INDIETRO

 

 

23-9-2015

 

Questa sera ci riferiremo all’eterno ritorno dell’uguale, prima però volevo leggervi qualcosa dalla postfazione scritta da Franco Volpi, ve la leggo perché dice molto bene il motivo per cui ci interessa e il modo in cui leggiamo Heidegger, e anche altri: Si tratta di una strategia appropriativa praticata fino a quel momento soprattutto nei confronti di Aristotele e Kant, egli interagisce e si cimenta con tali pensatori mirando non alla ricostruzione storiografica della loro posizione bensì a cogliere la logica interna dei problemi da essi individuati e a sollecitarne secondo la loro stessa dinamica una formulazione più radicale (ecco questo occorre fare quando si legge, cioè intendere quali sono le domande ancora presenti in ciò che considera e rilanciare queste domande, cioè problematizzarle, ora invece andiamo alla questione di cui dicevo dell’eterno ritorno dell’uguale. C’è un motivo per cui torniamo su questa questione e vi dirò alcune cose intorno a questo e poi anche la posizione di Severino nei confronti del pensiero di Nietzsche sull’eterno ritorno) Il pensare il pensiero più grave è una fede, il tenersi nel vero, il tenersi nel vero è una fede. “Verità” vuol sempre dire, per Nietzsche, il vero, e questo significa per lui l’ente ciò che è fissato come stabile in modo tale che chi vive assicura, nell’ambito di tale fissato e per suo mezzo, la sua sussistenza, la fede in quanto fissare è assicurazione della sussistenza. Il pensiero dell’ “eterno ritorno” fissa il modo in cui l’essere del mondo in quanto caos della necessità del costante divenire, il pensare questo pensiero si tiene nell’ente e nel suo insieme in modo tale che per lui l’“eterno ritorno dell’uguale” vale come l’essere che determina ogni ente, ora questo “vero” riguardante l’ente nel suo insieme per il singolo uomo non può mai essere direttamente provato e dimostrato nella sua realtà con dei fatti, all’ente nel suo insieme noi perveniamo sempre e soltanto mediante un salto che è l’attuazione di quel progetto, il suo accompagnamento, la sua riattuazione e giammai con un procedere a tastoni subendo la concatenazione dei singoli fatti e nessi in serie in balia della relazione di causa effetto. /…/ Il termine “ritorno” pensa alla stabilizzazione di ciò che diviene al fine di assicurare il divenire di ciò che diviene nella durata del suo divenire, il termine “eterno” pensa la stabilizzazione di questa costanza nel senso del ruotare che ritorna in sé e corre già avanti a sé, il diveniente non è però il continuamente altro del molteplice che cangia senza fine, ciò che diviene è l’uguale stesso, ossia lo stesso uguale e identico nella rispettiva diversità dell’altro, nell’uguale è pensata la presenza diveniente di un identico, il pensiero di Nietzsche pensa la costante stabilizzazione del divenire di ciò che diviene in quell’una presenza del ripetersi dell’identico. Il ritorno dell’identico per Nietzsche è il pensiero più potente, più forte, è quello che si affaccia sull’abisso. L’“eterno ritorno dell’uguale” è la condizione della volontà di potenza. L’“eterno ritorno dell’uguale” è la necessità che qualcosa sia stabilizzato, sia fisso, sia individuato, è ciò che continuamente si presenta, il divenire trae la sua condizione da questo. Ma che cos’è che ritorna? L’identico, infatti lui dice “l’eterno ritorno dell’uguale”, cosa vuole dire? Che ritorna continuamente qualcosa che è identico a sé. Ciò che ritorna sempre identico a sé è quell’elemento che stabilizzo, al quale do un significato, al quale attribuisco una certa determinazione. In questo senso l’eterno ritorno dell’uguale è il presentarsi incessantemente nel dire e, inevitabilmente dovremmo anche aggiungere, di ciò che all’interno del discorso si mostra come identico, come stabile, come fermo, cioè torno a dire il significato che attribuisco a un termine. Fornendo una determinazione a un termine lo rendo quello che è, lo rendo identico a sé, quindi ciò che ritorna ininterrottamente, parlando, è questo uguale e cioè il fatto che un elemento deve essere se stesso per poter essere utilizzato. Questo modo di intendere l’eterno ritorno dell’uguale procede dal fatto che non posso non tenere conto della struttura del linguaggio, del suo funzionamento e di ciò che lo stesso Heidegger tutto sommato nel corso della sua pratica come filosofo si è trovato ad affermare, soprattutto negli ultimi anni, e cioè la connessione sempre più stretta fra essere e linguaggio, non soltanto negli ultimi scritti “In cammino verso il linguaggio” o “Sentieri interrotti” eccetera ma già in “Essere e tempo”. Come sapere per Heidegger l’“essere” è tempo, è storico, non è qualche cosa di fisso, di immobile, di identico a sé, ma è l’accadere: all’interno di questo “accadere” l’ente può apparire, all’interno di questo orizzonte, ma perché qualcosa possa accadere occorre che ci sia qualcuno per cui qualche cosa accade. Questo è importante e Heidegger non è che non lo tenga in considerazione, infatti per lui l’uomo è l’unico ente in condizione di interrogarsi su se stesso, questo comporta che l’uomo ha questa