23 Settembre 1999
La tecnica e la
fantasia.
Dicevamo la volta
scorsa della fantasia, che abbiamo definita come lo svolgersi incessante del discorso.
Però, adesso occorre precisare alcune cose.
Ci sono degli aspetti
rispetto al discorso come sapete bene, che abbiamo indicato come struttura religiosa.
La struttura religiosa può essere pensata come una sorta di programma, un
programma non è altro che una serie di comandi obbligati, di inferenze, per cui
se questo allora quest’altro. Il programma del computer funziona così, cioè si
dà un comando allora lui fa questo e nient’altro che quello, in genere.
Dove questi passaggi
sono pensati come necessari, cioè non potersene dare altri. Ciò che distingue
il discorso religioso da un discorso non religioso è che quello non religioso
non considera questi passaggi come necessari, ma riconosce in ciascuno di
questi passaggi l’assoluta arbitrarietà, o, in ogni caso, l’attenersi ad una
regola del gioco, nient’altro che questo.
Intervento: È
un elemento.
Sì. Fuori dal discorso
che stiamo facendo qualunque altro discorso mostra un aspetto religioso, non
c’è verso. Ora dicevo, in qualunque discorso religioso, cioè qualunque discorso
di fuori da quello che stiamo facendo è un discorso programmato in un certo
modo. Come dire che per esempio nel discorso ossessivo di fronte ad un certo
input si comporterà sempre allo stesso modo. Comporterà nel senso che farà le
stessi cose, ovviamente, ma siccome crede una certa cosa se questa cosa viene
minata per esempio, lui si muoverà contro ciò che lo minaccia.
Questo comporta che
tutto ciò che il discorso ossessivo pensa, costruisce ecc., è come pilotato.
Non può uscire dal suo programma. Perché non può farlo? Perché non immagina che
sia un programma. Immagina, semplicemente, che sia la realtà delle cose, che
sia nell’ordine naturale delle cose. Oppure che ci sia un malfunzionamento. In
effetti, talvolta, le persone all’inizio di un’analisi pensano ad una cosa del
genere, ad una sorta di malfunzionamento.
Il malfunzionamento
corrisponderebbe alla sensazione che qualcosa non va come lui vorrebbe che
andasse, questo è il malfunzionamento. Esattamente così come si definisce
qualcuno che disubbidisce, quando si disobbedisce? Quando non fa le cose che io
voglio che faccia. Questa sorta di malfunzionamento dicevo, è avvertito come
una sorta di cattivo adattamento, o più genericamente come il non riuscire a
fare le cose che si vorrebbero fare. Questa definizione che può apparire molto
banale pone l’accento invece su un aspetto importante. L’abbiamo detto varie
volte della responsabilità. Voglio fare questa cosa ma non riesco. Perché no?
Visto che nessuno l’impedisce fallo. Apparentemente parrebbe così, però poi non
avviene così. Come intendere questo impedimento? Intendiamoci bene, il fatto
che ci sia un impedimento non è questione né primaria né secondaria rispetto all’intenzione
di fare una certa cosa, anche l’intenzione di fare quella certa cosa non va
così da sé. Ma, lungo l’analisi può accadere che si ponga questa questione.
Questa che vuole fare e il problema che è impedita oppure lo desidera perché è
impedita? Cioè le due cose avvengono simultaneamente, non potrebbe darsi l’una
senza l’altra. Se non fosse impedita la farebbe? Naturalmente no. C’è una
produzione continua d’impedimenti, questa cosa deve rimanere impedita. Può essere
pensata solo in quanto impedita. Se no non potrebbe pensarla.
Se una certa cosa per
potere pensarsi deve essere impedita allora questo può incominciare a far riflettere.
Riflettere in questo senso: perché una certa cosa per essere pensata deve
essere impedita? A che scopo? A che cosa serve questa struttura? La risposta a
questa domanda non è difficile. Un’intenzione impedita cosa fa esattamente? In
prima istanza accusa il responsabile, qualcosa o qualcuno. Accusando o trovando
il responsabile di questo impedimento, cioè trovando l’elemento fuori dalla
parola, la persona si toglie la responsabilità, in prima istanza, cioè io farei
se potessi...
