23 settembre 2020
L’attualismo di G. Gentile
Siamo al Capitolo IV, paragrafo 16, L’assurdo concetto di natura. Parla della legge meccanica … quale si conviene a una realtà collocata di là dallo spirito, per sé stante, nella sua brutalità, dalla quale quando che sia dovrà pur sorgere, per effetto del meccanismo medesimo, la più alta specie animale, e la sua psiche, che è ragione, volontà, realtà che si oppone a quella di tutte le altre specie animali e di tutta la natura, e la intende, e la signoreggia. Ora, sottratto lo spirito, che è ancora da nascere, l’evoluzione sta alla natura darwiniana come la dialettica al mondo platonico delle idee. L’evoluzione, cioè, non può essere più un processo, perché importa un sistema di rapporti già tutti posti e consolidati. S’immagini infatti realmente un momento in cui una data specie ci sia, e non ci sia ancora quella superiore che ne deve scaturire, secondo la teoria evoluzionistica pretende; e ove ben si rifletta, non sarà difficile avvertire che il passaggio da un grado all’altro della natura non è intelligibile se non trascorrendo colla mente da quel momento, in cui il secondo grado non c’è, al successivo, in cui c’è il primo e il secondo e il loro rapporto. In guisa che, in generale, in tutta la lunghissima catena dell’evoluzione il primo anello si pone sempre innanzi al nostro pensiero insieme con tutti gli altri, fino all’ultimo; cioè fino all’uomo, che non è più natura, e distrugge quindi, col solo suo intervento, la possibilità di concepire la natura, in quanto tale, evoluzionisticamente. Ci sta dicendo che la teoria di Darwin comporta un problema, e cioè il fatto che non tiene conto che in questo passaggio da un momento all’altro il precedente si conserva, si mantiene - qui siamo in piena dialettica hegeliana – ma è come se si procedesse per salti; quindi non si capisce come avvenga il passaggio da un momento all’altro, se non si tiene conto già del primo momento e di tutti gli altri come implicazioni del primo momento. Paragrafo 17. Critica della dialettica hegeliana. L’impossibilità di pensare dialetticamente una realtà che ci si proponga di pensare prescindendo dall’atto stesso del pensarla, come realtà in sé, presupposta dall’atto con cui si pensa, fu sperimentata dallo stesso Hegel, che ha il merito di avere affermato la necessità del pensamento dialettico del reale nella sua concretezza. Hegel appunto vide che non si concepisce dialetticamente il reale, se non si concepisce il reale stesso come pensiero: e distinse l’intelletto che concepisce le cose, dalla ragione che concepisce lo spirito: l’uno che si rappresenta astrattamente le cose analitiche, ciascuna per sé, identica a sé, differente da tutte le altre; e l’altra che le intende tutte nell’unità dello spirito, come identica ciascuna a sé, ma anche diversa; e quindi diversa da tutte le altre, ma identica anche a tutte le altre. È una derivazione del concetto di Aufhebung. Ebbene Hegel stesso, volendo definire nei momenti del suo ritmo la dialettica del pensiero, che intende sé come unità del vario, e quindi le cose come varietà dell’uno; Hegel, dico, tornato a rappresentarsi questa dialettica come legge archetipa del pensiero in atto, e quindi suo ideale presupposto, non poté non fissarla egli pure in concetti astratti e quindi immobili, che sono affatto privi di ogni dialettismo, e di cui perciò non è dato intendere come possano, per se stessi, passare l’uno nell’altro e unificarsi nel reale continuo moto logico. Qui Gentile pone un’obiezione, ma, come dicevamo l’altra volta, è un’obiezione che può essere posta a lui stesso. Per potere pensare i vari momenti deve determinarli, deve individuarli, cioè, deve astrarli; quindi, non poteva non fissare questi momenti se non come elementi astratti per poterne parlare, per poterli descrivere. Cosa che non può non fare lo stesso Gentile, ovviamente. Il divenire è identità di essere e non-essere; poiché diviene l’essere che non è. Ed ecco Hegel muovere dal concetto dell’essere, puro