prerogativa: può interrogare, è l’unico ente che interroga che domanda. Il passo che ci consente di intendere forse meglio, meglio per quanto a noi interessi, la posizione di Heidegger è che lui sottolinea che l’uomo è l’unico ente in grado di porre domande, ma a quali condizioni l’uomo può porre domande, se non c’è una struttura che gli consente di fare questo? Questa struttura che consente di porre domande, e insieme con il domandare anche trovare risposte eventualmente o accogliere qualcosa come una risposta oppure no, tutto questo segue all’esistenza di quella struttura che chiamiamo linguaggio, senza la quale non c’è neanche l’uomo per altro, cosa che si avvicina sempre di più alla tesi alla quale Heidegger non è mai giunto, al fatto che l’essere per Heidegger, almeno in parte, nei sui scritti può trarsi che l’essere è linguaggio, è il linguaggio. Perché come dicevo prima l’essere è un essere storico, e la storicità comporta il progetto, comporta il volere trovarsi a fare qualche cosa di ciò che sta accadendo, ciò che accade può essere considerato buono, brutto, piacevole tutto quello che si vuole, ma comporta giudizi di esistenza, di valore, comporta quindi il linguaggio senza il quale non c’è nessun giudizio di esistenza, né alcun giudizio di valore. Ora l’essere è linguaggio, e il linguaggio cosa ha a che fare con l’eterno ritorno dell’uguale? Ha a che fare, perché a questo punto l’“eterno ritorno dell’uguale” ci dice che all’interno del linguaggio, cioè all’interno del transeunte, del diveniente che comunemente appare essere il linguaggio, cioè qualche cosa che muta continuamente, le parole si susseguono l’una all’altra con tutti i problemi semantici che si portano appresso, soprattutto dice che perché questo possa darsi cioè perché possa darsi il linguaggio, cioè l’essere, è necessario l’eterno ritorno dell’uguale cioè che qualche cosa continui a ritornare in quanto identico, e soltanto ritornando in quanto identico il linguaggio può funzionare, cioè il divenire può darsi. Questa è brevemente la descrizione del funzionamento del linguaggio, il quale linguaggio comporta una cosa interessante. Tenete conto che in un certo senso simultaneamente, e in questo Nietzsche è preciso, si danno tanto il divenire quanto l’eterno ritorno dell’uguale. Sono due cose che si toccano in un certo senso, non c’è l’una senza l’altra: la volontà di potenza e l’eterno ritorno dell’uguale. La volontà di potenza, cioè la volontà creatrice, la poίesij, è ciò che crea ininterrottamente, produce sempre cose nuove, da qui l’idea di Nietzsche poi ripresa da Heidegger che l’arte, intesa come “poίesij” cioè come produzione, sia la massima espressione della volontà di potenza perché l’arte è creatrice, creatrice fine a se stessa. Dicevo che il linguaggio è questa poίesij, il creare continuamente cose nuove, cioè sequenze linguistiche che producono ininterrottamente altre sequenze linguistiche. Una singola parola può scatenare uno sterminio di altre parole, diceva Freud per “associazione” o per qualunque altro motivo, quindi è il divenire, potremmo quasi dire assoluto, dove non è neanche pensabile che qualcosa possa arrestarsi, se si arrestasse il divenire non ci sarebbe più, questa è la posizione di Severino ma ne parleremo fra poco, quindi nulla può arrestarsi e per Nietzsche il divenire è la verità, è l’essere stesso, eppure pone come condizione del divenire l’eterno ritorno dell’uguale. Qualunque cosa continua a essere se stessa incessantemente, la parola o qualunque segno potremmo anche dire: non può non essere se stessa e non può che essere qualche cos’altro, perché il segno è quello che è, ma perché rinvia a un altro elemento quindi è quello che è in funzione di altro, poi questo è il fondamento della metafisica: qualche cosa è quello che è in funziona di altro, l’ente è quello che è perché c’è l’essere. Dunque il linguaggio ha questo andamento che potrebbe apparire bizzarro, ma non è più bizzarro se si considera la cosa non come un evento né catastrofico né magico, ma semplicemente come l’agire di un sistema che potremmo chiamare “operativo”. Perché sconcerta il fatto che un termine, una parola debba necessariamente essere se stessa e non possa in nessun modo essere se stessa? Perché sconcerta una cosa del genere anziché considerarla la cosa più banale e più ovvia che possa pensarsi? Perché si è stati addestrati e si continua a pensare in modo metafisico, cioè che se qualcosa è quello che è allora non può non essere altro da sé, ma questo è soltanto ciò che la metafisica ha cercato di stabilire nel corso dei millenni, di fatto non rappresenta nulla che abbia necessità di essere se non come un modo per potere procedere lungo una certa struttura di un certo sistema, di una certa macchina che si chiama linguaggio. In questo Nietzsche non aveva torto: l’idea della verità è un inganno sempre e comunque, la verità nel senso metafisico, cioè un qualcosa di stabile, di definito, di immobilizzato, necessariamente un inganno perché “verità” presume, ha fede che una cosa per essere vera debba essere necessariamente quella che è e non possa essere altro.

