23 ottobre 2024
Filone Commentario allegorico alla Bibbia
Ci troviamo ad affrontare la questione dell’ermeneutica, la teoria dell’interpretazione. È una questione importante per una serie di motivi, non ultimo il fatto che in tutto il Novecento l’interpretazione, cioè l’ermeneutica, l’ha fatta da padrona, ancora oggi, almeno nella cosiddetta filosofia continentale. Quindi, l’ermeneutica non è altro che il modo in cui si è fatta filosofia e si continua a fare tutt’oggi: tutti i filosofi sono ermeneuti, tranne rare eccezioni, per esempio Severino. Quindi, l’ermeneutica è anche il modo in cui ciascuno si rapporta al mondo che lo circonda, tentando in tutti i modi di ricondurlo all’uno. Qui nella prefazione alla Filosofia mosaica di Filone, verso la fine Radice fa una notazione molto breve ma significativa, perché parla del circolo ermeneutico a proposito di Filone. Filone muove dalla fede, per lui questo non si discute; poi, dalla fede passa all’intelletto, cioè, allo studio, e trova le ragioni filosofiche alla sua fede; quindi, a questo punto ritorna sulla fede corroborandola, dando alla sua fede ancora più forza. Dunque, la fede e poi la filosofia che torna alla fede: ecco il circolo ermeneutico. Si è sempre usata l’interpretazione, da moltissimo tempo. Dice Radice. Gli studiosi rilevano, molto probabilmente a ragione, come l’idea, che la verità si nasconde sotto i simboli, debba essere nata nell’ambito dei misteri orfici o, meglio, nella fase più matura dell’evoluzione di questi misteri. È in questa fase, infatti, l’iniziazione ai misteri consisteva non solamente nella partecipazione alla conoscenza di miti e nel prendere parte a certe cerimonie, ma soprattutto nella penetrazione del loro significato riposto. Del resto, ci sono pervenuti i documenti da cui risulta chiaramente che i seguaci dei misteri orfici vantavano la superiorità della parola di Orfeo su quella dell’oracolo delfico e motivavano questa superiorità appunto col fatto che, mentre l’oracolo delfico parlava un linguaggio aperto, ossia si esprimeva alla lettera, Orfeo parlava per simboli. Il parlare per simboli era dunque inteso come una superiore forma di linguaggio e di conoscenza. /…/ Filone stesso, e questo è assai significativo, assimila più volte l’interpretazione allegorica della Sacra Scrittura all’iniziazione misterica e non esita ad attribuire ad antiche fonti, con ciò stesso legittimandone l’uso, l’origine dell’esposizione simbolica e metaforica, come risulta chiaramente dal seguente passo. In effetti, dice Filone, la maggior parte dei dottori della legge ebraica, si intende del loro insegnamento filosofico, sulla scia di un antico metodo di ricerca è dato per mezzo di simboli. Tale metodo, osserva ancora Filone, non fu retaggio esclusivo della sapienza giudaica, ma parrebbe patrimonio universale dello spirito umano, tanto è vero che lo stesso Mosè lo acquisì dalla scienza egiziana. Ho letto questa cosa perché, in effetti, è chiaro che l’interpretazione è una cosa piuttosto antica, molto più antica di Filone: però, lì già appare qual è la questione del parlare oscuro, del parlare per simboli, per allegorie. Lo dice a un certo punto: dà potere. Dà potere perché allude a una conoscenza segreta, che è superiore a quella altrui. Poi, che questa conoscenza ci sia oppure no, questo non c’entra niente. Parlare per allegorie, per simboli, è come se ponesse a un piano superiore, perché gli altri devono fare uno sforzo per elevarsi al mio livello. Abbiamo visto questa struttura soprattutto nei neoplatonici: elevarsi, ascendere verso l’uno è una cosa faticosa, perché occorre abbandonare tutto ciò che di sensibile attrae, cioè il piacere; quindi, affrancarsi dal piacere, abbandonare tutti i sensibili e, finalmente, elevarsi verso l’uno. Questa operazione di ascesi è sempre accompagnata da una fatica, da una rinuncia, in vista di un bene assoluto, totale. È vero che l’interpretazione è sempre esistita, però, pare sia proprio con Filone che l’interpretazione, l’ermeneutica, si istituisca. C’era anche prima, sì, però veniva utilizzata solo in qualche