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23 agosto 2023

 

Aristotele Le Categorie 

 

Dunque, incominciamo a leggere l’Organon e iniziamo con le Categorie. Che cosa significa κατηγορεῖν in greco? Trendelenburg fa una brevissima analisi del termine categoria. Κατηγορεῖν è usato abitualmente nel significato specifico di “accusare”. Già in alcuni, sebbene rari, luoghi platonici ha il significato più generale di “predicazione”. Non si può attribuire quest’ultima direzione a due luoghi del semi-platonico Alcibiade primo, sebbene Woodman intenda in primo luogo il κατηγορεῖν nel senso generale, dal contesto emerge tuttavia che anche qui il significato è quello di “denuncia di una mancanza”. Non si può, invece, conferire con Schleiermacher: il significato di ammonire ad un luogo del Teeteto. Qui, infatti, si dice nel senso di Protagora, per il quale l’uomo è misura di tutte le cose: ricorda quel che già prima dicemmo, che a chi è malato i cibi sembrano amari, a chi sta bene al contrario sembrano gradevoli. Senonché non è lecito inferire da ciò che di questi due l’uno è più sapiente dell’altro, perché non è possibile e nemmeno si deve dire che l’ammalato, perché ha tale opinione, è ignorante ed è sapiente il sano perché ha opinione contraria. Quindi, il termine κατηγορεῖν ha assunto solo dopo il significato di “predicazione”, originariamente era un’accusa, un accusare qualcuno di qualcosa. Questo giusto per avere un’idea di che cosa significa κατηγορεῖν. Dunque, come incomincia Aristotele? Si dicono omonime le realtà che hanno in comune solo il nome, mentre la definizione dell’essenza (significato) corrispondente al nome è diversa. Questo è il significato di omonimia. Per fare un esempio: il nostro amico Cesare ha lo stesso nome di un altro Cesare, il dominatore delle Gallie: il nome è lo stesso ma è differente il significato. Però, qui dice: Si dicono omonime le realtà che hanno in comune solo il nome. Questa parola le realtà nel testo greco non c’è. Infatti, nella traduzione di Colli non si parla di realtà ma di oggetti. Qui, come in altre occasioni, compare la parola le realtà. Ora, quando compare questa parola le realtà dobbiamo tenere conto che non è Aristotele che parla ma il suo traduttore, perché nel testo greco questa parola le realtà non c’è. Quindi, omonime sono tutte le cose che hanno in comune il nome ma non il significato. Viene da chiedersi: come mai Aristotele inizia da lì? Iniziando da lì incomincia a dirci qualcosa che si rivelerà poi determinante, perché Aristotele dice Si dicono omonime e non sono omonime – infatti, usa il termine λέγεθαι. Quindi si dicono e non sono. Questo è importante perché tutto ciò che seguirà, quando parlerà della sostanza, la questione diventerà determinante, perché la sostanza non è ma si dice. Qui sta la distinzione fondamentale, la distanza infinita tra Aristotele e Platone. Per Platone sono; certo, sono le idee che stanno nell’Iperuranio, ma sono, sono per virtù propria, sono quelle lì, pure e crude. Per Aristotele no. Vedremo poi come la stessa ούσία, la sostanza, non è se non in quanto si dice: la sostanza è ciò che si dice, non “è” propriamente. Ora, questo avrebbe potuto richiamarvi ad altri concetti, visti in precedenza: δύναμις e ἐνέργεια, in sé e per sé, significante e significato, dove il primo elemento, che sarebbe la sostanza, non c’è se non c’è il secondo. Quindi, non c’è se non in una relazione. E, infatti, lo vedremo poi, ma, giusto per anticipare in modo che siano più chiare dopo, la stessa sostanza