C’è sempre il
responsabile esterno, può essere qualcuno o qualcosa, all’interno di questo
qualcosa c’è anche la malattia, anche mentale. O un’angoscia, una paura,
qualunque cosa.
C’è dell’altro. Il
potere pensare una cosa solo se è impedita, ha, ovviamente, la funzione di mantenere
questa cosa in potenza, il che ha una funzione particolare che ciascuno di voi
reperisce immediatamente, cioè mantenere questa cosa come una sorta di ideale.
Come dire, se questa cosa si verificasse allora, finalmente, sarei felice.
Stiamo procedendo per piccoli passi. Sarei felice quindi tutto funzionerebbe,
non funziona perché c’è questo impedimento, perché, per esempio, non riesco a
fare una certa cosa, se riuscissi sarei l’uomo più felice del mondo, qualcosa
del genere.
Ma, tutta questa
struttura, come avete inteso, mira a mantenere una condizione d’immobilità, ovviamente.
Come se, almeno così appare d’acchito, non dovesse essere felice, perché
nessuno gli impedisce di fare ciò che desidera, in modo da rimanere in una
condizione d’insoddisfazione. A chi giova l’insoddisfazione? Oltre che a
piangersi addosso? L’insoddisfazione è una sorta di condizione dove c’è la
percezione di qualche cosa che potrebbe rendere felici ma questo non è
possibile. Ora, la felicità qui è immaginata come l’assenza di insoddisfazione,
così avviene generalmente, la condizione in cui si cessa di stare male per
qualcosa. Ma, tuttavia parlare d’insoddisfazione è anche porre l’accento su una
condizione in cui la persona è in attesa, rimane in attesa. O comunque auspica
che questa insoddisfazione sia assente, il che non è, ovviamente, perché
potrebbe farla cessare in qualsiasi momento.
Di cosa è fatta
l’insoddisfazione? C’è l’attesa, attesa che questa cessi, e questo è un aspetto
notevole dell’insoddisfazione, l’attesa. Ma è fatta anche di sensazioni. Di
sofferenze. Come potremmo definire la sofferenza?
Intervento: Un
qualcosa che non si è raggiunto, un impedimento.
Sì, una volta forse
avevamo detto che c’è una sensazione di qualcosa che manca e l’attribuzione a
questo qualcosa, è una sorta di carattere di necessità, quindi manca una certa
cosa e questa cosa è necessaria, potremmo indicare così la sofferenza. In
termini molto generali.
Intervento:…
Sì. È da considerare
questo aspetto, che è di troppo ed eccede rispetto a qualcosa che si considera
in equilibrio, per esempio, in questo senso viene a mancare l’equilibrio.
Certo, un eccesso di qualche cosa può creare sofferenza.
Intervento:…
Certo, sì.
Intervento:
dove il pensiero interviene come un disturbo.
Sì, dicevo, l’assenza
di qualcosa che è ritenuta necessaria. Il pensiero, per i più, non è ritenuto
affatto necessario, ma, anzi, soprattutto in questo momento, un malanno che
sorge a creare problemi. Quindi la mancanza di qualche cosa che difetta
rispetto a una sorta di equilibrio che, praticamente s’immagina, no? Poi, che
sia per eccesso o per difetto questo può avvenire certo.
Molti eccessi sono
dannosi, anche l’eccesso di calore, se Cesare lo mettiamo, per esempio, a cinquemila
gradi, se ne ha a male.
Ma, tornando alla
questione di cui si diceva e cioè dell’insoddisfazione che, tra l’altro è una
questione molto diffusa, la cui funzione, come stiamo intravedendo è quella di
mantenere la condizione di mancanza. Viene da domandarsi come mai gli umani
amino mantenere questa condizione?
