogeneo. Questa legge che io impongo, che non posso non imporre, e la scienza meno che mai, la scienza non può fare nulla senza stabilire continuamente leggi, ma non le leggi della fisica ma leggi rispetto a ciò che afferma, prima ancora di stabilire o di trovare leggi deve avere già formulato delle leggi che gli consentono di formulare delle leggi. E prosegue: Kant è stato il primo che ha espresso esplicitamente il carattere della natura rappresentata in modo scientifico-naturale. Perciò egli per primo ha anche detto che cosa sia una legge in scientifico-naturale. La legge è legge, deve essere vincolante, che sia una legge fisica, che sia una legge della giurisprudenza, che sia una legge umana in generale, ha sempre questo carattere. Il fatto che l’autentico presentatore della scienza della natura sia stato un filosofo, indica che non è cosa della scienza della natura, bensì della filosofia, riflettere su ciò a cui la scienza della natura è costantemente indirizzata, senza che gli scienziati naturali abitualmente lo sappiano in modo esplicito. È il filosofo l’unico che può accorgersi che per potere stabilire delle leggi in base alla natura, all’osservazione, io devo avere in precedenza già promulgato, stabilito delle leggi, che sono quelle che mi consentono di dire che queste cose qua sono delle leggi, per esempio che lo spazio è una certa cosa, che esiste, in prima istanza. La determinazione che Kant dà della legge suona: “Natura in generale” è “conformità a legge dei fenomeni in spazio e tempo”. La natura, quindi, non è altro che qualcosa che è conforme a dei fenomeni che sono vincolati da leggi. Kant è stato uno dei fondatori della possibilità della scienza, ha detto che queste cose sono vincolate a delle leggi, lo spazio e il tempo seguono delle leggi, perché? Perché è così. Io stabilisco, quindi, promulgo una legge che dice che spazio e tempo sono vincolati a una legge. Inoltre: “Natura è l’esserci delle cose, in quanto esso (l’esserci) è determinato secondo leggi universali”. Vedete che la questione della legge insiste in modo rilevante, come se non fosse possibile procedere senza stabilire leggi, non solo nella scienza, noi stiamo parlando molto più in generale, e cioè che non è possibile proseguire a parlare senza promulgare leggi mano a mano che si parla, ogni volta che si afferma qualcosa si promulga una legge: le cose stanno così. La legge naturale della causalità è una legge, in primo luogo e solo attraverso la quale i fenomeni costituiscono una natura e possono dare un oggetto di esperienza. Vale a dire, perché ci sia oggetto di esperienza occorre che ci siano delle leggi naturali di causalità. Quindi, prima devo stabilire delle leggi naturali di causalità, dopodiché posso determinare l’oggetto in quanto prodotto di queste leggi. La natura materialiter spectata (riguardo allo stato di cose di cui essa tratta, la natura nel senso della totalità della natura) è l’insieme dei fenomeni, in quanto questi, in virtù di un interno principio di causalità, sono connessi necessariamente. (pagg. 60-61) Questo è ciò che fa la logica, cerca dei principi all’interno di sequenze, dei principi che possano costituire delle leggi universali e, di conseguenza, lo fa anche la scienza che senza la logica non può fare nulla. La lettura che facciamo di Heidegger non è accademica, sfruttiamo Heidegger per trovarci delle idee, per farci riflettere ancora. Dunque, dicevo, tutto ciò che la scienza può fare è, per dirla con Heidegger, all’interno di un progetto, senza questo progetto non può aprirsi quello spazio all’interno del quale sono pensabili le leggi, come dire? prima devo avere un’idea di fare qualche cosa prima di fare quella cosa e questa idea di fare qualche cosa è quella entro la quale io mi muoverò svolgendo il compito che mi sono prefissato. Poco dopo: Ciò in cui Loro, pensando in modo scientifico-naturale, si