Intervento: immaginavo che ciò che lei diceva fosse un ragionamento intorno al significato.

Lo è, e questo ci porta alla considerazione successiva rispetto alla volontà di potenza, e sempre tenendo conto dell’eterno ritorno dell’uguale: la volontà di potenza è volontà di creazione, creare qualche cosa è quindi un “in vista di …”. Ciò che stavo considerando in questi giorni è qualcosa di antico per un verso ma anche nuovo, perché ho sempre detto che, per esempio, ciò che avviene lungo un percorso analitico, è riuscire a intendere il perché si pensa ciò che si pensa, cioè perché si dice ciò che si dice, intendendo questo però come la possibilità di reperire quali sono gli elementi che hanno consentito ciò che sta accadendo adesso, un po’ anche sulla scia di Freud, di un percorso a ritroso mentre l’aspetto forse più interessante non è tanto, sì la domanda può rimanere la stessa, però in un’altra accezione, per sapere perché si dice ciò che si dice ma intendendo questo in questo modo: si dice qualche cosa sempre “in vista di …” qualche cos’altro, quindi a questo punto non è tanto importante sapere che cosa effettivamente si stia dicendo ma perché lo si sta dicendo, cioè in vista di che cosa, lo si sta dicendo. Questa è un’idea che è abbastanza prossima al lavoro di Nietzsche della volontà di potenza, perché il motivo per cui si dice ciò che si dice è sempre la volontà di potenza cioè “l’in vista di …”, per cui se qualcosa si dice è la volontà di potenza, volontà di potenza che è fine a se stessa per Nietzsche, per noi no, cioè l’“in vista di …” , sapere sempre qual è l’ “in vista di …”

Intervento: lei diceva che la volontà di potenza in Nietzsche è fine a se stessa, ma per noi no?