essere, scevro d’ogni determinazione, che è infatti il meno che si possa pensare, che non si può non pensare, nella sua assoluta indeterminatezza, per astrazione che si faccia da ogni contenuto del pensiero. Posto così innanzi al pensiero e determinato mediante la sua stessa indeterminatezza codesto concetto dell’essere, è possibile indi passare al concetto del divenire, e dimostrare così che niente è, ma tutto diviene? Sì, secondo Hegel; perché l’essere come tale non è pensabile: non è pensabile come affatto identico, e non altrimenti che identico, seco stesso. Non è pensabile perché, pensandolo privo di ogni contenuto, assolutamente indeterminato, lo si pensa come nulla, o non-essere, o essere che non è; e l’essere che non è, diviene. Ma, è stato osservato, se l’indeterminatezza assoluta dell’essere lo ragguaglia davvero al nulla, noi non abbiamo così quell’unità di essere e non-essere, in cui consiste il divenire: non c’è quella contraddizione tra essere e non-essere, di cui parla Hegel, e che genererebbe il concetto del divenire. Che se l’essere è per un verso identico e un altro diverso dal non-essere, si ha allora un essere che non è non-essere e un non-essere che non è essere, e non ci sarebbe quell’incontro e quell’urto dei due, da cui Hegel vede sprizzare la scintilla della vita. In conclusione, siamo, da una parte e dall’altra, innanzi a due cose morte, le quali non concorrono in un movimento. È vero in parte quello che Gentile sta dicendo di Hegel: del puro essere come indeterminato non posso dirne niente. Ma Hegel dice che l’essere è in quanto c’è il non-essere, in quanto non è non-essere; quindi, dà per inevitabile a compresenza di essere e di non-essere, ed ecco, quindi, che si instaura il movimento dialettico. Certo, l’essere puro è nulla, ma non posso pensarlo come essere puro se non penso ciò che l’essere necessariamente non è. Questa è una questione importante. Ciascun elemento è quello che è in quanto esclude di essere ciò che non è. Solo a questa condizione è quello che è, essere compreso. L’essere non sfugge a una cosa del genere, anzi, Hegel lo dice in modo molto chiaro, e cioè l’essere è tale in quanto c’è il non-essere, ciò che l’essere non è. Questo ci mostra qualcosa di più di quello che lo stesso Gentile ci sta dicendo, vale a dire, un problema, che è il linguaggio stesso. È come se in questo modo il linguaggio ci si sottraesse continuamente, come se svanisse continuamente. Riprendendo l’esempio di Hegel, svanisce continuamente, l’essere per essere essere deve diventare non-essere, quindi, diventare ciò che non è; il quale non-essere, tornando sull’essere, fa diventare l’essere ciò che prima non era. Quindi, è come se, ciascuna volta che si pone qualche cosa, questo qualche cosa si volgesse in altro, per il solo fatto di essere posto. Quindi, che cosa sto ponendo, di fatto? Sempre attenendoci alla questione dell’essere, sto ponendo l’essere? Sì e no. Lo sto ponendo perché lo sto dicendo, ma dicendolo già implico il fatto che per potere pensare l’essere ho dovuto introdurre la considerazione che l’essere è quello che è perché non è altro da sé; quindi, pongo qualcosa, ma già ponendola la altero, è un’altra cosa. Torno alla questione: che cosa pongo realmente? Pongo un qualche cosa a condizione di non porla. Cioè, la pongo, ma ponendola non l’ho propriamente posta, perché ciò che ho pensato di porre è già un’altra cosa rispetto a ciò che pensavo di porre. L’essere che io pongo è tale perché c’è il non-essere, che torna sull’essere; soltanto dopo, dopo inteso logicamente, dopo aver posto il non-essere esiste l’essere e posso porlo, cioè, posso porlo dopo che ho pensato di porlo. Pongo questo essere, ma lo pongo perché non avendo potuto porlo nell’immediato ma soltanto mediatamente, cioè attraverso il non essere, solo allora mediatamente l’essere ritorna dal non-essere, e solo allora posso porlo.
Intervento:
Sì, una volta che torna non è più quello di prima, c’è stato un movimento, una distanza.
