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23 ottobre 2019

 

La fenomenologia dello spirito di Hegel di M. Heidegger

 

Siamo alle Considerazioni preliminari a pag. 67. La Fenomenologia dello spirito vuol essere da noi concepita, e cioè vuol essere in noi realmente, come scienza – intendendo questa parola nel significato della scienza che il sistema stesso è in quanto sapere assoluto. Questo deve venire a se stesso. Perciò quel breve paragrafo DD, che ha per titolo “il sapere assoluto”, costituisce la fine dell’opera. Se il sapere è del tutto se stesso, sapere che sa, solo alla fine e se è tale in quanto diventa tale nella misura in cui viene a se stesso, e vi giunge però solo nella misura in cui diventa altro da sé, bisogna allora che esso non sia ancora presso se stesso all’inizio del suo percorso verso se stesso. Esso deve essere ancora altro, e persino senza essere ancora diventato altro da sé. Il sapere assoluto deve esser altro dall’inizio dell’esperienza che la coscienza fa con se stessa, esperienza che non è altro che il movimento, la storia in cui accade il venire-a-se-stesso nel diventar-altro-da-sé. Ci sta dicendo quello che aveva detto in altre occasioni e che ripeterà ancora, e cioè che il sapere assoluto deve già essere presente, sennò non si avvia nulla. Il sapere assoluto, che sembrerebbe essere il punto di arrivo, in realtà è l’inizio. È come se dicesse che noi siamo già da sempre nel sapere assoluto; si tratta, anche qui, di accorgersene. Noi abbiamo indicato in varie occasioni il sapere assoluto come il sapere intorno al linguaggio, un sapere intorno all’intero, intorno al tutto. A pag. 68. Se ora il sapere nella sua fenomenologia deve fare l’esperienza con se stesso, col che viene a sapere ciò che non è e come stanno le cose con esso, ciò è allora possibile solo se il sapere che fa (compie) l’esperienza è già esso stesso in qualche maniera sapere assoluto. Ciò implica qualcosa di decisivo per la possibile chiarezza e sicurezza nella comprensione successiva dell’opera. In negativo: da principio non comprendiamo nulla, se non sappiamo già dall’inizio nella modalità del sapere assoluto. Dobbiamo aver rinunciato già dall’inizio, non solo in parte, ma completamente all’atteggiamento dell’intelletto comune e ad ogni atteggiamento naturale, per poter ripercorrere il cammino del sapere relativo, come esso rinunci a se stesso e giunga così davvero a se stesso in quanto sapere assoluto. Dobbiamo – e ciò è già implicito in quanto or ora detto – precedere sempre d’un passo ciò che di volta in volta è esposto e il modo in cui viene esposto, ed invero di quel passo che deve essere fatto appunto tramite l’esposizione di ciò che è esposto. Questo precedere è per Hegel possibile, perché è un precedere nella direzione del sapere assoluto che già dall’inizio è il sapere che sa autenticamente e che compie la fenomenologia. Questa è una delle questioni più importanti in Hegel, che Heidegger ovviamente sottolinea, e cioè il fatto che per iniziare qualche cosa deve esserci già tutto. Questo Heidegger lo indicherà dicendo che noi nasciamo nel linguaggio, siamo già sempre nel linguaggio, siamo già da sempre nel sapere assoluto, perché il sapere del linguaggio è il sapere assoluto, il linguaggio è già tutto lì, è l’intero. Il sapere assoluto è ciò che anche il sapere relativo – pur se non dispiegato – è già. Il sapere assoluto, quindi, è ciò che contiene anche il sapere relativo, che poi naturalmente integra, ma questo sapere relativo, potremmo dire particolare in un certo senso, è ciò che viene tolto e rimane poi il sapere assoluto, che però tiene sempre conto di ciò che ha tolto, non è che scompare. A pag. 69. “la ragione è la certezza della coscienza di essere tutta la realtà”. In questo “tutta” c’è già, in senso qualitativo, l’annuncio che nella ragione il sapere assoluto ha in qualche modo già raggiunto se stesso. Se tutta la realtà è già da sempre lì, non bisogna aspettare. Questo percorso della Fenomenologia dello spirito non è una sorta di iniziazione per gradi per poi giungere al sapere assoluto. Certo, la espone così perché non può esporla in un altro modo, ma ciò che lui intende dire, ed è la cosa più importante, è che è alla fine che si intende l’inizio; non solo, ma è alla fine che è possibile pensare l’inizio, che è possibile che l’inizio esista, soltanto con l’ultimo elemento. Questo primo essere-presso-se-stesso non è ancora veramente pervenuto a se stesso, non ha ancora fatto l’esperienza con se stesso, l’esperienza cioè che l’assoluto (ragione) è spirito. Perciò