in Aristotele è un concetto piuttosto vago. Lui stesso dice che della sostanza non si può predicare niente se la sostanza fosse quel qualcosa così come è per Platone: non si può predicare nulla, così come non si può predicare nulla delle idee, che sono quelle che sono e basta. E, invece, per Aristotele no, dal momento che la sostanza non è nient’altro che ciò che se ne dice, cioè le categorie, le predicazioni, le determinazioni. Aggiunge poi che Si dicono sinonime le realtà il cui nome è comune… Compare di nuovo il termine le realtà. …e la definizione dell’essenza corrispondente al nome è la stessa. Così, ad esempio, animale è sia l’essere umano sia il bue. Ciascuno di essi, infatti, viene chiamato animale con un nome comune e la definizione dell’essenza è la stessa. È un modo di intendere la sinonimia, quello di Aristotele, che è differente da come la si intende oggi. Per lo più oggi sono sinonimi dei termini che hanno parole differenti ma significati uguali: per es, mancanza e penuria sono parole diverse ma significano la stessa cosa: un’assenza. Per Aristotele sarebbe l’assenza il nome comune che hanno entrambe. Si dicono derivate infine le realtà che vengono nominate in base a un certo termine e da cui però differiscono nella desinenza. Per esempio, il grammatico viene da grammatica, il coraggioso da coraggio. Lui traduce con derivate ma, in effetti, avrebbe potuto lasciare il termine greco di paronimia, perché lo si usa anche in italiano nella retorica, nella stilistica, ecc. Paronimi sono appunto questi termini che sono derivati, per es., da un sostantivo. La questione della sostanza è una questione estremamente importante, che mi sollecita un progetto. La sostanza, platonicamente e non aristotelicamente, è qualcosa che non può rappresentarsi, che non può dirsi, che non può utilizzarsi, ma sta lì nell’Iperuranio, cioè, va creduta senza che vi sia alcuna argomentazione a sostegno: è un’ipostasi. Che cos’è un’ipostasi? Letteralmente, è ciò che sta sotto, che è una definizione un po’ povera. Un’ipostasi è ciò che si afferma e che non ha bisogno di essere dimostrato, non perché autoevidente ma perché lo si afferma come qualche cosa che deve essere così. Da dove viene questa idea? Viene da Platone, soprattutto dal neoplatonismo. Ora, c’è un progetto che mi affascina: riflettere bene e considerare attentamente il fatto che intanto tutto il pensiero, potremmo dire, da Platone in poi è sempre stato platonico, non è mai stato aristotelico. Questo nonostante la rivisitazione di Aristotele avvenuta nel basso Medioevo, che è stata comunque una rivisitazione e una rilettura di Aristotele attraverso Platone, soprattutto da parte di Plotino e dei neoplatonici (Plotino, Porfirio, Proclo, Giamblico). Loro hanno costruito un modo di pensare che funziona ancora oggi, che non dice in che cosa bisogna credere – questo cambia con le epoche, con le mode – ma quali sono le condizioni per le quali si crede. Faccio un esempio perché mi rendo conto che non sia facilissimo seguire, ma le cose che oggi vengono credute per lo più dai più non sarebbero state credute, proprio per nulla, da persone come Gorgia, Lisia, Zenone, Democrito. Sarebbe stato impossibile perché pensavano in un modo che è quel modo che poi Aristotele ha sviluppato, a modo suo, certo, ma è quel modo che viene, potremmo dire, da Eraclito. Eraclito non avrebbe mai potuto credere in nessun modo le cose che oggi vengono credute con assoluta leggerezza, fiducia e protervia. Sarebbe stato impossibile, avrebbero riso in