Intervento:
Gentile parla di cose morte perché, secondo lui, questi due momenti sarebbero in Hegel separati, e quindi, non più nel movimento dialettico, perché è il movimento dialettico che è la vita. È in questo senso che parla di cose morte, perché secondo lui Hegel li avrebbe separati. Cosa che, invece, non ha mai fatto in vita sua, ma, anzi, ha sempre posto i due momenti, sì, come distinti ma non separabili. L’essere non è separabile in nessun modo dal non-essere, non è separabile da ciò che l‘essere non è. Questione, come dicevo, di straordinaria importanza, che tra un po’ vedremo, perché lì che c’è l’autoctisi autentica; cioè, è come se io ponessi solo l’essere, ma ponendo l’essere pongo anche il non-essere, pongo cioè un’altra cosa, faccio esistere un’altra cosa, la autoproduco. In questo autoprodursi di qualche cosa ciò che viene prodotto è ciò stesso che fa esistere anche il primo. L’autoctisi non è soltanto l’atto pensante, di cui parla Gentile, ma è il fatto che, dicendo una qualunque cosa, hegelianamente faccio esistere il suo contrario, che è necessario affinché esista il primo; soltanto quando esiste il suo contrario esiste anche il primo, e, quindi, esistendo posso porlo. È come se potessi sempre porre qualche cosa, ma sempre a posteriori. È per questo che dicevo che il linguaggio sfugge continuamente di mano mentre si parla: parlandolo, è un susseguirsi di cose che sfuggono ininterrottamente. Da qui la domanda, che verrebbe da porsi: quando parlo, di che cosa parlo? Parlo di questo continuo sfuggire: ecco di che cosa parlo. Gentile arriva a un certo unto alla disputa sugli universali. Perché a Gentile interessa la questione degli universali? Gli interessa perché in questa disputa viene mantenuta la differenza, la separazione tra l’individuo e l’universale, mentre per Gentile questa separazione non può essere mantenuta se entrambi sono pensati nell’atto del pensare. Per Gentile la separazione è possibile soltanto se non è considerata nell’atto. È un po’ ciò che Hegel considerava rispetto al discorso religioso. La disputa sugli universali fu una grossa disputa che avvenne nel XII-XIII secolo tra alcuni filosofi, una disputa molto accesa. Nel Medio Evo queste dispute intorno al pensiero, all’ontologia e alla metafisica, erano molto sentite. C’erano, come sempre succede, due fazioni: i nominalisti e i realisti. I nominalisti erano coloro, Roscellino, ad es., che pensavano che l’universale non avesse di per sé nessuna esistenza, nessuna realtà, forse soltanto un flatus vocis, nient’altro che questo. Quindi, l’universale può intervenire, come dicevano allora, post rem, dopo la cosa, dopo l’individuo, perché è l’individuo che è reale e non il concetto; il concetto, in quanto universale, viene eventualmente dopo. La fazione opposta, quella di Guglielmo di Champeaux, sosteneva invece il contrario, e cioè che reale è l’universale, abbastanza platonico; il vero universale è il concetto, perché senza il concetto non c’è neanche l’individuo, che non può essere concettualizzato, non può essere compreso, inteso, in nessun modo. Quindi, in questo caso l’universale è ante rem. Poi, altri, come Guglielmo di Occam, lo stesso Tommaso d’Aquino, Boezio, hanno tenuto posizioni intermedie, considerando l’universale come qualcosa che non è propriamente né post rem né ante rem, ma è in re, nella cosa. Sono modi differenti ma è una questione che ancora oggi è presente. Capitolo VI, L’astratto universale e il positivo. Paragrafo 3. Critica del nominalismo. Il nominalismo evidentemente è una soluzione naturalistica e materialistica; la quale, risolvendo la realtà negli individui, tende a sopprimere la loro intelligibilità, negando il valore assoluto di quegli universali, onde sono intelligibili. Se li considero soltanto come enti materiali togliendo il concetto, è chiaro che questi elementi sono post rem, ma il fatto che l’universale venga dopo costituisce un problema, perché viene dopo che cosa se non ho nessun concetto per potere determinare, definire l’individuo, se non in attesa del concetto che viene dopo? Prima con che cosa lo concepisco? Questa è la critica al nominalismo. Il realismo, d’altra parte, cade nel difetto opposto. Tant’è vero che in vitium ducit culpae fuga si caret arte (alle volte il rimedio è peggio del male). Se l’universale è già reale, e l’individuo non può aggiunger nulla a quella realtà, in che consisterà, dunque, l’individualità dell’individuo? Si ritorna alla grande difficoltà di Platone, chiuso nel circolo delle idee, senza poter più tornare in quel mondo, a spiegare il quale le idee erano state da lui escogitate. Se l’unica realtà è quella dell’empireo, allora che realtà hanno, in che cosa consiste propriamente l’individuo? Come si passa da questa idea all’individuo? Passiamo al paragrafo 15. L’unità dell’universale e del