il capitolo C. (AA.) è seguito dal capitolo “(BB.) lo Spirito”. “La ragione è spirito, dacché la certezza di essere tutta la realtà è elevata a verità, ed essa è consapevole a se stessa di è come del suo mondo, e del mondo come di se stessa”. Che è poi quello che diceva Heidegger rispetto al mondo: il mondo sono io. Quando Hegel dice che il soggetto e l’oggetto sono lo stesso, sta dicendo esattamente la stessa cosa, cioè, non c’è più nessuna possibilità di mantenerli separati. Da qui l’importanza per Hegel della dialettica, cioè del superamento, dell’integrazione, per cui ciascun elemento, quando si pone, si pone sempre, per dirla in modo un po’ rozzo, a discapito di un altro, ma questo altro non viene mai abbandonato, rimane sempre presente. Quindi, questa sintesi non è altro che la produzione di un altro elemento, il quale a sua volta ripercorrerà lo stesso cammino, e così via. A pag. 71. La fine è solo l’inizio divenuto-altro e con ciò venuto a se stesso. Ciò implica però che la posizione di chi comprende e porta a compimento è, dall’inizio alla fine, dalla fine fino all’inizio, una ed identica – quella del sapere assoluto, del sapere che vede già l’assoluto davanti a sé. Qui è chiarissimo. La fine è solo l’inizio che è divenuto altro, il punto di “arrivo”, che sarebbe il divenuto-altro dell’inizio, ritorna sull’inizio, il quale a questo punto diviene altro, e solo divenendo altro diventa se stesso, diventa se stesso in quanto altro. A pag. 72. Perciò possiamo cominciare a comprendere realmente solo quando siamo già stati alla fine. E, in effetti, tutta la Fenomenologia è costruita così, la sua architettura è tale per cui, adesso forse esagero un po’, soltanto nelle ultime pagine si riesce a intendere tutto ciò che ha voluto dire. A pag. 77. Due brevi annotazioni sulla terminologia hegeliana. È stato già detto, e dapprincipio nel senso di un’affermazione: la Fenomenologia di Hegel è l’autoesposizione della ragione, che nell’idealismo tedesco viene conosciuta come assoluta e da Hegel interpretata come spirito; autoesposizione richiesta dal problema portante e fondamentale della filosofia occidentale. Ma il problema portante della filosofia antica e la domanda: τ τ ν? Cos’è l’essente? E questa domanda portante possiamo innanzitutto trasformarla nella forma preliminare della domanda fondamentale: Cos’è l’essere? Se mi chiedo che cos’è l’essente è perché è qualche cosa che è; quindi, la domanda si volge verso l’essere. La nostra interpretazione si compie sulla base di un presupposto che fa riferimento all’ambito di interrogazione della citata domanda fondamentale circa l’essere. Secondo la designazione esteriore del significato della parola “essere”, noi la usiamo tanto per ciò che qualcosa è, quanto anche per il modo in cui questo e quest’altro è, il modo della sua realtà effettiva. Usiamo “essere” in questo sdoppiamento, tutt’altro che ovvio, per qualsiasi cosa che non sia nulla, persino in quanto momento del nulla stesso. Hegel invece usa la parola “essente” e “essere” in senso terminologico forte solo per un determinato territorio dell’essente nel nostro senso, e sono per un determinato modo (Modus) dell’essere nel nostro senso. Ciò che Hegel chiama l’essente e l’essere, noi lo definiamo con i termini: “ciò che è semplicemente presente”… Questo per Hegel è l’essere: ciò che è semplicemente presente. …e la sua “semplice presenza”. Ma che Hegel faccia uso delle parole “essente” e “essere” in questo significato ristretto e di fatto del tutto determinato, non è l’arbitrio di una scelta casuale, né la caparbietà d’una costrizione terminologica propria, come si immagina la plebaglia filosofica: ma è in ciò già insita una risposta al problema di fatto dell’essere, quale fu dispiegato nell’antichità. Che cos’è l’essere? Ciò che è semplicemente presente, ciò che appare. Tutta la questione di Heidegger dell’apparire, del φανεσθαι, ecc., è presa da qui. A pag. 83, Capitolo Primo, La certezza sensibile. Heidegger in questo primo capitolo affronta la questione della certezza sensibile. Si tratta a questo punto di intendere che cos’è che appare. Abbiamo parlato della semplice presenza, ma questa semplice presenza fa apparire che cosa? E come? Come accade che qualcosa appaia. E inizia così. Il modo della mobilità nell’accadere della storia dello spirito in quanto venire-a-se-stesso, mostra subito una singolare monotonia ed uniformità, che si estende spesso fin nel costante impiego di determinate formule. In effetti, c’è questo ripetere costante in Hegel di questa struttura, potremmo