circostanza, ma è stato Filone a dare all’esegesi dell’allegoria una sorta di primato, di priorità, una dignità filosofica, teoretica, che prima non aveva. Filone gliela dà, appunto con l’interpretazione allegorica della Bibbia. Perché fa questa interpretazione della Bibbia? Un motivo c’è, e cioè si accorge che nella Bibbia, in ciò che dice, ci sono delle contraddizioni, dei problemi. E, allora, la sua idea fu quella, avvalendosi del pensiero teoretico greco, di risolvere questi problemi. Come risolverli? Dando a certi passi, a certe affermazioni problematiche, un senso differente. Il termine allegoria contiene il greco ἄλλος, “altro”: la lettera dice così, sì, però in realtà voleva dire quest’altra cosa, e quest’altra cosa che voleva dire non è più in contraddizione con un’altra, perché è fatta in modo da non opporsi anche lei a qualche cosa, ma fare in modo che tutto possa filare liscio. La cosa centrale in tutta la ermeneutica, di cui nessuno ha mai parlato, è il fatto che si fonda sull’idea di emanazione. Senza la teoria dell’emanazione, cioè, della processione per Plotino, non c’è ermeneutica, nel senso che l’interpretazione è tale quando si presuppone che ciò che viene interpretato appartenga a ciò che deve essere interpretato e che, quindi, proceda da lì. È questo che garantisce che l’interpretazione sia corretta, perché sennò l’interpretazione potrebbe dire tutto e il contrario di tutto: perché piove? Perché questo posacenere è verde. Quindi, l’interpretazione deve presupporre che ci sia un passaggio possibile tra un antecedente e un conseguente, quel passaggio che Aristotele aveva rilevato essere fortemente problematico, tanto che non c’è la possibilità di passare dall’antecedente al conseguente, dalla protasi all’apodosi, se vogliamo dirla in termini retorici. Non c’è, ma se non c’è allora questo passaggio che compie l’interpretazione interpretando qualcosa, chi lo autorizza? Nessuno, cioè l’interpretazione è un racconto a fianco, che corre parallelamente a quell’altra cosa che vuole interpretare, ma che può anche non c’entrare assolutamente nulla, e, di fatto, non c’entra nulla. Poi, lo si fa centrare nel senso che gli si attribuiscono delle cose, ma, di nuovo, utilizzando altre interpretazioni, cioè, gli si attribuiscono cose che paiono appartenere a quell’altra cosa, ma “appaiono” appartenere, per analogia, naturalmente. E questo è il problema dell’interpretazione che potrebbe indurci a pensare che non c’è interpretazione o, più propriamente, che l’interpretazione non è che un altro racconto rispetto a ciò che deve essere interpretato; ma è un altro racconto che non può porsi in nessun modo come esegesi, come spiegazione del primo, non può, perché è un’altra cosa, letteralmente. A proposito di Filone, a pagina 34, dove trova un problema nella Bibbia, nel Pentateuco, e cioè che da una parte Dio viene descritto come inattivo, dall’altra parte come colui che agisce, che fa le cose. Questo è un esempio di una contraddizione nella Bibbia che Filone vuole risolvere, dirimere. E, allora, dice così. Siamo nell’Introduzione. Ecco il nocciolo della questione: Filone è spinto ad una tale “trasgressione” del senso letterale della Scrittura, proprio da un’istanza di netto stampo filosofico, vale a dire al fine di respingere la concezione di un Dio inattivo, di cui alcuni filosofi greci avevano rilevato l’intrinseca contraddittorietà. Se questo Dio è inattivo, allora non crea, se ne sta lì per conto suo, non fa niente. Sappiamo che poi Plotino ha risolto il problema con l’emanazione. Dunque, il nostro filosofo parte della Bibbia e alla Bibbia ritorna; ma vi torna arricchito di un cospicuo bagaglio teoretico. In un punto, però, il paradigma ermeneutico giudaizzante coglie perfettamente nel segno: cioè, là dove proclama la superiorità della Scrittura sulla filosofia, ossia la preminenza della “fede” sulla “ragione”. Cosa che poi si è mantenuta e anche ampliata con il cristianesimo, naturalmente. Effettivamente, anche dal semplice esempio appena riportato risulta evidente che l’attenzione di Filone è sempre rivolta al testo