faccia, esattamente come è accaduto a Paolo di Tarso quando andò alla scuola di Atene a proporre la nuova dottrina di Gesù Cristo: gli risero in faccia e dovette andarsene via. A chi si rivolse, allora? Ai pescatori, a gente rozza. Infatti, Cristo diceva che si rivolgeva ai poveri, ai poveri di spirito, perché erano gli unici che gli davano retta; gli altri, appunto, gli ridevano dietro, così come accadde a Paolo di Tarso all’Accademia di Atene. Ora, questo modo di credere è del tutto neoplatonico e il neoplatonismo si è conservato a tutt’oggi integro e dominante su tutto, e cioè l’idea che ci sia un qualche cosa, l’Uno, del quale non si può parlare, che però c’è. L’esempio più evidente sono i numeri: nessuno sa cosa sono, però con i numeri si costruiscono cose, cose che si vedono, che soprattutto si vendono e producono quattrini, pur non sapendo esattamente che cos’è un numero. Questa è una fantasia totalmente platonica, non esiste in Aristotele una cosa del genere, meno che mai nei presocratici. Ora, si tratterebbe a questo punto di fare un lavoro impegnativo, un lavoro che dovrebbe consistere nel rilevare nei testi dei neoplatonici tutti quegli elementi di pensiero che si sono mantenuti, preservati e consolidati nei millenni e che nel corso dei millenni ha tratto sempre maggiore forza. Quindi, occorrerebbe un gruppo di persone composto da filosofi, filologi, storici, linguisti, semiologi, logici e magari anche un fisico, più appropriatamente uno storico della fisica. Fare, quindi, un lavoro immane, dove vengono compulsati testi, che magari non sono neanche facilmente reperibili, una cosa che soltanto una istituzione, una fondazione può mettere in piedi, anche perché una cosa del genere ha costi stratosferici. Inoltre, fare lavorare assieme questi personaggi, questi intellettuali, è un’operazione complicata, anche perché gli intellettuali spesso sono peggio delle soubrettes, ognuno vuole prevalere sugli altri, fare vedere quanto il suo lavoro sia prioritario rispetto agli altri. Oppure, visto che non abbiamo alle spalle una fondazione che elargisce fondi illimitati, dobbiamo prendere allora un’altra strada, e cioè mettere a frutto la capacità, l’intelligenza, l’abilità e l’acume straordinari che possediamo e utilizzando queste cose possiamo andare molto oltre quanto potrebbero andare tutti i personaggi elencati prima. Noi abbiamo questo vantaggio, possiamo vedere il tutto, e avere le conoscenze più che sufficienti di tutte queste discipline e giungere quindi a intendere che cosa, poi? Che noi continuiamo, senza saperlo naturalmente, a vivere nel mito: non siamo mai usciti dal mito. Μύθος in greco vuol dire racconto, significa anche parola, significa un sacco di cose, come accade con le parole greche che significano cose diverse a seconda di come si usano, di chi le usa, ecc. Viviamo nel mito. Cosa significa questo? Che ogni cosa che noi troviamo, incontriamo, pensiamo, ecc., è un racconto. Che sia la lista della spesa, una dichiarazione d’amore o l’insieme di formule per la costruzione della bomba atomica, sono tutti racconti che raccontano qualcosa. E non possiamo uscire dal mito; la stessa idea di essere usciti dal mito, attraverso la precisione, come voleva Alexandre Koyré, che ha scritto un libricino, Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione, dove pone questa questione in termini che per noi sono abbastanza ingenui, accorge di questa precisione non accorgendosi che questa precisione è un altro mito. Uscire dal mito a questo punto equivarrebbe a uscire dal