chiamarla architettura che lui pone in essere in tutta la Fenomenologia dello spirito, e cioè il fatto che qualche cosa si pone ma, ponendosi, diventa altro per la coscienza e questo divenuto altro ritorna alla coscienza, la quale coscienza a questo punto diventa altro, diventa un’altra cosa. In Hegel questo processo è continuo, incessante. Ma proprio riguardo a questa monotonia non si può tralasciare come ogni grado preso per se stesso abbia la sua propria realtà. Anche per questo la nostra interpretazione non può muoversi in uno schema rigido in cui vengono costretti i singoli capitoli nella loro successione; piuttosto, ogni capitolo esige un modo proprio di essere esaminato interpretativamente e ripercorso… A pag. 85. Qui ha già introdotto la questione del “noi”: qualche cosa è per noi, nel senso che ci giunge come un qualche cosa che noi sappiamo che è così; lo sappiamo perché noi siamo da sempre nel sapere assoluto. …i “noi” sono quelli che già da prima sanno assolutamente e intendo e determinano nel modo di questo sapere. Il modo di questo sapere è sapere non relativamente, non dipendere soltanto e sempre da un appena saputo, ma, svincolandosi da questo, sapere il sapere di questo saputo;… L’autocoscienza, cioè, un sapere che sa di sé di sapere. …non risolversi nel saputo, ma trasmetterlo in quanto tale, in quanto saputo là dove esso pertiene e da dove si origina – nel sapere di esso; trasmettere il saputo nel sapere di esso e sapere così la mediazione tra i due – ciò vuol dire: questo sapere che media riprende ora esso stesso ciò che sa solo come mezzo con l’aiuto del quale esso sa un saputo originario in quanto tale. Il mediare trasmette di nuovo se stesso nel medio con l’aiuto del quale essa sa il suo saputo, e così via. Che è ciò che intendevo prima. Quando Hegel parla del medio, del mediare, parla del superamento. Quindi, qualche cosa viene posto, il sapere sa il suo saputo; questo saputo, che è altro dal sapere, torna al sapere, ma a questo punto il sapere, in seguito a questo ritorno, diventa un sapere altro da ciò che era prima. È questo il modo di procedere di Hegel, continuamente. Pag. 86. “Noi” – quelli che sanno della scienza. “Noi” – a questi è tolto sin dall’inizio d’essere questo o quello, un qualsiasi io a piacere. Questi “noi” non è che siano chissà chi, “noi” siamo noi che ci troviamo già da sempre nel sapere assoluto. Solo a questa condizione possiamo dire “noi”. A pag. 87. Questo immediato… La semplice presenza, di cui parlava prima. …in quanto oggetto del sapere che è oggetto immediato per noi che sappiamo assolutamente, Hegel lo chiama l’essente. Questo sapere immediato, l’essente, è per noi, non è per sé, non è qualcosa che esiste senza di noi, esiste per noi in quanto essente, sennò non esisterebbe. Abbiamo di conseguenza nel nostro sapere due oggetti, cioè due volte un oggetto – ed invero in modo necessario e costate per tutto il corso della Fenomenologia, poiché l’oggetto è per noi sostanzialmente e costantemente il sapere che ha già in se stesso di nuovo, conformemente alla sua essenza formale, il proprio oggetto, e lo porta con sé. Quindi, l’oggetto non è altro che il sapere. È ovvia la distanza che Hegel pone tra sé e tutta la filosofia: l’oggetto non è qualcosa che sta di fronte o, meglio, sta sì di fronte ma in quanto sapere; non in quanto altro, un’altra cosa che non ha nulla a che fare con il sapere o con me, ma è qualcosa che esiste perché io mi trovo già nel sapere assoluto e, quindi, questo oggetto, a questo punto, può apparire. È interessante la ripresa che fa qui Heidegger a questo riguardo, intorno all’essere, all’essere come quell’orizzonte, che è la condizione perché si possano manifestare gli enti, senza l’essere gli enti non si possono manifestare. Ma questo manifestarsi degli enti è un qualche cosa che ha come condizione il linguaggio, l’apertura del linguaggio. Quando Heidegger parla di apertura a me piace pensare all’apertura della parola, e cioè al fatto che tra il mio dire e il detto, ciò che dico, c’è un’apertura. Ed è lì che le cose possono esistere, soltanto s c’è questa distanza qualche cosa può porsi, sennò non si pone nulla, sarei come un animale, per il quale le cose non esistono, non ci sono. Perché possano esistere occorre quest’apertura. Ecco, quindi, come può anche intendersi ciò che Heidegger dice dell’apertura, dell’essere come apertura, come radura, Lichtung: l’apertura della parola, dell’atto di parola. Ogni volta che si parla si instaura questa apertura e lì può comparire l’ente, solo a questa condizione, cioè, che