sacro, e, in rapporto a questo, l’apparato filosofico risulta strumentale. Facevamo prima l’esempio del circolo ermeneutico: si parte dalla fede e si arriva alla filosofia; la filosofia consolida, conferma la fede, e, quando ritorna alla fede, questa è confermata, risulta più forte. Se esaminiamo il significato originario del principio della “causa attiva” nell’ambito stoico, da cui è stato preso, troviamo che qui tale concezione è strutturalmente connessa ad una realtà corporea e materiale. Filone, invece, si riferisce ad una realtà soprasensibile, giacché, per il nostro filosofo Dio è chiaramente di natura incorporea e spirituale. Dunque, l’Alessandrino, come non si attiene alla lettera della Scrittura così, analogamente, non si attiene neppure alle originarie connotazioni speculative dei concetti filosofici, procedendo a radicali trasformazioni ogni volta che essi non rientrano nel suo quadro categoriale di fondo. Nell’interpretazione io accolgo soltanto ciò che conferma ciò che già penso; per cui il circolo ermeneutico, sì, certo, va bene quello che dice rispetto alla fede, ma se noi lo applicassimo invece a qualunque interpretazione? Io parto da delle mie idee, dalle mie convinzioni, da ciò che credo di sapere, il famoso δοξάζειν; poi, partendo da qui, con la filosofia, cioè, con il ragionamento, costruisco delle argomentazioni, dei sillogismi, i quali sillogismi tornano a confermare ciò che io credo di sapere, che a questo punto è bello, confermato, inamovibile, certo e incontrovertibile. Funziona così il pensiero degli umani? Andiamo avanti. Qui c’è tutta una lunga disquisizione che fa lui sull’esegesi di Filone, le varie interpretazioni filoniane, ecc. ecc. A pag. 42. …gli elleni non ebbero testi sacri, ossia una Parola scritta ritenuta frutto di divina rivelazione in modo globale in senso ben preciso, e che, per conseguenza, essi non si trovarono di fronte al problema della “fede” nel vero senso della parola e in tutta la sua sconvolgente portata nei rapporti con il puro logos. Filone, invece, aveva di fronte a sé sia i testi sacri sia i testi dei filosofi e, certo com’era dell’ispirazione divina dei primi (e dunque per loro infallibilità), da un lato, ma, dall’altro, convinto anche della validità dei secondi, doveva porsi necessariamente il problema dei rapporti delle due “Parole”. La parola di Dio e la parola dei filosofi. A quale delle due Parole deve dare priorità chi vuole filosofare? Al problema Filone risponde in modo chiaro; anzi seppe fornire un tipo di soluzione che era destinato a fare epoca. È proprio il nostro filosofo, infatti, il primo a interpretare i rapporti sussistenti fra la filosofia (ragione e parola umana) e la rivelazione (parola divina) e quindi fra la filosofia e la fede nella rivelazione divina in termini di “subordinazione ancillare”… Questo ricorrerà poi continuamente nel Medioevo: la filosofia come ancella della fede. …formulando quella dottrina che con i Padri della Chiesa e con i pensatori della Scolastica era destinata a diventare canonica, ossi la teoria del “rapporto ancillare”. Già da tempo, i Greci devono interpretare i rapporti fra le arti e le scienze particolari, da un lato, e la filosofia, dall’altro, in senso ancillare. Orbene, Filone riprende questa idea e la porta fino agli estremi limiti di rottura con la mentalità greca. Così come le arti e le scienze sulle quali si basa la cultura generale, sono asservite alla filosofia, analogamente, la filosofia è asservita alla “sapienza” della fede: “come le discipline encicliche (le scienze sulle quali si basa la cultura generale) contribuiscono all’acquisizione della filosofia, così contribuisce la filosofia all’acquisizione della sapienza (la sapienza che viene dalla fede). La filosofia è ricerca della sapienza e la sapienza è scienza delle cose divine e umane e delle loro cause. /…/ Non ci stupiremo, pertanto, di leggere affermazioni come queste: “La cosa migliore è quella di avere fede in Dio e non in ragionamenti oscuri e in congetture insicure. Se riponiamo fiducia nei nostri pensieri, costruiremo e fortificheremo la