No perché la volontà di potenza in Nietzsche è un qualche cosa che immagina, congettura essere appunto l’essere, cioè la ragione di ogni cosa, mentre ciò che abbiamo considerato tenendo conto del funzionamento della struttura del linguaggio, la volontà di potenza è qualche cosa che rientra all’interno del funzionamento stesso del linguaggio e cioè come la necessità del linguaggio di produrre altre sequenze in un certo modo, con un certo criterio …

Intervento: comunque sempre “in vista di …”

Sì, per questo dico che il linguaggio è metafisico, perché la sua struttura stessa è quella di costruire qualcosa in vista di un’altra cosa, costruire una sequenza in vista di un’altra sequenza, quest’altra sequenza in vista di un’altra sequenza e così via all’infinito, e quest’altra sequenza che segue è “la ragione” di quella che la precede, nel senso che io ho dette quelle cose ma in vista di queste altre che sto dicendo, questo rende conto della struttura metafisica del linguaggio, intendendo con metafisica l’accezione che ci fornisce Heidegger, o lo stesso Nietzsche. Questo ci dice anche un’altra cosa, adesso mi riferisco alla psicanalisi: la psicanalisi nasce come tecnica, essendo metafisica d’altra parte sarebbe stato complicato che non fosse una tecnica, la tecnica è costruzione di strumenti, di mezzi in vista di fini, il linguaggio fa questo, costruisce mezzi in vista di fini, quali sono i mezzi? Le argomentazioni, i discorsi, i racconti eccetera, la psicanalisi cosa fa? Costruisce mezzi in vista di fini, mezzi, strumenti, dispositivi a seconda di come si pone la teoria che si sta seguendo, questi dispositivi sono in vista di fini. Qual è il fine? Per Freud il fine è l’accesso ad alcuni aspetti dell’inconscio che essendo non accessibile producono sintomi, tanto per farla breve, formazioni di compromesso, sintomi, per Lacan il fine è potere accogliere il fatto che il desiderio di ciascuno è il desiderio di Altro e dell’Altro, per Verdiglione il fine è giungere al compimento della cifra, l’esperienza di cifra. In ciascun caso si tratta di mezzi, dispositivi in vista di fini, che è esattamente quello che fa la tecnica. Se la psicanalisi nasce come tecnica, perché non potrebbe a quanto pare essere altrimenti, allora a questo punto il volgere della psicanalisi in neuroscienze e psicofarmacologia appare la via regia della psicanalisi, e cioè il trionfo della tecnica, trionfo della tecnica che muove dall’idea di costruire dei mezzi in vista di fini, se i fini sono il raggiungimento di un certo obiettivo allora si tratta di trovare degli strumenti, dei mezzi, dei dispositivi più efficaci per raggiungere l’obiettivo. A questo punto si tratta di mettere in discussione la psicanalisi in toto. Se qualche cosa si pone come una tecnica allora è inevitabile che debba seguire necessariamente lo sviluppo della tecnica: se voglio raggiungere un certo obiettivo è chiaro che troverò tutti i mezzi più efficaci e più potenti per raggiungere quell’obiettivo più facilmente e più efficacemente …