ci sia il linguaggio. Ma appena si è data questa apertura, e su questo Heidegger non aveva torto, si richiude, nel senso che si avvia uno spostamento immediato su un’altra cosa. Hegel porta acutamente ad espressione questo rapporto tramite la distinzione tra l’“oggetto per noi” e “l’oggetto per esso” – per esso, cioè per il sapere rispettivo che è oggetto per noi. Ma nella misura in cui il sapere che è nostro oggetto è sapere soltanto perché qualcosa è saputo per esso, rientra nell’oggetto per noi appunto anche l’oggetto per esso. Anche l’oggetto per esso, per sé, rientra nell’oggetto per noi, i quanto è per esso ma per noi. Siamo noi che diciamo che è l’oggetto per esso, per sé; se noi non ci siamo questo oggetto è niente. Ora, l’esperienza che la coscienza fa di se stessa nella Fenomenologia, è proprio questa, che essa perviene a sapere che l’oggetto per essa non è quello vero e che la verità del suo oggetto sta proprio in ciò, che esso è per noi, per noi che sappiamo il sapere e il suo saputo già nel suo esser-tolto – e che lo sappiamo sostanzialmente così, seppure ancora in modo non esplicitato. È per noi che tutto questo ha un senso, un significato, che esiste. Esiste per noi che, essendo nel linguaggio, nella parola, siamo coloro i quali sono in quanto sono in quell’apertura che c’è nell’atto di parola, apertura che sola consente l’esistenza, l’apparire degli enti. L’ente può apparire soltanto in questa apertura. Infatti, per un leone non c’è nessun ente. A pag. 88. L’oggetto per noi, coloro che sanno la scienza, è sempre un sapere. È sempre un sapere, cioè, non è una qualche altra cosa, è un sapere. E un sapere che cos’è? È una relazione, una relazione tra una cosa e un’altra. Quindi, potremmo anche dire che questo oggetto può sorgere, come dicevamo prima, soltanto in un’apertura, in una relazione, perché l’oggetto è questa relazione. Questa relazione, che è fondamentale, è quella attraverso la quale ogni cosa appare. Ora, come fa qualcosa ad apparire, tenendo conto naturalmente del linguaggio? Qualcosa appare, e questo Hegel non lo poteva ovviamente dire, anche se lo descrive, qualcosa appare nel momento in cui ciò che pongo si sposta verso altro, quindi aprendo questa distanza, e in questa distanza io colgo l’altro da sé di ciò che io pongo – ciò che io pongo diventa un’altra cosa – e, quindi, da questo momento in poi il porre qualche cosa comporta necessariamente l’esistenza di qualcosa. La condizione perché qualcosa esista è che ci sia questa distanza, e cioè che il mio porre qualche cosa si riveli altro da ciò che io pongo, da ciò che io voglio porre. Rivelandosi come altro si rivela in quanto qualcosa, qualcosa che non potrebbe esistere se non si aprisse questa distanza. A pag. 89. L’essere-in-sé e l’essere-per-un-altro “cadono” “nel sapere da noi indagato”. Questo sapere assoluto, che è il sapere che sta indagando, è ciò in cui cade sia l’essere-in-sé sia l’essere-per-un-altro, che non sono due cose separate, distinte, che vanno ognuna per conto suo; no, vengono integrate nel sapere assoluto. Cadono in questo stesso nella misura in cui noi, coloro che sanno assolutamente, lo sappiamo. Cadono in questo sapere assoluto in quanto noi sappiamo che cadono in questo sapere assoluto, in quanto noi sappiamo che appartengono a questo sapere assoluto; noi che sappiamo, dice, badate bene. Per il sapere astratto invece essi cadono in pezzi e al di fuori del sapere. Il sapere astratto. Qui, c’è Severino: l’astratto: astratto è ciò che ancora non è nella sintesi. Lui faceva l’esempio del soggetto e del predicato: questo è questo, A è A, uno soggetto e l’altro predicato. Se io li pongo come astratti, è chiaro che non cadono nello stesso sapere, perché sono due cose diverse. Sappiamo come Severino risolveva la questione, vale quello che vale, ma ha comunque colta la questione: ci vuole un’integrazione, un superamento, un’Aufhebung, per cui questi due aspetti non siano più astratti ma diventino il concreto, l’intero. Hegel fa volentieri uso di queste espressioni del cadere all’infuori e all’interno di ciò che, apparentemente, cade fuori-dentro nella verità del sapere assoluto prima d’ora ancora non esplicitato. Fa l’esempio di cose che rimangono separate; ecco, il pensiero astratto fa questo: mantiene le cose separate. In riferimento alla differenza che qualcosa è in se stesso e per un altro – cioè per un sapere di esso … L’essere qualche cosa per un altro: questo altro non è che il sapere di esso; è questa distanza, come dicevo prima, tra il mio dire e il detto, entrambi cadono