particolare. Gentile comincia ad accorgersi che universale e particolare sono tutt’uno. L’errore nasce sempre dal non guardare all’unità dell’universale e del particolare, in cui consiste precisamente l’individuo; e nel credere che innanzi al pensiero universale, come antecedente e conseguente, si ponga fuori de particolare, e viceversa. Fallace credenza, in cui non s’incorrerebbe se non si considerassero i due astratti momenti, che l’analisi coglie nell’individuo, astrattamente, come elementi dell’individualità pensata (che per sé è inerte e inorganica) anzi che pensante. L’individuo per Gentile incomincia a essere l’unità del particolare e dell’universale; sono giustamente inscindibili. Paragrafo 18. Il positivo. Orbene, la natura di Aristotele, l’individuo, è appunto questo essere che è, e non soltanto deve essere: è il positivo. Positivo è ciò che è posto, è in essere, e non più in fieri: ove si concepisca come effetto, o risultato di un processo, di esso non si pensa che ci sia solo il principio, o magari il processo tuttavia in corso; ma c’è già il risultato. Il posto è già il risultato, è ciò che c’è. Il fatto che lo spiega, ha ceduto il luogo al fatto; il processo della sua formazione è esaurito. Questo il significato che si dà tutti al positivo. Positivo è il fatto storico, in quanto non è più l’ideale di un popolo o di un uomo, ma una realtà già attuata, e che nessuno potrebbe fare che non fosse. La quale perciò s’impone con forza ineluttabile allo spirito, che pare la subisca, nella forma puramente teoretica del suo operare. Positivo è ogni fatto della natura, in quanto osservato, cioè già osservato: che non sarà, perciò, ma è; ossia, propriamente, è stato. Positivo, in conseguenza, diciamo l’uomo che nello speculare o nel fare si attiene non a quel che deve essere, e potrà anche non essere, ma a quel che è già, effetto del passato, che, in quanto tale, nessuno può disfare: terreno ben saldo, su cui si può camminare sicuri. Al pensiero, come Platone lo concepì, e come rimase poi sempre concepito, quale universale che non è lo stesso particolare delle singole cose, manca, non ogni realtà, ma questa realizzata, che è il positivo. Manca, noi sappiamo già, ed esso non può generarla; poiché l’idea se è irreale rispetto a quell’altra realtà, in se stessa intanto è realizzata. E l’individuo di cui si va in cerca è appunto il positivo. Questa è la posizione di Gentile. Ci sta dicendo che il positivo è sempre stato posto come qualcosa fuori dal pensiero, perché il pensiero è pensiero pensante, mentre ciò che è posto è qualcosa che è già pensato, è già attuato, è già lì. Come risolve questo problema. Ovviamente, dicendo che il positivo non è altro che l’Io penso. È questo che si pone: l’Io penso. Capitolo VII. L’individuo come Io. Paragrafo 2. L’intuizione dell’estrasoggettivo. Ma questa intuizione o sensazione, eliminando dal rapporto tra i due termini (soggetto e oggetto)… Soggetto sarebbe il soggetto pensante; l’oggetto, rispetto all’esempio che faceva prima, il pensato, il posto. /…/ tutto ciò che si può ritenere secondario e derivato dall’azione del soggetto, non può infine distruggere il rapporto stesso, per porre innanzi al soggetto un oggetto tutto puro, in quella estrasoggettività, che fantasticamente si può immaginare in origine gli competa. L’oggetto irrelativo al soggetto è un nonsenso. E non c’è quindi originarietà e immediatezza d’intuizione che possa svestire l’individuo della sua veramente immanente relazione al soggetto. Qui incomincia a porre la questione così come la intende lui, e cioè l’individuo è l’Io penso. È qualcosa, quindi, che necessariamente unisce in sé universale e particolare. Universale e particolare sono due momenti dello stesso individuo, ma non in quanto posto; più propriamente, è posto, ma è un porre sempre in atto, mai posto una volta per tutte, è qualcosa che si sta sempre ponendo. Paragrafo 7. L’universale come categoria. L’universale è il predicato con cui s’investe il soggetto del giudizio, termine della nostra conoscenza, in quella sintesi a priori che è ogni nostro atto conoscitivo. La stessa intuizione, secondo che abbiamo visto, non è intelligibile se non come rapporto necessario, che è sintesi a priori tra l’elemento ideale onde il soggetto illumina a sé il termine intuito, e questo termine stesso che è il soggetto del giudizio in cui si può esplicare. Ebbene, il vero universale, o categoria, è appunto l’universale che può fare soltanto da predicato; l’individuo, quel soggetto che può fare soltanto da soggetto. Questo è il vero universale. Che cosa può fare soltanto da predicato? Lo dice qui: è appunto l’universale che può fare soltanto da predicato; l’individuo, quel soggetto che può fare soltanto da soggetto. Come dire che soggetto e predicato sono due momenti dello stesso. La categoria poi (secondo quanto