Intervento:…
Entrambe le cose,
l’insoddisfazione e la mancanza. Qualcosa che non c’è, che manca all’equilibrio
che s’immagina. La questione in tutto ciò, su cui merita riflettere, è molto
semplice, e cioè che l’enunciazione del disagio, della sofferenza,
dell’insoddisfazione, di qualunque altra cosa di per sè non enuncia assolutamente
niente, non ha nessun referente. È soltanto una serie di proposizioni le quali
costruiscono una sorta di condizione dove la persona afferma un qualche cosa e
questo qualche cosa è la sofferenza e questa sofferenza produce emozioni, cioè
produce repentini cambi di condizione, produce differenze. Anche una sofferenza
a lungo protratta produce una differenza come bene sa chi soffre molto. Differenza
da che? Da chi sta bene e che stando bene
non conosce i drammi e le tragedie. Come il Vangelo insegna, più
soffrirete più saprete, in tutta la tradizione cristiana il sapere è fatto
precedere dalla sofferenza. Perché Cristo ha diritto, può parlare e dire la verità?
Intervento:
Perché ha sofferto.
Esattamente. Se fosse
stato in discoteca tutta la serata invece che stare sul Golgota non avrebbe avuto
la stessa credibilità. Una persona che molto ha patito, molto ha sofferto, è
più attendibile. Ma
Intervento: Ma
è disgiunta la colpa dalla responsabilità.
Qui occorre precisare,
addossarsi la colpa per chi lo fa è sempre una questione di merito, anche se
lamenta questo peso. Portare la croce, cioè cosa ha fatto Gesù Cristo? Si è
fatto carico di tutti i peccati, lui è diventato il peccatore per eccellenza.
Assumendosi questo
carico cosa fa? Soffre, ovviamente, non è che ne gioisce, anche se non potrebbe
neanche gioirne, in teoria, però secondo la religione cristiana e, quindi,
secondo il discorso occidentale, soffre. Soffre per gli altri. È la stessa cosa
che accade alla persona che molto soffre di reperire questa fantasia, di
soffrire per gli altri. Gli altri stanno bene mentre io soffro. Vedi di non soffrire,
e già, e se non soffro come mi distinguo? Come mi differenzio dal volgo? Questa
è la sofferenza che è stata poi nobilitata dalla Chiesa per tutta una serie di
motivi. E fortemente presente nel discorso occidentale, al punto che, come
dicevo prima, una persona che molto ha sofferto è non solo più attendibile ma
tenuta in maggiore considerazione per chi invece si è dedicato ai bagordi per
tutta la vita.
Intervento:
Anche giudicato male.
Generalmente sì,
certo. Cosa fece Francesco? Il santo di Gubbio. Abbandonò la vita di sollazzi e
di scelleratezze per vestirsi di cilicio ed andare in giro a piedi scalzi sotto
la neve.
Intervento:…
Esatto, chi non ha
provato non può sapere, no? Chi non ha provato a darsi una martellata sui denti
non può sapere che fa male. Quindi solo io so, è un privilegio, è molto
cristianamente, la condizione della sofferenza.
Quindi io ho sofferto
e nessuno può capire la mia sofferenza.
Cominciate,
chiaramente, ad intendere qual è la portata della sofferenza nel discorso
occidentale e perché sia anche così perseguita con determinazione, con ostinazione
in molti casi.