nello stesso sapere, non sono separati, anche se posso immaginare che lo siano, ma in quel caso penso astrattamente e, quindi, non colgo la questione così come appare. È questo che diceva Heidegger all’inizio: mostrare ciò che appare, semplice presenza. Che cos’è la semplice presenza, a questo punto? Non è niente altro che il rilevare che ciò che dico si altera, è altro, dicendosi diventa altro rispetto al mio dire: è questo che appare, è questa la semplice presenza. In riferimento alla differenza che qualcosa è in se stesso e per un altro – cioè per un sapere di esso – Hegel utilizza anche i termini “oggetto” e “concetto”, “essenza”, ed invero in una alternanza caratteristica per l’intero problema. L’essente-in-se-stesso può significare l’oggetto, e l’essere-per-un-altro, cioè l’esser-saputo, il sapere, è allora il concetto. Oppure, l’essere-per-un-altro vuol dire oggetto, dunque ciò che sta-di-fronte (Gegen-stand), e di conseguenza ciò che esso è in se stesso: la sua essenza o il suo concetto. Entrambe le volte bisogna fare, nella fenomenologia, l’esperienza del se e come l’oggetto corrisponda al suo concetto o il concetto al suo oggetto. “Bene si vede che le due cose sono lo stesso; ma l’essenziale sta nel far sì che durante l’intera ricerca entrambi i momenti, concetto e oggetto, esser-per-altro e esser-in-se-stesso, cadano essi stessi nel sapere da noi indagato, e nel far sì che, quindi, noi non abbiamo bisogno di portare con noi altre misure, né di applicare nel corso dell’indagine le nostre trovate e i nostri pensamenti; anzi, lasciandoli in disparte, noi otteniamo di considerare la cosa come essa è in e per se stessa. Se ci asteniamo dal volere analizzare, dal volere, quindi, porli come astratti. Noi tralasciamo i nostri pensieri e le nostre idee – implica: noi, coloro che sanno assolutamente, non diveniamo tali in quanto intraprendiamo e prendiamo in aggiunta qualcosa di singolare e insolito, ma in quanto tralasciamo. Cosa vuole dire in quanto tralasciamo? Tralasciamo tutti i pensieri relativi all’astratto, ma ci atteniamo unicamente a ciò che appare. Il concreto non è altro che l’accogliere il funzionamento del linguaggio nella sua interezza, vale a dire, in questo differire continuo. Questo differire, chiaramente, poi diventa un’integrazione, un superamento, perché questo differire sposta il sapere verso qualche cosa che è altro, e questo altro viene integrato nel sapere stesso, che a sua volta diventa altro, e così via. Noi portiamo allo sguardo la cosa stessa solo se noi, gli osservatori, siamo coloro che sanno assolutamente. Questa è la condizione. Ma per designare l’assoluto in modo proprio riguardo al suo essere-assoluto il quale è un essere-assoluto che sa, vogliamo introdurre un termine che dia espressione più incisivamente a questa modalità del sapere assoluto: parliamo di un sapere assolvente – concepito nel distacco -, assoluto nell’irrequietezza. E possiamo allora dire: l’essenza dell’assoluto è l’assolvenza in-finita, ed in ciò allo stesso tempo la negatività e la positività in quanto assolute, in-finite. Questo termine “il sapere dell’assolvenza” è un termine che introduce Heidegger e che altro non è che il sapere assoluto; essendo sapere assoluto comporta allo stesso tempo la negatività e la positività, il porre qualche cosa e il togliere ciò che gli si oppone. La positività in quanto assoluta, cioè in-finita, in quanto la positività è presa comunque in questo processo infinito di porsi e di togliersi, di integrarsi, e quindi di riporsi, ecc., ecc. A pag. 91. Ciò che si dà al sapere assolvente della scienza quale suo primo oggetto deve darsi necessariamente come il sapere che per parte sua è proprio il sapere più immediato. Ciò che per primo dobbiamo considerare nel sapere assoluto è ciò che si dà immediatamente. E nonostante ciò Hegel dice nella seconda parte di A, che tratta del sapere come “percezione”: “il nostro apprendere la percezione” – in quanto oggetto del sapere assoluto – “non” è “più un apprendere apparente, come era quello della certezza sensibile, ma necessario”. Questa era una citazione di Hegel. Fra le righe di questa osservazione possiamo leggere che l’apprendere il primo oggetto che viene esposto nella Fenomenologia non è alcunché di necessario. D’altra parte la certezza sensibile, in quanto il sapere più immediato, non diventa a caso e a piacimento il primo oggetto; piuttosto Hegel dice espressamente che “non può esser nient’altro” che questo; di conseguenza la certezza sensibile deve essere il primo oggetto. La certezza sensibile: ciò