Intervento: è quello che si auspicava Freud …

La sua era una tecnica ma “tecnica” in accezione di Heidegger, perché anche Freud, scrive una tecnica, “ripetere, ricordare, rielaborare” costituivano per Freud dei mezzi, degli strumenti della tecnica per giungere a un fine. Quindi l’“uscita” dalla metafisica della psicanalisi e quindi della tecnica della psicanalisi sarebbe la cessazione di credere, e anche questo rientra poi all’interno del raggiungimento di fini, perché la cancellazione di fini e cioè un percorso fine a se stesso, che non ha più fini, è possibile? Forse, però ci si può riflettere, probabilmente no, però come andiamo dicendo spesso è possibile, sapendolo, tenerne conto e quindi non essere travolti dal pensiero metafisico, ma continuare a sapere che cosa sta accadendo, e ciò che sta accadendo è la costruzione di una struttura metafisica che impone di costruire dei mezzi in vista di fini, perché se parlo, parlo per un motivo, cioè in vista di un fine, quindi è probabile che non ci sia uscita da una cosa del genere. D’altra parte se il linguaggio ha questa struttura che chiamiamo “metafisica”, e che la metafisica non ha fatto nient’altro che rappresentare a modo suo il funzionamento del linguaggio, non ci sono altre possibilità. Il tutto naturalmente all’interno di un gioco, questa è forse la cosa più interessante: potere considerare che il pensiero, il linguaggio ha una struttura metafisica, e quindi non può fare altro che costruire giochi. In un qualunque gioco ogni mossa è fatta in vista di un fine, ma perché qualche cosa sia in vista di un fine, tenendo conto che questo per Nietzsche, per Heidegger stesso, non è altro che il divenire, continuare a inventare, a costruire continuamente cose, devo ininterrottamente fissare degli elementi, ciascuno di questi elementi che interviene nel “diveniente”, ciascuno di questi elementi è quello che è ma al tempo stesso diviene, cosa che non è poi così complicata da intendere, si pensi a tutto ciò che ha prodotto la filosofia del linguaggio, in particolare alla questione del significato, cioè la semantica, perché c’è l’impossibilità di stabilire con certezza dei criteri per definire, per determinare un significato? Perché si è presi in un divenire continuo, ma in questa operazione in cui si è presi in un divenire continuo per potere anche soltanto accorgersi di essere presi in un continuo divenire occorre che ciascuno degli elementi che interviene sia determinabile, se non è determinabile è niente. Ciò che diviene, il diveniente, sembra alludere al fatto che non ci sia possibilità di arresto, per creare quello che Nietzsche chiamava l’“inganno della verità”, se questo “diveniente” non potesse in nessun modo essere determinato, cosa che di fatto come dice il termine stesso non può essere fatto, allora il divenire è niente, perché non è determinato né determinabile, essendo né determinato né determinabile è niente. Questo ci riallaccia un po’ alla posizione di Severino che adesso vi espongo, per intendere come si tratti sempre di giochi linguistici. Severino non segue Heidegger in queste cose che abbiamo visto intorno all’“eterno ritorno dell’uguale” ma fa un altro discorso interessante, ma un discorso che sembra confortare, convalidare, confermare la sua personale posizione teorica. Il discorso di Severino è questo: lui muove da un’affermazione di Nietzsche nella Volontà di potenza che dice “se esistessero degli dei non potrei sopportare di non essere un dio, dunque gli dei non esistono”, se esistesse un dio, un dio eterno, immutabile, allora non ci sarebbe il divenire: se il divenire è fatto di ciò che ancora non è, e di ciò che non sarà più, allora ciò che non è più diventa il passato, un passato su cui la volontà di potenza non ha più nessun potere perché questo passato è immutabile, ed è immutabile esattamente come quel dio che è eterno e immutabile. A questo punto il passato è nella stessa posizione in cui si trova il dio, cioè è immutabile, è inattaccabile dalla volontà di potenza. Severino ricordando un passo di Nietzsche dice “la volontà di potenza digrigna i denti con il passato” perché non può più niente, con il passato non ha più potenza e quindi a questo punto dice Severino che Nietzsche si è trovato nella necessità, per salvare il divenire dal dio, in questo caso posto come il “passato” cioè come ciò che non si muove più, cioè l’eterno. Il problema è che se questo passato permane è un qualche cosa, un qualche cosa che subisce la legge del dio cioè dell’immutabile, quindi non è più un niente, se non è più un niente allora non c’è più creazione perché io posso creare soltanto se dal niente faccio apparire qualcosa che è, se questo “niente” da cui le cose vengono non c’è più allora non c’è più divenire, perché le cose non divengono più perché sono già, sono già tutte, che è poi il pensiero di Severino. Per Severino Nietzsche è stato “costretto” a pensare l’“eterno ritorno dell’uguale”, poiché la volontà di potenza non può ammettere che ci sia qualche cosa che sfugge al suo potere e quindi anche ciò che è passato viene comunque rimesso in circolazione e viene comunque sottoposto alla volontà di potenza e quindi ecco l’eterno ritorno dell’ uguale. È un modo molto differente dal porlo dal modo in cui ve l’ho esposto precedentemente.