Non dovete pensare
alla sofferenza come ad uno stato d’animo nefando, nefasto, triste, no. È, il
più delle volte, un’arma di seduzione. Io non so voi quando eravate piccoli
cosa facevate, una delle tecniche seduttive era quella di mostrarsi, verso i
quindici, sedici anni, sempre molto tristi, molto pensierosi, molto tenebrosi,
no? Questo aveva un fascino particolare, naturalmente si stava benissimo, non
stava succedendo niente e si era felici come pasque però di questa maschera,
magari con il dolcevita nero alto... e allora si metteva in atto questa sceneggiata,
come dire la sofferenza seduce. E, quindi, cominciare a pensare ad una persona
che soffre in un modo diverso, tenendo conto che in alcuni casi può apparire
sacrilega la cosa, tuttavia c’è questa eventualità. Dopo avere considerato
molto attentamente che la sofferenza non è necessaria di per sé, dopo avere
considerato che pertanto è una produzione del discorso, quindi qualcosa che una
persona crea a suo uso e consumo, adesso stiamo cominciando a considerare il
perché, quale è il vantaggio. Difficilmente una persona soffrirebbe se non ne
traesse un vantaggio. Parlo di sofferenza per distinguerla dal dolore, se mi cade
un sasso su un piede proverei dolore non sofferenza. Potremmo così per uso
didattico distinguere la sofferenza dal dolore, indicando con sofferenza il
mantenimento di un pensiero, di un discorso che non ha più nessun motivo di
essere.
Intervento:…
Sì, però adesso io li
distinguo giusto per non sovrapporre il mattone che mi casca su un piede dalla
sofferenza che è una condizione dell’anima proseguita nel tempo, però. Mentre
il dolore del mattone che cade sul piede cessa, la sofferenza viene coltivata.
Intervento:…
Questo fa un po’
pensare a due questioni importanti: l’una è l’utilizzo della sofferenza, perché
il discorso occidentale mantiene questa questione. La persona che soffre è, per
definizione, bisognosa. Quindi mantenere uno stato, una sofferenza significa
mantenere la persona in stato di bisogno che ci sia qualcuno che faccia da
padrone, che governi il tutto, che se tutti stanno bene allora ecco che c’è l’emergenza.
L’altra è, invece, una considerazione più tecnica rispetto all’analisi. Mentre
tutti i bravi psicanalisti fanno di fronte ad una persona che soffre tante
sedute per togliergli la sofferenza, riuscendo talvolta perché fanno esattamente
una conversione, cioè convertono da una religione all’altra. E allora tu devi
smettere di soffrire perché adesso credi in quest’altra cosa, e, quindi, non
soffri più perché pensi che i mali del mondo siano questi ma perché sono questi
altri.
In effetti un’analisi
non funziona se non si arriva ad una conversione religiosa, ché togliere la
sofferenza ad una persona è togliergli ciò per cui gode per lo più, è ciò
attraverso cui immagina di essere diverso da tutti gli altri. Cosa a cui non rinuncia
per nessun motivo. In effetti talune psicanalisi sono interrotte anche, in
alcuni casi, per questo motivo, cioè sbarazzare di qualche cosa senza mettere
un’altra religione. Se si sbarazza senza la religione la persona si smarrisce e
se ne va.
Quindi, come dicevamo
qualche volta fa, non si tratta affatto di togliere la sofferenza, la
sofferenza è qualcosa che aiuta, anche lungo l’analisi, mantenerla. L’analista
non fa nulla né per mantenerla né per toglierla, ma la sofferenza di cui si
tratta non è il male. L’analista della parola sa benissimo che non c’è il male
di cui sbarazzarsi e che una persona che dice di soffrire non ha nulla di
differente da una persona che dice di star bene, che dice che ha paura del buio
è la stessa cosa. Dice soltanto qualche cosa che il suo discorso ha costruito,
nient’altro che questo, non c’è nessun referente. È una proposizione che non ha
nessun referente.
Quindi l’analista non
ha né da togliere né da mantenere. Soltanto che considerare la portata religiosa
di questa affermazione, quindi l’analista sa di avere a che fare con una
persona profondamente religiosa e, quindi, programmata in un certo modo. Se
dice una certa cosa allora si muoverà in un certo modo.
Qual’è l’utilità di
sapere questo? Per riprendere una questione che abbiamo accennato tempo fa, della
strategia e della tattica, potremmo dire che in analisi la strategia è questa:
c’è un discorso, un discorso religioso, quindi programmato in un certo modo.