che mi si pone immediatamente. Che cosa mi si pone immediatamente se non il mio dire, il mio dire che è sempre altro? È questa l’unica certezza sensibile. L’apprendere della certezza sensibile in quanto oggetto è dunque una volta non necessario, e poi la certezza sensibile è di nuovo necessariamente il primo oggetto. La certezza sensibile – nella sua oggettività, per il sapere assoluto, non necessaria eppure necessaria! Questa certezza sensibile, dice, è a un tempo necessaria e non necessaria. Perché dice una cosa del genere? Oppure la non-necessità che spetta alla certezza sensibile è solo una non necessità a differenza della necessità propria della percezione? La certezza sensibile non sarebbe allora necessaria in quel modo della percezione, ma pure necessariamente a suo modo. Avremmo dunque una duplice necessità. Così è di fatto. Ma questa duplice necessità è in sostanza una e quella stessa che è il sapere assoluto esige. Perché se esso è realmente il sapere assoluto, allora esso non può in alcun modo, neanche all’inizio, dipendere da un darsi di un oggetto indipendente da esso. Se pongo qualcosa come non necessario, allora vuol dire che potrebbe non essere, ma se io mi pongo dalla parte del sapere assoluto allora, ponendomi in questo modo, questo oggetto è già presente, è già lì. È necessario nel senso del sapere assoluto. Non è necessario perché potrebbe essere – facendo un esempio molto banale – il primo oggetto, il primo passo per poi andare oltre; e, quindi, questo primo passo potremmo abbandonarlo. Ma per Hegel non è così, perché questo primo passo, questo primo oggetto, non esiste se non c’è l’ultimo. È l’ultimo che lo esistere; ecco perché è non necessario ma è anche necessario; oppure, potremmo dire che appare non necessario ma, di fatto, è assolutamente necessario. Ma la stessa necessità sussiste per la mediazione nella direzione del suo tronare al sapere immediato che deve per questo anticipatamente darsi necessariamente in modo retroattivo e previo. Questa necessità sussiste per la mediazione, per il superamento, per via del suo tornare a se stesso che non può non essere. Torno a dire: non è che il primo passo, il primo oggetto, scompare per il secondo, il secondo poi scompare per il terzo, ecc.; no, ciascuno è sempre lì nell’immediatezza. A pag. 93. In verità si legge sempre in Hegel che – nel portare a termine e nel ripercorrere la Fenomenologia dello spirito – noi “stiamo” sempre soltanto a “guardare”, non apportiamo nulla, ma prendiamo, apprendiamo soltanto ciò che troviamo. Di fatto è così. Ora la questione è: come stanno le cose con questo stare a guardare? Non si tratta dell’ebete fissare indeterminato e arbitrario, improvvisato e in balìa di trovate estemporanee, ma lo stare a guardare è il guardare all’interno dell’atteggiamento del fare-esperienza, il modo in cui questo vede. È lo stare a guardare con gli occhi del sapere assoluto. Potremmo dire: è lo stare a guardare il funzionamento del linguaggio, il modo in cui si svolge, con gli occhi del sapere assoluto, cioè, con gli di chi sa come il linguaggio sta funzionando e perché funziona nel modo in cui funziona. A pag. 94. Ciò che noi con Hegel chiamiamo certezza sensibile si manifesta come una conoscenza. Non viene detto più precisamente che cosa questa sia. Si intende con ciò il modo in cui qualcosa diviene manifesto in ciò che è e per come è secondo un certo aspetto. Ogni conoscenza – e così anche la certezza sensibile – ha la sua verità. Risulta di qui che Hegel non fa uso dell’espressione “certezza” per designare un carattere in certo modo dello stesso ordine della verità di una conoscenza, ma certezza indica ogni volta l’intero della relazione di sapere di chi sappia con il suo saputo, l’unità del sapere e del saputo, la modalità dell’esser saputo e la coscienza nel senso più ampio di sapere e conoscere. Inoltre, già all’inizio è degno di nota, in riferimento alla certezza sensibile, che Hegel di una breve trattazione della certezza sensibile, senza addurre il minimo argomento riguardante i sensi oppure gli organi di senso. È vero che egli parla del vedere e dell’udire, ma non degli occhi o della retina e delle vie nervose, nulla dell’orecchio e del labirinto auricolare – nulla di tutto ciò. Già, in nessun luogo troviamo alcunché circa le sensazioni visive ed uditive, sui dati olfattivi o tattili (il minimo di quanto esigerebbero oggi i fenomenologi). Pure Hegel dà un’interpretazione della sensibilità che non ha pari nella storia della filosofia. Sarebbe invece facile sminuzzare questa breve trattazione