linguaggio e vedere finalmente come stanno le cose. Il mito racconta, non dice come stanno le cose, racconta delle cose e continua a raccontarle, il che è esattamente ciò che fanno tutti gli umani incessantemente, costruendo altri miti, ad esempio la matematica, che è un altro mito, un altro racconto che non può dire come stanno esattamente le cose, perché se noi vogliamo interrogare la matematica sui suoi fondamenti ci troveremmo nella mala parata. La matematica è un racconto che non deve essere interrogato, nel senso che muove da un qualche cosa che pre-suppone esistere, esattamente come l’idea, l’εἶδος platonico: si suppone che esista ma non è dicibile, non è argomentabile; non è possibile, ad esempio, stilare le categorie delle idee platoniche, queste categorie non ci sono, quella che è è, è una, inalterabile, cioè irrelata, e se è irrelata già tutte le categorie non esistono più. Ma la cosa più interessante è questa. Supponiamo di giungere a questo punto dove ci appare… anche perché in questi casi non avremo mai la certezza – ho appena detto che non c’è la certezza – ma si tratta di giungere a intendere, di non dimostrare nulla – non si può dimostrare niente in queste cose – ma di mostrare però una connessione, un’articolazione, mostrare come un discorso è proseguito e continua a proseguire con gli stessi presupposti. Qual è l’effetto di una cosa del genere? Non è difficile da prevedere, tenendo conto di ciò che ho appena detto, e cioè che ciascuna cosa, compresa ovviamente la scienza, è un mito, qualcosa che deve essere creduto… A partire da che? Ecco la domanda che i presocratici – lo stesso Aristotele ma soprattutto i presocratici, Eraclito in testa, ma anche lo stesso Parmenide e tutti gli altri – avrebbero posto: dobbiamo crederci ma a partire da che? In base a che cosa? Perché lo dici tu? Non è un granché come fondamento. Se ogni cosa, dunque, non è non può non essere che racconto, allora capite subito che cambia tutto, cambia letteralmente il mondo, quella cosa in cui ciascuno è immerso, perché cambiano i significati, cambiano i modi in cui io vedo le cose, cambia la mia disposizione, il mio πάθος, il mio stato d’animo, ἓξις. ἓξις è quella parola che significa il mio stato d’animo in quel momento – non sono più situato in quel mondo lì, in quel mondo che si basa su un atto di fede, su una credenza, su una superstizione. Qual è la superstizione? Quella stabilita da Plotino, e cioè che esista l’Uno, dal quale poi procedono quelle che lui chiama ipostasi. Infatti, non è un caso che la chiami ipostasi, perché sono ipostasi, sono cose che lui pone così ma che non hanno modo di essere dimostrate e nemmeno mostrate: è così perché lo dico io. L’Uno è come l’essere, non è visibile, toccabile, non se ne può dire niente. Da qui è poi sorta la cosiddetta teologia negativa, teologia apofatica, per cui si può solo dire ciò che non è e non ciò che è. Per Aristotele non è così: non solo non è vero che non possono dirsi ma devono dirsi, perché è soltanto dicendole che ci sono, soltanto se ne dico c’è qualche cosa. E la sostanza – questo non lo dice Aristotele ma lo potremmo trarre anche da alcune sue affermazioni, da alcune sue considerazioni – non c’è prima delle categorie, non c’è neanche dopo, ma la sostanza è lì, è nelle categorie, è quel qualche cosa che permane. È un po’, come direbbe Gentile, il pensiero pensante rispetto al pensiero pensato: non posso mai determinare il pensiero pensante. L’ούσία rimane l’indeterminabile che è sempre presente nell’indeterminato.