sentono a casa propria, tutto questo ambito, chiamato natura, determinata materialiter et formaliter, è progettato da Galilei e da Newton. Continua a usare la parola progettato, non usa né stabilito né ideato né costruito né inventato ma progettato, e non è casuale. Questo progetto è stato compiuto o impostato in una supposizione tenendo conto della determinazione delle conformità a leggi, secondo cui dei punti-massa si muovono in spazio e tempo, ma per nulla affatto considerando quell’ente che chiamiamo uomo. Ciò che sta dicendo qui e che sia Galilei che Newton hanno considerato l’ente in quanto fuori dall’Essere, cioè fuori dal progetto, e quindi hanno pensato che questo ente possa muoversi in modo omogeneo rispetto a delle leggi, senza sapere che queste leggi sono state progettate in precedenza al fine di potere compiere quelle affermazioni. Ciò che sta dicendo, più o meno tra le righe, è che questo è il modo della scienza e, quindi, anche della tecnica, e cioè immaginando che ciascuna cosa sia fuori dal progetto e che, quindi, sia un ente identico a sé, per virtù propria, e quindi osservabile, analizzabile, ecc., perché questa è la condizione della scienza e quindi la condizione per potere manipolare l’ente, immaginarlo, pensarlo o, più propriamente, progettarlo fuori dall’Essere, cioè fuori dal progetto, paradossalmente. Qui quando parla dell’uomo ovviamente parla del progetto, nulla affatto di quell’ente che consideriamo uomo, il quale uomo è lui che progetta. Sta dicendo che questi enti, questi punti, questi spazi, sono progetti dell’uomo, non esistono senza l’uomo che li ha progettati, quindi sono vincolati all’uomo. Dalla scienza della natura l’uomo può venire determinato solo come qualcosa di semplicemente-presente nella natura. Quindi, come un ente fra gli enti, non come quell’ente che ha progettato tutto quanto e per cui vincola al suo progetto tutto quanto, che è invece pensato fuori dal suo progetto. Sorge il problema: in questo modo l’essere uomo è in generale incontrabile? Se posto così, cioè come un ente fra gli enti, si può incontrare un uomo, un uomo cioè inteso come progetto? All’interno di questo progetto scientifico-naturale lo possiamo vedere solo come un essere naturale, vale a dire avanziamo la pretesa di determinare l’esser uomo con l’aiuto di un metodo per nulla affatto progettato riguardo alla sua essenza particolare. Cioè, è come se considerassimo l’uomo come un ente, al di fuori del progetto, immaginando di fare tutte queste operazioni cogliendo l’essenza dell’uomo, che non esiste perché l’uomo è il progetto stesso. Domandiamo: in che cosa si fonda questo progetto scientifico-naturale della natura? In che cosa ha la sua verità? Lo si può dimostrare? Non lo si può dimostrare. Si possono unicamente considerare gli effetti, le effettuazioni, che possono essere raggiunte dal pensiero scientifico-naturale, come un criterio che indichi che il metodo scientifico-naturale è appropriato al suo ambito oggettuale. Cioè, può soltanto verificare ciò che ha già stabilito in partenza e non può uscire da lì. L’effetto, però, non è mai una dimostrazione, tanto meno un criterio per il contenuto di verità del metodo conducente all’effetto. Che senso ha l’effetto? La dominabilità della natura. Nietzsche dice: “La scienza della natura con le sue formule vuole insegnare il soggiogamento delle forze naturali: essa non vuole porre al posto della concezione empirico-sensibile una concezione ‘più vera’ (come vuole fare la metafisica)”. (pagg. 61-62) Questa è la grande posizione di Nietzsche quando diceva “non illudetevi che la ricerca scientifica o filosofica abbia come proprio obiettivo la pura verità. Per niente, l’unico suo obiettivo è la volontà di potenza, non gliene importa niente, né della verità né della certezza, nulla, tutte queste cose sono soltanto funzionali alla volontà di potenza.