e addurre a confronto, per ogni brano, brani corrispondenti e affini nel contenuto traendoli da luoghi diversi della storia della filosofia, da Kant a Platone. Ma con ciò offriremmo soltanto la prova che noi 1 Non vogliamo capir nulla di Hegel e 2 Che neppure lo possiamo, fintanto che indulgiamo in simili esatti principi dell’interpretazione. È un altro modo per dire che lungo questa via ci troviamo nell’astrazione e, quindi, non intendiamo più nulla del concreto; potremmo dire, di ciò che concretamente Hegel sta facendo. L’inaudito dell’interpretazione hegeliana della sensibilità sta nel fatto che egli … la comprende a partire dallo spirito e nello spirito. Cioè: a partire dal e nel sapere assoluto. Non gliene importa nulla dei cinque sensi. In questo e per questo essa si manifesta e solo così va inteso il modo in cui Hegel tien fermo il fenomeno della certezza sensibile. Sempre, quindi, come qualcosa che appartiene al sapere assoluto. Adesso qui ci sono cose che abbiamo visto recentemente in Hegel, quando parla dell’oggetto, dei due modi di stabilire l’oggetto, e cioè il qui e l’ora. L’oggetto è individuato da un qui, da un questo qui, ma anche da un questo qui adesso. Quindi, è individuato da questi due aspetti, da queste due “coordinate” che, tuttavia, non hanno nulla di fisico. Il qui, nel momento in cui lo dico, è già dissolto, così come l’adesso. A pag. 95. Sta facendo l’esempio della cattedra. …questa cattedra, questo spigolo, e poi di questo spigolo solo la lunghezza di una spanna, poi d’un dito, e così via fino al microscopico – e così ancora in tutto ciò che è esteso nella vastità dello spazio – fintanto che “ci addentriamo” nell’angustia del sempre più ristretto. E la stessa cosa è per il tempo. In ogni tempo e in ogni luogo la certezza sensibile va fuori nell’ampiezza e ne segue l’espansione e s’addentra nell’angusto seguendo il suo restringersi. Essa sta sempre da qualche parte nell’ampio e nell’angusto, non vi si stabilisce, ma conserva la possibilità dell’espansione e del restringimento; ma sempre tuttavia in modo tale che dovunque essa guardi abbia davanti a sé questo qui e questo ora. Il qui e l’ora, quindi, sono universali; non possono riguardare il particolare, perché come li fermo, come li determino? Anche lo spazio stesso in cui sta questo qui è questo spazio; il tempo stesso in cui ora ciò risuona è questo tempo. Così stanno le cose con il saputo, il contenuto della certezza sensibile. Così stanno le cose con il saputo. Quindi, stanno in modo tale che dileguano nel momento in cui il mio sapere si affaccia a questo saputo; così come l’ora, questa ora, dilegua nel momento in cui la dico. Ecco, il saputo dilegua alla stessa maniera; è per questo che il mio dire, che apre questa distanza tra il dire e il detto, si dilegua in un certo senso nel detto, il quale dilegua di nuovo per tornare al dire e fare del dire ciò che è; il che è esattamente il processo dialettico, né più né meno. E con il modo del suo sapere? Esso è il puro avere-davanti-a-sé. Il sapere come puro avere-davanti-a-sé. Non come un porsi d’un colpo davanti all’intera ricchezza nell’ampio e nell’angusto opinandola; ma in modo tale che questo è ogni volta davanti a me in quanto io incontro questo ed altrimenti nulla; questo e solo questo presso cui si resta come se fosse tutto, questo, che io ho solo bisogno di incontrare per averlo proprio davanti a me in tutta la sua “pienezza”. Io lo incontro soltanto, non mi do per nulla da fare, neanche nel senso che io con ciò in qualche modo lascio andare qualche cosa. Io prendo questo proprio come esso è, come sta davanti agli occhi ed è presente nell’incontro alla presa della mia mano; esso, questo, è questo, e dunque: esso è ed è proprio esso, null’altro. Con ciò la certezza sensibile si è già pronunciata … La certezza sensibile ha enunciato se stessa – se stessa! Ciò significa: enunciato è il sapere del saputo…  È questo l’enunciato: ciò che sa il mio sapere. …come esso è saputo, e soprattutto enunciato è il sapere stesso. Ma – ed è decisivo notarlo fin d’ora – la certezza sensibile si pronuncia asserendo intorno al proprio saputo. Viene asserito ciò che è, invero così come è in verità. L’asserito è la verità e viceversa. La verità non viene asserita soltanto così occasionalmente, ma la verità è in sé l’asserito, la proposizione. La verità della certezza sensibile è ogni volta questo ente che essa opina, ed essa lo opina, questo, in quanto ciò che è semplicemente presente; essa lo opina, questo che è. “Ciò è” – questa è la sua asserzione, della certezza