città dell’intelletto che distrugge la verità”. Qui aveva capito qualcosa dei greci. Se ci fondiamo solo sull’intelletto, cioè, sull’argomentazione, distruggiamo la verità, quella divina, e questo non s’ha da fare. Ma gli era balenata questa idea, perché ciò che pensano gli umani, ciò che hanno pensato i filosofi - Aristotele in prima istanza, ma non solo lui, anche i presocratici - è qualche cosa che distrugge la verità epistemica. Invece, quella di Filone è verità epistemica, è la parola di Dio e non si discute. Un raffronto con Platone è particolarmente indicativo ai fini della corretta comprensione della radicalità del mutamento della prospettiva filoniana, ossia della “filosofia mosaica”, rispetto alla prospettiva dei Greci. Platone aveva usato il termine fede o credenza per indicare un momento della conoscenza sensibile, vale a dire per indicare un momento del mero “opinare”, limitato al mondo sensibile fenomenico e, quindi, per lo più fallace e mai saldo. Proprio quella parola pìstis diventa, in Filone, la via più sicura che porta all’Essere. È evidente, dunque, che il messaggio biblico, in questo punto è essenziale, ha messo in crisi l’intellettualismo dei Greci e ha, addirittura, impresso una nuova cifra al filosofare. Ora, non ha messo in dubbio né in crisi assolutamente niente, però, ci mostra come abbia tentato in tutti i modi di piegare la filosofia, in questo caso di Platone, alla sua idea, compiendo esattamente quell’operazione, di cui dicevamo prima: si parte dalle mie fantasie, dalle mie superstizioni, poi con le deduzioni, con l’argomentazione, con i sillogismi, confermo le mie superstizioni e, alla fine, le mie superstizioni diventano il tutto. A pag. 46. Di minore rilievo, ma tuttavia significative, sono le sollecitazioni che Filone trasse dalle altre filosofie ellenistiche, in particolare dal cinismo e dallo scetticismo. Ai concetti cinici il nostro filosofo si rifà soprattutto nell’interpretazione del piacere come male e, quindi, come fonte di peccato. Lo scetticismo, pur respinto nelle sue conseguenze ultime, è sapientemente sfruttato come una sorta di deterrente contro la presunzione della ragione di bastare a sé medesima… Vedete come ogni cosa viene piegata. Plotino, poi, era maestro in questo. …in tal senso egli utilizza ad esempio i celebri “tropi” resi canonici da Enesidemo. (E lo scetticismo - si badi - così com’era formulato da Enesidemo, se può mettere in scacco la ragione, non ha alcun gioco sulla fede… Questa è un’annotazione importante. …e quindi Filone lo può correttamente utilizzare senza essere messo in scatto). Perché la ragione non piega la fede. La ragione non può nulla contro le emozioni. Lo diceva anche Perelman: la persuasione punta al cuore, è lei che vince; mentre la convinzione, che punta alla ragione, invece, ha poco gioco a fronte delle emozioni, delle sensazioni. D’altra parte, lo stesso Aristotele, vi ricordate, diceva che si parte dal pathos, dall’emozione.
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La retorica ha sempre giocato su questo, sulle emozioni. Scatenare le emozioni o reprimerle, a seconda di cosa conviene sul momento. È fatta per questo, per dominare le emozioni, in un modo o nell’altro. Ma verrebbe da fare una considerazione: a quali condizioni una passione si domina? Occorre che ci sia, in un qualche modo, l’idea di una verità epistemica perché, quando una persona viene convinta di una qualunque cosa, questa persona poi crede che quella sia la verità incontrovertibile. Quindi, il presupposto della retorica, in effetti, è proprio questa illusione della verità epistemica. È un’illusione, perché con Aristotele sappiamo bene che non esiste nessuna verità epistemica, che poi diventa l’uno, l’ineffabile, l’indicibile, ecc. La verità epistemica non la si vede, non la si tocca e non la si può modificare, è l’immodificabile, perché, se potesse modificarsi, non sarebbe più l’assoluta certezza, sarebbe solo una possibilità. Quindi, questa verità epistemica, questa certezza assoluta, è ciò che funziona da presupposto; potremmo dire, allargando la cosa a