Intendere come è programmato prima cosa, cioè quali sono le inferenze fisse,
quelle necessarie, le cose in cui crede. Poi, mettere alla prova questa sorta
di, chiamiamolo programma, come si mette alla prova? Lo si fa funzionare forzandolo,
come una macchina. Come si fa metterla alla prova? La si forza. In questo caso
come si forza il discorso? Portandolo alle estreme conseguenze. Solo che questa
è una macchina particolare che forzandola salta, sempre, necessariamente. È
come portare il motorino 50 a ventimila giri, brucia, chiaramente. E così il
discorso, è come se bruciasse, salta. Salta perché questo programma è costruito
su assiomi che, per il programma stesso, devono essere assolutamente fondati, è
come se il programma esigesse questi fondamenti, ma che non ci sono. Quindi, è
sufficiente far ricorso al programma esso stesso, e questo avviene in analisi,
come dicevo prima, portando il discorso alle estreme conseguenze e, quindi,
prendendolo molto seriamente.
Fare quasi il verso e
anche, in alcuni casi, un’operazione retorica questa, prendere le premesse
dell’avversario e mostrare le conclusioni assolutamente compatibili e
assolutamente opposte a quelle che voleva far vedere, però non è necessariamente
questa la via.
Prendere talmente alla
lettere il discorso fino a far dimostrare la cosa perché la persona non fa questa
operazione, se lo facesse non potrebbe più sostenerlo, non lo può fare. È come
se dicesse la mia cinquecento può arrivare a trentamila giri, va bene fallo e
brucia, inesorabilmente. È questo che si tratta di fare, far bruciare il
motorino. In questo caso mandare in loop il discorso non è altro che ritorcerlo
contro sé stesso e, quindi, portandolo alle estreme conseguenze imporgli di mostrare
i suoi fondamenti. Imporglielo, letteralmente. Operazione difficilissima da
fare. Perché di fronte al prendere sul serio il suo discorso la persona fugge,
immediatamente. Cioè fugge, si sconcerta, non capisce cosa sta succedendo,
eppure non fate nient’altro che prendere alla lettera quello che sta affermando.
Come dire, accogliere le regole del suo gioco e portarle alle estreme
conseguenze. Il fatto che la persona non lo faccia è questo il problema, è solo
questo. Noi, in quanto analisti della parola dobbiamo compiere questo miracolo,
fare in modo che lo faccia, che se lo fa, non può credere più ad una parola di
quello che dice. Non può più credere che sia una cosa necessaria., ma
considerarlo come inesorabilmente gratuito, non più credibile. Lo dico perché
mi piace dire così e me ne assumo la completa responsabilità.
Intervento:…
Esattamente. Tutto
questo per cominciare a porre le condizioni per affrontare in termini
interessanti la scommessa. Poi ci vorrà del tempo per trovare le proposizioni
algoritmiche. Richiede tempi di elaborazione molto lunghi. Anche perché la
questione del discorso religioso è continuamente e costantemente presente come
interferenza anche nell’elaborazione teorica. Ci vuole niente a sconfinare.
Ecco potete prendere
la seconda sofistica come una sorta di procedimento che dovrebbe consentire il
proseguire teorico senza cadute di questo tipo, senza affermazioni che non
stanno da nessuna parte. Ma fare in modo che, ecco la famosa assiomatizzazione
che abbiamo compiuto nella seconda sofistica, come fondamento della
matematizzazione che dobbiamo fare, il discorso, in termini più tecnici.
L’assiomatizzazione che consente di confrontare qualunque affermazione si
produca con un sistema sufficientemente potente da valutare se questa
affermazione data per certa e non lo è
affatto oppure, effettivamente non è negabile in nessun modo.
È un criterio. Bisogna
sempre tenere conto che la sofferenza è l’arma di seduzione più potente. Molte
fanciulle lo sanno benissimo, le fanciulle sono più attente, e non c’è trucco o
maquillage o lifting che valga un mostrarsi bisognosa dell’uomo, in questo
caso. Per esercitare il fascino.
Intervento. È
l’unica arma che ci avete lasciato...
Ecco. Ed un’arma che
funziona sempre, la persona che soffre ottiene sempre l’interesse e la partecipazione
e la comprensione.