dimostrò Kant) è funzione del soggetto del conoscere, lo stesso soggetto attuale; come l’individuo è il contenuto dell’intuizione per cui il soggetto del conoscere uscirebbe da sé. Ma è possibile fissare il soggetto del conoscere, la categoria, l’universalità? Fissare una categoria significa definirla, pensarla: ma la categoria pensata è la categoria fatta soggetto di un giudizio, e quindi non più predicato, non più atto del soggetto. Tant’è vero che prima di Kant nessuno aveva mai pensato a quelle categorie, che tutti usavano, e di cui tanti, anche dopo Kant, non riescono a rendersi conto chiaramente. E prendiamo pure la categoria nel suo significato primitivo, aristotelico, di predicato universalissimo, che, come tale, non può essere mai soggetto:… Ma è sempre qualcosa che si predica di qualche cosa. …e sia l’universalissimo concetto dell’“essere”. Può questo esser pensato, voglio dire semplicemente affisato (fissato) dal pensiero, nella sua posizione di universale che non funge da soggetto? Ma affisarlo significa dire a se stesso: l’essere è essere; affermarlo, sdoppiarlo internamente nell’essere soggetto e nell’essere predicato; rispetto al quale l’essere soggetto, che è quello che solo realmente si possa dir di affisare, non è punto universale, ma particolarissimo, e precisamente individuale: giacché, se ogni cosa è essere (universale comprendente sotto di sé tutte le cose), l’essere non è ogni cosa: esso è soltanto se stesso, distinguendosi assolutamente da ogni altro possibile oggetto del pensiero come l’unico Essere. E altrettanto si dica della sostanza, della causa, della relazione e di ogni altro qualsiasi oggetto, a cui si voglia conferire il valore di categoria. La categoria, per così dire, non bisogna guardarla in faccia: e sarà categoria. Se la guardo in faccia la determino, ne faccio un particolare. Ma se ci volgiamo ad essa e la mettiamo in luce, essa s’individua, si puntualizza, si pone come un quid unico, e ha bisogno essa stessa di ricevere lume da un predicato a cui deve esser riferita. Allora non è più categoria. Incomincia ad accorgersi che c’è un problema: se io individuo un qualche cosa, questo qualche cosa non è più un universale, ma diventa un particolare, qualcosa di determinato. Si accorge anche che questo universale non posso non considerarlo e, considerandolo, lo pongo come particolare. Paragrafo 8. Particolarità dell’universale. L’universale, in conclusione, ha tanto bisogno, davvero, come vogliono i nominalisti, di particolarizzarsi nell’individuo, che, quando quest’individuo non c’è, e si cerca, esso stesso si pone come individuo, se non altro, di fronte a se stesso. L’essere che è essere, come diceva prima, ma lo diceva già Hegel: A è A. questo sdoppiarsi non è altro che lo sdoppiarsi del linguaggio mentre si fa. …facendo insieme da individuo e da universale. E la ricerca pertanto, con cui si crede di dover integrare l’universale come puro universale, è ricerca che tornerà, poiché l’universale come puro universale non si troverà. Il puro universale non si trova, se non come particolare, perché nel momento in cui lo considero diventa necessariamente un particolare. Così come il concreto: se lo definisco, lo penso, lo dico, ne faccio un astratto. Paragrafo 9. La concretezza dell’universale e del particolare. E in conclusione, la ricerca del concetto dell’individuo è stata sempre orientata verso un’astrazione, movendo dall’altra astrazione dell’universale come idea da realizzare, o categoria da individuare. È stata una ricerca, la quale, trattando i due termini tra cui si muove il pensiero (individuo da assumere sotto la categoria, categoria che deve compenetrare l’individuo), non ha tenuto conto, niente meno, del pensiero stesso, a cui i due termini sono immanenti. Dall’universale che si può pensare ma non si pensa, e dall’individuo che si piò intuire ma non si intuisce,… Intuisco l’individuo ma lo intuisco attraverso un universale; quindi, lo intuisco ma in realtà non lo intuisco. …bisogna tornare alla concretezza del pensiero in atto, unità di universale e di particolare, di concetto e di intuizione; e può darsi che il positivo scevro di contraddizioni sia per essere una volta raggiunto. Il positivo, cioè ciò che si pone, non è altro che l’integrazione di questi due elementi, perché, come abbiamo visto, non può darsi l’uno senza l’altro. È una questione alla quale Gentile sta girando attorno; ma lo stesso Hegel, quando parla dei sillogismi, pone la stessa questione; lo stesso Mendelson, il quale ci ha mostrato in modo precisissimo, da matematico qual è, che non è possibile la deduzione senza l’induzione: se io dico “se A allora B” devo garantire, per farne un teorema, per poter validare questa inferenza, devo garantire che da A sia possibile arrivare a B. Come lo garantisco? Attraverso l’induzione, attraverso l’idea