dismisura, che funziona da presupposto a ogni conversazione. Non potremmo parlare se non ci fosse un appello in qualche modo a una verità epistemica, a una verità immodificabile, per cui “è così”; ci troveremmo di fronte a ciò che vi ho detto tante volte, all’impossibilità di parlare. Se ci attenessimo al fatto che ciascuna parola è altro rispetto a se stessa, cioè dice di se stessa dicendo altro, non potremmo parlare, come faremmo? Non sapremmo di che cosa stiamo parlando, non sapremmo, usando una qualunque parola, che cos’è quella cosa che stiamo dicendo, non lo potremmo sapere, e così non potremmo parlare. Dunque, appare necessaria questa presupposizione di una verità epistemica, cioè, di un Dio. In fondo, questa verità epistemica, che è immodificabile, inalterabile, indicibile, incorruttibile, è l’idea dell’uno, cioè di Dio, è l’uno ad essere tutte queste cose. Per questo ci è capitato di dire che per parlare occorre, in un certo senso, una teologia platonica, teologia perché presuppone che ci sia questa verità incontrovertibile, platonica perché Platone è stato il primo a formalizzare questa storia con le sue idee. Le idee non mutano, la cosa, sì, è transeunte: adesso è così, fra mille anni questo libro magari non esisterà più. Quindi, parlare è, anche se può apparire quantomeno bizzarro, una teologia, nel senso che per parlare è necessario porre una verità epistemica incontrovertibile per potere andare avanti. La questione è che dobbiamo necessariamente presupporre che ogni parola che diciamo sia quella. Esattamente come con i numeri: non puoi scrivere 2 pensando che magari sia un 3, forse un 5, o che può diventarlo in qualunque momento. E così con le parole: ciascuna parola si presuppone che rimanga quella che è o, meglio, quella che io penso che sia, quella che io credo che sia, che voglio che sia e che rimanga quella che è. Prosegue. Gli epicurei furono invece quasi solo oggetto di polemica. Ma sullo sfondo delle grandi filosofie ellenistiche, all’epoca di Filone… Quindi, diciamo primo secolo d.C.; lui scriveva queste cose intorno al 50-57, d.C., più o meno. …si stavano ormai profilando le rinascite del pitagorismo, del platonismo e dell’aristotelismo. Della rinascita dell’aristotelismo, che rimise in circolazione l’opera esoteriche dello Stagirita, Filone non sembra aver beneficiato in modo specifico. Egli conosce soprattutto le opere essoteriche, ossia quelle opere che Aristotele aveva pubblicato e che in larga misura si rifacevano le visioni platonica. Il neopitagorismo venne da Filone sfruttato soprattutto per l’interpretazione simbolica dei numeri ai fini dell’esegesi di certi passi della Scrittura, come, in modo particolare, si legge in De opificio mundi (creazione del mondo). Invece, predominante risulta l’influsso del platonismo. Infatti, non solo Filone recupera il concetto dell’incorporeo, ma ritiene di ritrovare addirittura nella Bibbia la dottrina delle idee. Vedete come funziona l’interpretazione. Dunque, sembra corretto parlare senz’altro di un platonismo di Filone. Nessuno lo aveva mai messo in dubbio. Ma che tipo di platonismo è quello riproposto dal nostro filosofo? Si tratta di una nuova forma di platonismo, riformato in alcuni punti essenziali. Ecco, i principali: (a) Filone guadagna in pieno il concetto dell’incorporeo e, così, si riaggancia all’autentico spirito del platonismo, al di là dei fraintendimenti dell’Accademia eclettica. (b) Riforma il concetto di Dio, ponendolo al di sopra delle Idee. Qui si distanzia da Platone. (c) Riforma la concezione delle Idee, facendole produzione e pensieri di Dio. Filone, meglio ancora il medio-platonismo, effettivamente è quell’anello di congiunzione tra il platonismo e il neoplatonismo. Perché è Filone che fa delle idee una produzione e un pensiero di Dio, cosa poi ripresa da Plotino. (f) Trasforma, infine, l’antropologia, introducendo alcune novità rivoluzionarie nella concezione dell’anima, che frantumano non solo gli schemi della psicologia platonica, ma anche quelli di tutta la grecità. Alcune di queste riforme risultano proprie anche di altri