Intervento:
Proprio come il bimbo che piange, sono tutti lì vicino a lui.
Esatto. Non capita mai
che una persona soffra moltissimo e l’altro dica :"Non me ne frega
niente". Farebbe la parte della persona disumana.
Intervento:
Stavo pensando alla questione dell’insoddisfazione che è anche molto
interessante.
Sì, sembrano tutti insoddisfatti.
Intervento:
Stavo pensando proprio a questo perché l’altra volta ne abbiamo parlato. A
parte il fatto che come, per esempio, di fronte all’insoddisfazione,
l’insoddisfazione potrebbe funzionare in due modi. Da una parte potrebbe essere
ciò che stimola anche una reazione come si diceva anche un po’ rispetto alla
questione della paura, cioè alla paura c’è qualcuno che reagisce, che cerca diciamo
di utilizzare la cosa per togliersi da un pasticcio o da una cosa del genere,
c’è chi di fronte alla paura si paralizza, la questione dell’insoddisfazione
non è molto differente. Ha a che fare con la questione dell’impedimento.
Perché, parlavamo l’altra volta dell’invidia, l’invidia è qualche cosa che ha
che fare, appunto, non con qualche cosa che si invidia, ma con l’atteggiamento,
cioè con l’atteggiamento nel senso di chi, per esempio, si sente impedito, come
dire che s’invidia colui che non si lascia impedire da ciò che impedisce altri,
per esempio. La questione della giustizia poi, tra l’altro, ha a che fare con
questo. Quindi, ha a che fare con la questione dell’impedimento, con questo mantenere
l’impedimento. Forse più che mantenere l’insoddisfazione, mantenere
l’impedimento. Cioè l’insoddisfazione è la constatazione dell’impedimento.
L’invidia è sempre
la sofferenza, in un certo senso. Manca qualcosa che altri hanno, in questo senso.
Stavo pensando all’impedimento, se la questione dell’insoddisfazione abbia più
a che fare con il mantenimento dell’impedimento, l’insoddisfazione è
l’annunciazione dell’impedimento.
Sì, certo.
Intervento: Il
fatto che l’insoddisfazione sia la cosa più comune, come dicevamo prima, fa
pensare che la questione dell’impedimento sia proprio nel discorso.
E questo ha anche a
che fare con il gioco, più impedimenti ci sono più il gioco è interessante. E
quindi, più io sto facendo un gioco difficile, guardatemi come sono bravo, più
ostacoli ci sono più soffro.
Intervento: In
un parola più sono teso e meglio è, per arrivare a...
Sì. Che chi fa il
gioco più difficile, anche questo, suscita l’ammirazione di tutti.
Intervento:…
Forse si distingue
colui che non riconosce gli impedimenti come validi, e, quindi, non riconosce
la sua particolarità dei suoi impedimenti, della sua sofferenza.
Intervento: La
sofferenza è sempre un omaggio a Dio, in qualche maniera. Anche in questo caso.
Certo, sì. Bisogna
riflettere molto su questi luoghi comuni.
Intervento:…
Sì, certamente. Una
persona che soffre pretende di essere riconosciuta.
Intervento: Per
questo dicevo che è un omaggio a Dio perché in questo modo si fa riconoscere.
Sì.
Intervento:…
Sì, è una delle
questioni che vanno prese alla lettera. Uno che vuole essere come tutti. Come
tutti chi?
Sì, va presa alla
lettera altrimenti c’è solo la conversione, un’altra religione. Nessuno è
disposto ad ammettere che s’impedisce, se si pone domande intorno a questa
questione, ha già fatto passi avanti. Gli impedimenti sono irreali, e se non ci
fossero sarebbe la persona più felice del mondo.
Questo è già, quasi,
un punto di arrivo.
Intervento:
Come se fosse un modo di esistere.
Sì. Bene, abbiamo
delle belle questioni su cui lavorare.
Dovremmo pensare a
diffondere i volantini. Buona sera, ci vediamo giovedì prossimo.