Intervento: Il λέγειν τί

Heidegger aveva accostato non tanto il τί ma il τόδε τί. Il τόδε τί sarebbe il “questo qui”, il qualcosa in quanto “questo” qualcosa, non un qualcosa qualunque. Il λέγειν τί è il dire qualcosa, ma qui è il dire che fa questione, perché è il dire che dilegua immediatamente e dilegua nel τί, nel qualcosa che si dice. Questo dileguare è quella posizione, diciamola così in termini un po’ rozzi, che occupa l’ούσία, la sostanza. La sostanza è ciò che dilegua mentre la descrivo, eppure non posso non descriverla. L’ούσία, la sostanza di Aristotele, non c’è prima delle categorie, neanche dopo, naturalmente, ma è nelle categorie, è lì la sostanza, come ciò che insiste in quanto – potremmo dirla alla Derrida – differente, come il differire tra il dire e ciò che il dire dice. Φύσις κρύπτεσθαι φιλεῖ, ciò che sorge, sorgendo dilegua; il dire, dicendo dilegua nelle categorie: la sostanza deve dirsi ma dicendosi dilegua nelle categorie.

Intervento: È come se parlando di rincorresse una eco.

In un certo senso, sì. Se ci pensi, c’è la voce e c’è l’eco, ma la voce e l’eco vanno insieme, non sono separabili. La voce non posso determinarla, non posso scomporla nei fonemi, come aveva tentato di fare Trubeckoj, russo e che si è occupato di fonologia. Per esempio, esiste la “p”? Esiste una esecuzione della “p”, ma la “p” in quanto tale come la pronuncio? Appunto, eseguendo il dire. È la stessa cosa del pensiero pensante e del pensiero pensato di Gentile, è sempre la stessa questione che si ripete sempre allo stesso modo, che è poi quella di Parmenide: l’uno e i molti. C’è l’uno e ci sono i molti, e come si connettono? Come si passa dall’uno ai molti? Che cos’è che consente il passaggio da 1 a 2? Niente, Zenone docet. Aristotele risolve il problema con la nozione di έντελέχειᾳ, Hegel con l’Aufhebung, de Saussure non la risolve, lasciandola lì per i posteri. Ecco, dunque, questo sarebbe il mio progetto, se altri mi dessero una mano sarebbe cosa molto gradita, perché si tratta di andarsi a rileggere Plotino, Porfirio, Proclo, Giamblico, ecc. È un’impresa che, direbbe Dante, fa tremar le vene ai polsi, cioè, è un’impresa quasi della vita e la mia non è più così tanta, per cui devo sfruttarla fin che posso. Voi che siete più giovani, senza far alcuna allusione, siete quelli che raccolgono il testimone di questo progetto, che pare titanico, però, con gli elementi e gli strumenti di cui disponiamo possiamo portarlo avanti brillantemente ed efficacemente. Questo progetto è quello che appassiona in questo momento, perché la posta in gioco è grande: accorgersi che ogni cosa che gli umani hanno costruito, pensato, ecc., sono soltanto racconti, quindi, miti, nell’accezione letterale del termine, cioè, racconti. Nella vulgata, poi, il mito è diventato il racconto fantastico da opporre, invece, al racconto scientifico. Il procedimento scientifico dovrebbe essere preciso, che non inganna, che dice come stanno le cose.

Intervento: Che poi, tra l’altro, è una fantasia platonica, quella dell’όρθότης.

L’όρθότης è l’aedequatio rei et intellectus, la cosa si adegua alla parola. Si arriva con questa idea fino a molto recentemente, con il logico Tarski: quando l’enunciato ‘la neve è bianca’ è vero? Quando la neve è bianca. Non fa una grinza, anche se non significa assolutamente niente. Certo, lui mette le virgolette semplici nel primo enunciato, non per indicare il significato ma il nome dell’enunciato, e questo enunciato è vero quando corrisponde alla realtà delle cose. Ecco perché mi è venuto il sospetto, il dubbio che questa intromissione della parola “le realtà” non sia del tutto innocente. Magari sì, però, il fatto che sia venuto questo termine nella traduzione, è questo a non essere innocente, anche se non se ne sono resi conto. Colli forse sì e, infatti, non lo mette. Però, anche questo è il frutto di una sorta di addestramento a pensare che è neoplatonica: c’è una realtà e qualcosa che la garantisce, perché se non c’è qualcosa che la garantisce siamo rovinati. Dio non può giocare ai dadi, deve attenersi anche lui alle regole o, come diceva qualcuno, anche Dio deve sottostare alle leggi della logica, non può affermare una cosa e il suo contrario nello stesso momento e allo stesso riguardo.

Intervento: Meno male che ci siamo domandati i motivi per cui nel basso Medioevo c’è stato questo recupero della logica aristotelica…

Anche quello ha dato il suo contributo, certo. Si è usata la logica esattamente così come Zenone usò la dialettica contro i detrattori di Parmenide: la logica è uno strumento.

Intervento: Addestramento, disciplina, tutto deve essere calcolabile…

Impostare un modo di pensare, in modo che diventi un automatismo.

Intervento: La questione dell’ordine…

È assolutamente importante. Infatti, Agostino ha scritto un libro sull’ordine e la musica. La musica ha sempre costituito… Non era tanto Platone, lui con le arti andava poco d’accordo. La sua idea era che le cose che abbiamo sotto mano sono una copia delle idee e, quindi, l’arte che copia una copia non ha alcun interesse e, infatti, ce l’aveva a morte con l’arte. Ma, al di là di questo, rimane che questo modo di pensare che esista la realtà e che questa abbia una garanzia… Quando si parla di realtà si suppone che sia garantita da qualche cosa. Da che? È lì che cominciano i problemi. Da Dio, ovviamente. Come diceva anche Guglielmo di Ockham: noi vediamo le cose e sappiamo che sono quelle che sono perché Dio non mente, è buono, onesto e giusto, non ci racconta storie: lui non racconta, dice come stanno le cose.