che ci siano una serie di passaggi che sono in qualche modo legittimati; quindi, per potere provare la deduzione ho bisogno dell’induzione, ma l’induzione, con che cosa la provo se non con la deduzione, se non con questo sistema inferenziale che è inevitabile e inesorabile per trarre una qualunque conclusione. È un altro ancora per porre la questione dell’inafferrabilità, dell’impalpabilità del linguaggio di cui siamo fatti, e cioè del fatto che quando parliamo ci troviamo sempre a fare un’altra cosa da quella che si pensava di fare, sempre e comunque. Siamo al Capitolo VIII. Il positivo come autoctisi. Autoctisi, autoporsi. Autòs, il da sé, e thesis, la posizione. Paragrafo 5. Il pensiero come concretezza dell’universale e dell’individuo. Ebbene, cerchiamo, dunque, nel pensiero concreto la positività che sfugge al pensiero astratto, sì dell’universale e sì dell’individuo. Ci sta dicendo la positività sfugge tanto all’astratto dell’universale quanto all’astratto dell’individuo. Naturalmente, per giungere a intendere il pensiero concreto occorrerà fare quel passo dall’astratto al concreto. Il problema è: come lo faccio? Posso farlo? Questo è un problema enorme. Intanto, poniamo la prima domanda: come posso effettuare il passaggio dall’astratto al concreto? Come posso anche solo pensare che ci sia il concreto, dal momento che qualunque pensiero è messo in atto – questo ce lo ha detto Hegel molto bene - da sillogismi formali e non da un sillogismo compiuto? Quindi, di fatto, che cosa sto pensando? Il concreto? No, se lo sto pensando è astratto. E questo ci porta alla seconda domanda: posso pensarlo veramente il concreto o è una pura deduzione, una costruzione che io faccio, che immagino? Questo potrebbe essere un grosso problema. Vediamo come lo approccia qui Gentile. L’astratto universale è quello a cui il pensiero pensa, ma non è il pensiero. L’astratto individuo è pure un termine del pensiero, che si vuol intuire, sentire, afferrare quasi d’un tratto, di sorpresa. Ma non è il pensiero né anch’esso: ed è perciò naturale che né l’universale si individui come dovrebbe, per essere reale; né l’individuo si universalizzi, come pure dovrebbe, per essere ideale, cioè vero reale (reale pel pensiero). Ma quando Cartesio volle essere certo della verità del sapere disse: cogito ergo sum.; cioè non guardò al cogitatum, che è astratto pensiero, ma piuttosto al cogitare stesso, atto dell’Io, centro da cui tutti i raggi del nostro mondo partono e a cui tutti tornano. Secondo Gentile Cartesio ha intuito la questione del pensiero pensante: io sono pensante, quindi, sono. Paragrafo 6. La vera positività. Qui si ha la positività vera, che Platone cercava; la positività senza la quale ad Aristotele giustamente parve non si potesse serbar fede alle idee: la positività, che è realizzazione di quella realtà di cui l’idea è il principio, e che integra perciò dall’intrinseco l’idea stessa. Giacché, se l‘idea è idea, o ragione della cosa, la cosa dev’essere prodotta dall’idea: il pensiero che è vero pensiero, deve generare l’essere di cui è pensiero. Questo è appunto il significato del cogito cartesiano: io – questa realtà che io sono, la più certa che io possa avere, e, abbandonata la quale, smarrirò ogni possibilità di accertarmi di una realtà qualsiasi; il solo punto fermo, al quale io possa legare il mondo che penso – quest’io sono in quanto penso: lo realizzo, pensando, con un pensiero che è il pensiero (l’esatto pensiero) di me. L’Io, infatti, come si vedrà meglio più innanzi, non è se non autocoscienza, non come coscienza che presuppone il Sé, suo oggetto, anzi come coscienza che lo pone. E già ognuno sa che la personalità, ogni determinata personalità, non si può pensare che si costituisca se non in virtù delle sue proprie forze, le quali si assommano nel pensiero. Ne accennavamo, forse, la volta scorso: come so che quello che penso è vero? Perché lo sto pensando, e se lo sto pensando sono io che lo penso: questa è l’unica certezza che posso avere. Certezza che viene ovviamente dal linguaggio, perché è il linguaggio che mi consente di fare questa operazione; però, se questa è l’unica certezza che ho, allora la estendo non solo al mio pensare, al cogitans, ma anche al cogitatum, a ciò che sto pensando: la trasferisco, semplicemente, e il mio pensiero diventa necessariamente vero. Paragrafo 7. Il pensiero sottratto all’intellettualismo. Il pensiero pertanto, che nella posizione intellettualistica alla maniera di Platone, si trova innanzi alle idee e non ha modo di passare al positivo dell’individuo, scopre l’individuo perché lo realizza tosto che si sottrae a quella posizione e pertanto non si trova più alla presenza delle idee, fuori delle idee, che egli ha costruite e proiettate innanzi a sé; ma si trova alla presenza di se medesimo, ossia di quel processo in cui le