platonici pagani tra la seconda metà del primo secolo a.C. e gli inizi del secondo secolo d.C. e costituiscono alcuni dei tratti distintivi di quella che oggi viene denominato “medio-platonismo”. (Il medio-platonismo - si badi - nacque proprio nella città natale (Alessandria) di Filone, nella seconda metà del primo secolo d.C. Ora parla un po’ dell’allegorismo nella cultura ellenica. L’allegoria è sempre stata presente, è sempre esistita, non è un’invenzione di Filone, ma lui ne ha fatto una filosofia, cosa che i Greci non avevano fatto. A pag. 48. Nell’ambito della cultura letteraria ellenica, i grammatici alessandrini interpretavano Omero ed Esiodo in chiave allegorica, e tale tipo di interpretazione di questi poeti venne vieppiù sviluppandosi fino a raggiungere l’acme con i Neoplatonici. Ma anche nell’ambito dell’indagine filosofica, il metodo allegorico era stato applicato prima di Filone. Ricordiamo, anzitutto, i miti dei dialoghi platonici, la cui funzione allegorica è addirittura portata a livello tematico. Platone stesso, infatti, avverte i suoi lettori a non prendere inizio alla lettera ma solo nella loro capacità allusiva ed esplicativa di concetti o, meglio, di intuizioni, che il procedimento meramente razionalistico da solo non saprebbe evocare. Cioè, ha uno scopo retorico, in fondo. Ecco, a esempio, l’affermazione più significativa, che si trova nel Fedone. Dopo aver narrato il mito che riguarda la sorte delle anime dopo la morte, scrive Platone: “Chiaramente, sostenere che le cose siano veramente così come io le ho esposte, non si conviene ad un uomo che abbia buon senso; ma sostenere che questo o qualcosa di simile a questo debba accadere nelle loro dimore, dal momento che è risultato che l’anima è immortale: ebbene, questo mi pare che si convenga e che metta conto di arrischiarsi a crederlo, perché il rischio è bello E bisogna che, con queste credenze, noi facciamo l’incantesimo a noi medesimi: ed è per questo che da un pezzo protraggo il mio mito”. È interessante quello che dice qui nel Fedone: fare un incantesimo su se stessi, non ragionare e giungere a una certa conclusione ma fare un incantesimo. A un certo punto credo sia così. Perché? Perché sì, perché è bello. La funzione allegorica del mito consiste nel fatto che esso non sottometta a sé il logos, ma fa piuttosto da stimolo al logos medesimo, fecondandolo e, in un certo senso, arricchendolo appunto con la sua potenza allusiva. Sì, certo, il mito è retorica, è una illustrazione retorica di certi eventi. Il logos: qui bisognerebbe vedere in quale accezione ne parla lui. Cosa dice il logos? Se seguiamo Aristotele, il logos dice che il mito è un racconto bello, interessante, ma qualunque racconto si fondi o voglia fondarsi su un universale non regge in nessun modo, cosa che ci condurrebbe a pensare che il mito non è altro che doxa, una forma della doxa. Cosa che non è poco, perché la doxa, in effetti, è ciò da cui si parte inesorabilmente; quindi, partiamo dal mito, dalle cose che crediamo, dal δοξάζειν, da ciò che si crede a essere vero, perché si è sempre creduto così, perché la nonna diceva così, perché ho letto che è così, ecc. A pag. 50. È stato però giustamente rilevato dal Bréhier che, sebbene la Stoa facesse uso dell’interpretazione allegorica, tuttavia non elevava l’allegoresi a metodo filosofico. Perché è questo che fa Filone: innalza l’allegoria a livello filosofico. I greci conoscevano perfettamente l’allegoria, ma non hanno mai compiuta quest’operazione. E questo è verissimo. Il Bréhier stesso, però, richiama l’attenzione su un documento filosofico in cui l’interpretazione allegorica è predominante e l’allegoresi diventa il metodo stesso del filosofare. Si tratta della cosiddetta Tavola di Cebete, uno pseudepigrafo neopitagorico. In questo scritto si interpretano le figure supposte dipinte da un seguace di Pitagora e di Parmenide (su un quadro certo in dono a Saturno), quali simboli dei vari stati dell’anima, del bene, del male e di ciò che non è né bene né male. Per giunta, l’interpretazione del quadro è presentata come una sorta di