Intervento: È la stessa direzione ha preso la psicologia moderna, che ormai è diventata pervasiva in ogni ambito lavorativo per fornire, di fatto, strategie retoriche, ma anche per classificare le persone, creare nuovi tipi di patologie… È una questione di ordinamento, di misurabilità.

In effetti, quella che oggi si chiama psicologia aziendale sembra ricalcare quello che dice Foucault, naturalmente prendendo la cosa non nel modo in cui la prendeva Foucault, cioè, come qualcosa da mettere in dubbio, in discussione, da criticare, ma come un dogma, come una dottrina.

La mia idea è che tutto sorga dal neoplatonismo, soprattutto di Plotino.

Intervento: Quindi, il cristianesimo…

Esattamente. E continua ancora oggi a essere presente nel modo in cui si pensa, non nelle cose in cui si crede, ché quelle cambiano a seconda delle mode e di altre variabili. L’importante è che si creda nella realtà, nella natura, in definitiva, in Dio, cioè in un qualche cosa che non può essere compreso dagli umani, che non può essere trasformato in un utilizzabile, che non può essere colto in quanto tale, ma che c’è. Questa idea che comunque c’è questa cosa è quella su cui si fonda il concetto di realtà: la realtà è fondata su qualcosa. Questa idea è supportata dalla convinzione che ci sia l’essere – Plotino lo chiamava l’Uno – e che da quello proceda tutto: l’ipostasi, l’intelletto e l’anima e poi, a seguire, tutte le varie cose; questa idea è supportata dal fatto che ci sia l’Uno e che tutto procede in modo piramidale. C’è un qualche cosa che è quello che è e che domina tutto. C’è la fantasia che qualcosa controlli tutto, come la natura, per esempio: se l’uomo è cattivo allora la natura lo punisce. Fino a poco tempo fa lo si diceva di Dio: se uno aveva commesso dei peccati allora Dio lo mandava all’inferno. Come dicevo prima, le cose che oggi vengono credute con assoluta naturalezza sarebbe stato impensabile farle credere a persone come Anassagora, Eraclito, Democrito. E, invece, Plotino ha reso possibile tutto questo che viviamo oggi; si tratta di vedere nei vari punti, nei vari passaggi, come lo ha fatto. Il progetto, di cui vi ho parlato, è straordinario, anche perché prende in mezzo anche il Medioevo, perché da Plotino nasce in buona parte il cristianesimo. Anche da Paolo di Tarso, occorrerebbe andarsi a rileggere le sue lettere. Qualcuno, non ricordo chi, diceva che Paolo era stato l’inventore del cristianesimo, perché, in effetti, è lui che l’ha inventato, sennò sarebbero rimasti quattro pastori e finita lì. Il metodo da seguire è quello di partire dal minor numero di cose possibili. Anziché partire dalla lettura di moltissimi libri, partire da due o tre al massimo; poi, da lì, leggendo quelli, ecco che si apre uno spiraglio verso un’altra cosa, aggiungendo altre cose. Utilizziamo il rasoio di Ockham: scegliere sempre la via più breve, più semplice, meno complicata, che non è che sia la più certa, per nulla, ma è quella che consente maggior risultato con il minimo sforzo. Se mi metto di fronte a cento libri da leggere, mi perdo, non vado più da nessuna parte; se ne metto uno o due, ecco che posso pensare di lavorare.

Interventi vari.

Si potrebbe leggere anche Giamblico, che è uno dei neoplatonici, meno noto, perché aveva questa idea dei numeri, del mistero, cose che vengono dal Codice ermetico, cioè, da Ermete Trismegisto, che vuol dire tre volte grande. È una figura mitologica, pare che non sia mai esistito, però è quello che ha dato l’impronta a tutto il pensiero magico. Giamblico recupera queste cose, che erano antiche ma ancora presenti, le recupera rispetto al numero, alla magia del numero, che ancora oggi è presente: i numeri non mentono, diceva Kronecker nella disputa contro Cantor, perché Dio ce li ha dati.