sensibile, la sua verità. La certezza sensibile asserisce la semplice presenza di ciò che è semplicemente presente, nella terminologia hegeliana: l’essere. Perciò Hegel dice: “La sua (della certezza sensibile) verità non contiene che l’essere della cosa. Non dice: la verità della certezza sensibile contiene l’essere della cosa, bensì: “non contiene che l’essere della cosa”. La certezza sensibile enuncia se stessa, in quanto si pronuncia sulla propria cosa, questo semplicemente presente, e non dice null’altro su di sé, su chi sa e sul suo sapere. Poiché chi sa, la “coscienza”, l’“io”, di ciò la verità della certezza sensibile non si interessa per nulla. Questo è il modo in cui si pone la certezza sensibile: questo è. A pag. 97. Nel cercare di cogliere la certezza sensibile che si manifesta nel suo manifestarsi, Hegel parla in questo “soltanto” e “nient’altro”, cioè in senso limitativo, e pone di conseguenza tutto il resto al di fuori del limite. E cos’è il resto che la certezza sensibile non è ancora? Essa, considerata in quanto modo del sapere, non è ancora tale da poter muovere in modo molteplice il pensiero e da svilupparsi. Il sapere non fa ancora alcun movimento al modo del sapere; in esso non accade null’altro, non ha ancora storia alcuna. La certezza sensibile non è – vista nella sua cosa – un saputo che sia in quanto tale una quantità di “molteplici conformazioni”. Il che vuol dire: essa, in entrambi i riguardi, non mostra ancora alcuna mediazione; ancora si prescinde da questa, e perciò la certezza sensibile è soltanto il non-mediato, in-mediato. Manifestandosi così essa sì manifesta se stessa, ma si manifesta così alla luce di uno sguardo che la considera immediatamente soltanto prescindendo da ogni vedere mediante che già gli appartenga. Perché altrimenti esso non potrebbe stare a guardare con fissità e vedere così soltanto l’immediato nella sua immediatezza. La maniera, dunque, secondo la quale siamo stati a guardare finora, era uno stare a guardare prescindendo. Prescindendo da che? Potremmo dire, a partire da ciò che ha detto fin qui: prescindendo dal sapere assoluto, prescindendo da tutto ciò che mi consente di sapere. È come se io stessi a guardare un qualche cosa fuori del mondo, fuori del linguaggio. Ma sappiamo che non vedo nulla in questo modo, è un discorso ipotetico. A ciò corrisponde la caratterizzazione che Hegel, e noi con lui, diamo della verità della certezza sensibile: “tale certezza (la sensibile) si dà a dividere essa stessa come la verità più astratta e più povera”. A pag. 98. La certezza sensibile stessa non ha affatto la facoltà di cogliersi come sapere astratto. Ma che essa sia il sapere “più astratto” e “più povero” siamo noi a dirlo, nel sapere assoluto e per esso, che “in realtà” e “in verità” è il vero sapere. Immaginiamo che ci sia la possibilità di cogliere la verità nella percezione immediata. A chi la dice? A noi, a partire da un sapere assoluto, a partire da tutto ciò che sappiamo. Hegel scrisse nel suo ultimo periodo berlinese un piccolo saggio dal titolo Chi pensa astrattamente? “Chi pensa astrattamente? L’uomo ignorante, non l’uomo colto”. L’uomo ignorante pensa astrattamente, mantiene divise, separate, le cose e, quindi, non capisce niente, non intende nulla. A pag. 100. Ne consegue: la reale certezza sensibile non è mai soltanto questa pura immediatezza quale noi la cogliamo, ma ogni reale certezza sensibile è un esempio. Questo è interessante: la reale certezza sensibile come esempio. Ed è esempio in un senso essenziale. In che senso? Se noi rappresentiamo in modo, diciamo, universale che cosa sia un albero, allora abeti, faggi, querce e tigli ne sono ognuno un esempio. Ma la reale certezza sensibile non è solo in questo senso un esempio di ciò che noi stabiliamo innanzitutto quale sua essenza, non si tratta di singoli casi che possono essere addotti a piacimento come esempio e “cadere” nel concetto di genere, ma la reale certezza sensibile è, ogni volta in sé in quanto reale, un esempio. La certezza sensibile come un esempio. Non posso fare che un esempio di ciò che dico di percepire immediatamente, realmente, posso solo fare un esempio, non posso dire nient’altro. Non posso dire che cos’è, posso soltanto raccontarla. Qui fa venire in mente ciò che diceva Platone nel Sofista, quando il forestiero, il sofista, alla richiesta: “Lo vedi quell’albero?” rispondeva “No, non lo vedo. Tu, vedi quell’albero. Però, se tu me ne parli, allora lo vedrò anch’io”. Cioè, puoi fare soltanto questo: mostrarmi quell’albero che tu vedi e raccontarmelo.