iniziazione o, per lo meno, come la rivelazione di un’esoterica sapienza che l’autore del libro sostiene di avere avuto dell’autore stesso del quadro. Scrive a questo proposito il Bréhier: “…il celebre piccolo trattato allegorico neopitagorico, intitolato Tavola di Cebete ci rivela una maniera di allegoria nel fondo e nella forma, che ha, nella maniera di Filone, numerosi punti in comune. L’allegoria stoica riguardava i personaggi e i racconti mitici trasmessi dai poeti o che si ritrovano nella religione popolare. Ma le dottrine filosofiche mediante le quali li interpretavano erano indipendenti da questi e sviluppate in precedenza e per se stessi. Tutto diverso è il metodo della Tavola di Cebete… Qui la pittura, l’immagine concreta, è il mezzo indispensabile senza il quale non si potrebbe giungere alla dottrina morale che rappresenta. La verità è di per sé nascosta, ricoperta come d’un velo dalle figure e bisogna penetrare il senso di queste figure per raggiungerla. Una cosiffatta idea fa dell’allegoria un metodo non più ausiliario, come presso gli Stoici, ma un metodo indispensabile per la ricerca della verità”. È questo che fa Filone: trasforma l’allegoria in un metodo di ricerca della verità, cioè, ha preso questa presupposizione che ci sia una verità nascosta e l’ha assurta a ipostasi: c’è una verità nascosta, bisogna trovarla. A pag. 5. Gli studiosi rilevano, molto probabilmente a ragione, come l’idea che la verità si nasconda sotto i simboli debba essere nata nell’ambito dei misteri orfici o, meglio, nella fase più matura dell’evoluzione di questi misteri. In questa fase, infatti, l’iniziazione ai misteri consisteva non solamente nella partecipazione alla conoscenza di miti e nel prendere parte a certe cerimonie, ma soprattutto nella penetrazione del loro significato riposto. Del resto, ci sono pervenuti i documenti da cui risulta chiaramente che i seguaci dei misteri orfici vantavano la superiorità della parola di Orfeo su quella dell’oracolo delfico e motivavano questa superiorità appunto col fatto che, mentre l’oracolo delfico parlava un linguaggio aperto… Quindi, la conoscenza come potere. L’allegoria dà il potere della conoscenza rispetto a coloro che si attengono semplicemente alla lettera, come se fossero di un rango inferiore, come se non avessero la capacità di elevarsi al di sopra. A pag. 53. L’Alessandrino distingue, in prima istanza, due tipi di esegesi del testo biblico: quello allegorico e quello letterale. Consideriamo, dunque, quanto egli stesso ci dice in proposito: “L’interpretazione della sacra Scrittura si realizza sulla scorta del significato allegorico. L’insieme delle leggi, per questi uomini, i Terapeuti (un gruppo di ebrei), è simile ad un essere vivente: il corpo è la prescrizione letterale, l’anima è lo spirito invisibile riposto nelle parole. Questa è l’idea che ha lui, cioè, l’anima è quello spirito invisibile che c’è nelle parole; non è visibile, quindi, deve essere in qualche modo recuperato. Per esso l’anima razionale è entrata in una contemplazione superiore degli oggetti che le sono propri… Oggetti che le sono propri: sta qui la questione perché, se non gli fossero propri, non succederebbe niente. …essa ha visto, riflessa nelle parole, come in uno specchio, la bellezza straordinaria delle Idee, ha scoperto ed evidenziato i simboli, ha svelato i pensieri e li ha messi in luce, per coloro che riescono, a partire da minimi indizi, a risalire dal visibile alla contemplazione dell’invisibile”. L’esempio è eloquente. Il paragone delle due dimensioni dell’interpretazione della Scrittura con l’anima e il corpo dell’uomo rivela, ad un tempo, la necessità e l’inferiorità dell’esegesi letterale, rispetto a quella allegorica... È quella allegorica che importa, cioè, quella che scopre la verità nascosta. …l’una dà, per così dire, l’aspetto esteriore e il punto di partenza, l’altra lo spirito autentico della parola rivelata. L’allegoria ha questo obiettivo: far scaturire, fare apparire la parola rivelata, cioè, la parola di Dio. Ecco cosa c’è nell’allegoria, e di conseguenza, nell’ermeneutica.