idee stesse sorgono e vivono, appena dall’astratto si rivolga al concreto. Che cos’è questo passaggio, il volgersi dall’astratto al concreto? Non è altro che il chiedere conto all’astratto di mostrare di che cosa è fatto. Possiamo dirla così: dicevamo che non posso pensare a qualunque cosa se non astrattamente; ma questo pensiero astratto come si struttura, da dove arriva? Heidegger ha pensato al mondo, al tutto, e, in effetti, aveva ragione se il tutto è pensato come il linguaggio, come l’intero. Quindi, l’astratto da dove viene? Viene dal linguaggio, che è appunto l’intero, il tutto. E, allora, posso pensare il concreto? Sì e no. Posso pensarlo, ma pensandolo penso l’astratto; ma non posso non pensarlo, perché anche pensandolo l’astratto il concreto è già qui mentre lo penso. Sta qui la questione, l’Aufhebung, per darle un termine nobile, e cioè che pensando l’astratto – non posso non pensare astrattamente qualunque cosa; se penso, penso astrattamente – è necessario il concreto, è necessario il linguaggio, è necessario il tutto. Quindi, penso il concreto ma, per poterlo pensare, ho come condizione che esista il concreto. Paragrafo 8. Universale e particolare nell’Io. Infatti io, che sono in quanto penso, non posso trascendere l’atto puntuale del pensare senza trascendere me stesso. Non si può escogitare maggiore unicità di questa. Non posso dirmi che non sto pensando mentre sto pensando; è come se cancellassi me stesso. Ma se nel mio pensare sta la mia unicità, il mio stesso pensare è la maggiore universalità che ci sia: perché questo pensiero onde penso me, è quel medesimo pensiero appunto onde penso tutto; e, – ciò che è più, e assai più esatto, – è quel pensiero onde penso me veramente, cioè sentendo di pensare ciò che assolutamente è vero, e perciò da pensare universalmente. Qui ci si ricollega a ciò che diceva precedentemente: ciò che io penso è pensato da tutti necessariamente vero, se sono sani di mente, ecc. L’atto del pensare, adunque, per cui sono, mi pone come individuo universalmente; come, in generale, pone universalmente ogni pensiero o, se si vuole, ogni verità.
Intervento: …
Adesso lei introduce un elemento differente, e cioè l’apprendere, che meriterebbe un discorso a sé. È un discorso che ci porta a un certo punto alla domanda: come imparo a parlare? Come accade che a un certo punto parlo e prima no?
Intervento: Per imitazione.
Questo fino a un certo punto. Non posso imitare un qualche cosa se non so se questo qualche cosa ha un significato, ha un senso. Per imitare occorre che io già sappia una serie di cose. Questo ha indotto molti a pensare che per potere imparare a parlare occorre già sapere parlare. È una conclusione a cui molti sono giunti, dalla quale è difficile uscire. Apprendere non è come l’apprendere un’altra lingua; se qualcuno mi dice che chiama il rosso “red” posso facilmente intendere indicando la cosa, ma questo perché entrambi siamo nel linguaggio, quindi, abbiamo già un sistema funzionante. Se questo sistema non è funzionante, uno può indicarmi tutto quello che vuole, non significherà niente. Perché significhi occorre che ci sia un concetto; perché ci sia il concetto occorre che ci sia il linguaggio; quindi, per imparare a parlare devo già essere nel linguaggio. Questa è la conclusione cui giungono molti. Lo stesso Heidegger, quando diceva che ciascuno nasce già nel linguaggio…
Intervento: …
Una volta instaurato il linguaggio, è ovvio che è una continua mutazione ed evoluzione. Il problema si poneva rispetto al modo, al come, non soltanto come si impari a parlare, ma il modo in cui sia possibile imparare a parlare. Paragrafo 10. Conciliazione del realismo e del nominalismo. Questo rigoroso nominalismo, che non lascia luogo né pure per nomi, fuori della concretezza individuale, e questo non meno rigoroso realismo, che non ammette nulla oltre l’universale, trovano ciascuno la propria verità nella verità dell’altro, sottraendosi perciò all’opposizione, in cui pei passato essi rimasero schierati l’un contro l’altro. Giacché oltre l’universale del pensiero non c’è l’individuo, essendo che l’universale stesso è il vero individuo; e fuori dell’individuo non c’è né anche il nome di un universale, poiché l’individuo stesso, nella sua genuina individualità, non può non essere, per lo meno, nominato, e investito di un predicato, e insomma della universalità del pensiero. Se ci pensate bene, in effetti, la questione della disputa degli universali si può considerare una disputa vana nel complesso, perché tutto si può risolvere facilmente utilizzando un approccio semiotico alla questione, dicendo che il significante non può darsi senza significato, cioè, per essere un significante intanto deve essere qualche cosa, quindi, deve avere già un significato, è qualcosa, e, quindi, è già un rinvio. Al tempo stesso, il significato, per