Intervento: ci sono state molte interpretazioni …

Sì, ciascuno ha detto la sua, Severino dice che Heidegger rispetto all’“eterno ritorno dell’uguale” rimane incerto, non saprei, in ogni caso non si spinge tanto oltre come ha fatto Severino ma in ogni caso, nella posizione di Severino ciò che domina su tutto è sempre il principio primo, la  βεβαιτατε ἀρχή, che è la verità epistemica, nell’accezione di ἐπιστήμη come era intesa dai greci antichi, e cioè “ciò che sta sopra” e stando sopra governa tutto, controlla tutto, questa è la verità epistemica, quella che vuole raggiungere la scienza: la verità assoluta, incontrovertibile. Quindi si tratta a questo punto di fare un po’ quello che suggeriva Volpi alla fine delle poche righe che ho lette cioè riprendere queste cose e provare a problematizzarle, adesso mi sto riferendo in particolare a ciò che ho detto intorno alla psicanalisi, alla psicanalisi come tecnica, che cosa comporta il porre la psicanalisi come tecnica nell’accezione che ho indicata? Quali sono gli effetti teorici, clinici di una cosa del genere? Nel modo in cui ho posta la psicanalisi come tecnica sembra, lo dicevo prima, inesorabile il fatto che la psicanalisi vada oggi in una certa direzione e anzi c’è da immaginare che sempre di più andrà nella direzione di una tecnica sempre più esasperata, sempre più selvaggia, sempre più dissennata, come diceva Heidegger “la dissennata furia della tecnica” e allora va ripensata la cosa, va ripensata come un procedere, un articolare le cose tenendo conto di questo e cioè sempre più si affaccia l’idea che la psicanalisi non possa fare assolutamente nulla se non muove dalla struttura del linguaggio, cioè se non muove dal funzionamento del linguaggio rimane una pratica metafisica da quattro soldi …

Intervento: Heidegger dicendo che la tecnica ha questa particolarità dicendo che non riesce a pensare se stessa, per la psicanalisi lo sbocco potrebbe essere effettivamente questo quello di poter pensare se stessa.

È l’operazione che abbiamo fatta noi: interrogare, e qui Heidegger è importante, è importante rispetto al modo in cui domanda, interroga, occorre domandare non per sapere altro, per sapere di più, per sapere meglio, occorre interrogare ciò che si sa con assoluta certezza, questo è ciò che occorre fare …

Intervento: posso fare una parentesi? Pensavo al “terzo incluso” di Verdiglione …

Non ha torto, Nietzsche parla del fatto che ciascuna cosa è sempre fatta in vista di qualche cos’altro per via della volontà di potenza, che deve comunque aggiungere altre cose e che non può non farlo, non è molto lontano, entro certi limiti, da ciò che dice Freud rispetto alle fantasie: c’è sempre un qualche cosa che spinge, che muove, ora Freud si è arroccato sulla questione della pulsione e da lì non si è più mosso, ma la questione della pulsione lascia il tempo che trova, è un’ontologia vera e propria, ma se la poniamo come fantasie, cioè altri discorsi, altre sequenze che intervengono a muovermi sempre in vista di qualche cos’altro, alla produzione di altre fantasie o alla verifica di fantasie o qualunque cosa si voglia pensare, allora sì, questo Altro, questa altra scena, l’inconscio è in effetti quel terzo elemento di cui molta psicanalisi ha parlato il “terzo incluso” che a questo punto non ha nulla a che fare con la formulazione aristotelica del IV libro della Metafisica dove parla del principio di non contraddizione …

Intervento: io posso anche sognare due cose che sono una la negazione dell’altra …

Sì, ma ciascuna di queste è necessariamente quella che è, se no non sarebbe una negazione. Le argomentazioni di Severino sono difficili da contrastare: qualunque cosa si dica, se la neghi allora affermi anche il contrario, cioè non la stai negando. Che è vero, questa è una procedura attraverso la quale funziona il linguaggio ed è l’eterno ritorno dell’uguale, torno a dire, e cioè qualche cosa occorre che funzioni come se fosse, “come se”, questa è illusione? Non lo so, ma è “come se” fosse quella che è, di per sé non è né quella che è né quella che non è, non è niente …

Intervento: quando parla di volontà di potenza dice che qualche cosa sia affermato cioè è un significato, e il significato è determinato …

Certamente. Questa sera io ho data una traccia del lavoro che si potrà fare nel prosieguo intorno ad alcune cose, adesso si tratterà di vedere il modo in cui procedere rispetto alle cose dette, e la questione della tecnica è da precisare meglio.