essere tale, deve essere detto, pensato, e, quindi, deve esserci un significante che lo dice, sennò non è niente. Ecco perché non c’è l’uno senza l’altro. Cosa cui arriva qui Gentile dicendoci che non c’è individuo senza universale. Non c’è significante senza significato e non può darsi nessun significato senza significante. Che è un modo più semplice di come la ponevano Roscellino e Guglielmo di Champeaux. Paragrafo 11. Vanità degli universali-nomi. Ma il nome, ogni volta che suona sulle nostre labbra, è un nome nuovo, rispondente a un atto che, per definizione, come atto spirituale, non ha passato: e fuso nell’unità dell’atto spirituale a cui appartiene, nulla ha di comune con tutte le altre voci materialmente identiche, usate altre volte a designare oggetti simili della nostra esperienza. Qui sta ponendo una questione posta poi tanto dalla semiotica quanto dalla psicoanalisi. Lo stesso Freud diceva a modo suo che, una volta che interviene un elemento, questo viene inserito in un racconto che non è lo stesso racconto, la stessa narrazione con cui era stato inserito la volta precedente. La regola non comprende sotto di sé, quasi genere che abbracci una serie indefinita d’individui, una molteplicità di casi: poiché la regola astratta dai casi è una regola sempre inapplicabile, per definizione: e la vera regola è quella che investe a volta a volta singolarmente il caso, facendo tutt’uno con esso. Onde l’estetica moderna sa che ogni opera d’arte ha la sua poetica propria, e che ogni parola ha la sua grammatica. Così la legge, e così ogni universale, empirico o speculativo che sia, non si distacca mai dal fatto, dall’individuo: anzi vi aderisce e vi si immedesima, se noi non consideriamo l’una o l’altro in astratto, ma in quel che l’un e l’altro significano allo spirito ogni qual volta effettivamente si pensano:… Come dire che non esiste un atto di parola che sia isolabile dal discorso, dal linguaggio. …giacché essi non sono allora se non la trasparenza logica, la pensabilità dei fatti e degli individui, altrimenti evanescenti di là dai limiti estremi dell’orizzonte logico. La questione della disputa degli universali è una questione che permane in qualche modo ancora oggi. Se si tengono separati la realtà dal pensiero allora sorgono questi problemi: è la realtà che costituisce l’elemento su cui si forma, si foggia il pensiero, o è il pensiero che costruisce la realtà? Entrambe le cose, ci sta dicendo Gentile, perché l’una non può darsi senza l’altra, non può esserci l’individuo senza l’universale, non c’è l’essere senza il non-essere, che è il suo significato, per tornare a Hegel. Paragrafo 15. L’individuo e la molteplicità della natura. Vero è che con ciò non abbiamo ancora soddisfatto tutte le esigenze, per cui sorse nella storia della filosofia il concetto dell’individuo come natura. … Soltanto gli Eleati unizzarono, secondo l’energica frase aristotelica. Ma dal monismo oggettivo di Parmenide procede lo scetticismo agnostico di Gorgia, il quale, traendo al suo estremo rigore il pensiero di Parmenide circa l’identità del pensare con l’essere, negò la possibilità di quella opposizione del primo al secondo, che è un momento indispensabile al concetto del conoscere, e negò quindi la possibilità del conoscere. Conoscere è distinguere; e quindi, non affisarsi in un termine unico, ma in più termini. Anche qui rileva la necessità del molteplice. Dice che non esiste una molteplicità pura che non sia anche unità. Perché lo dice? Paragrafo 18. Impensabilità di una molteplicità pura. Ancora: data pure questa molteplicità, come la fantastica l’atomista, a che gli servirebbe essa? Gli atomi, come le idee, sono escogitati quale principio del reale: in cui c’è la unità, ma c’è anche la molteplicità (donde l’inservibilità delle idee, messa in chiaro da Aristotele); c’è la molteplicità, ma c’è anche l’unità, il rapporto, l’urto degli atomi, l’aggregazione della materia, ecc. Ma posti i semplici assolutamente irrelativi, l’urto è impossibile, perché esso è relazione, per quanto estrinseca; e posto l’urto, finisce la irrelatività, la semplicità e la molteplicità. Difficoltà non nuove, poiché più o meno chiaramente, più o meno energicamente, sono state sempre sollevate contro l’atomismo, e, mutatis mutandis, contro ogni pluralismo. Ma esse non hanno impedito che da tutti i filosofi, anche avversari del pluralismo, il mondo fosse rappresentato nello spazio e nel tempo, e che ogni individuo positivo fosse pensato come determinato hic et nunc: esistente in quanto esiste nello spazio e nel tempo. Perciò converrà pur dire dello spazio e del tempo. Che è ciò di cui ci occuperemo mercoledì prossimo, questa idea che comunque l’individuo sia un punto determinato nello spazio e nel tempo. Si chiederà ovviamente se è possibile una cosa del genere, e se sì a quali condizioni.