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23 agosto 2017

 

M. Heidegger, Essere e Tempo 

 

Siamo sempre con Heidegger, che ci sta parlando della morte. Morte non intesa in senso fantasmatico, perché della morte ciascuno non può che avere una sua fantasia, non potendola esperire direttamente e dopo dirne. Quindi, non la morte in senso fantasmatico ma in senso ontologico, cioè, come dice lui, possibilità pura, che è quella possibilità che consente all’Esserci di compiersi. La morte è l’ultima possibilità, quella a cui, essendo la più propria dell’Esserci, non ci si può sottrarre in nessun modo, a tutte le altre è possibile sottarsi ma a quella pare di no. Si trova, quindi, di fronte a questa situazione bizzarra per cui, per realizzarsi, l’Esserci deve scomparire, perché questa realizzazione della morte porta alla cessazione dell’Esserci. È una questione che non si è inventata Heidegger ovviamente, c’era già Epicuro: se c’è la morte non ci sono io, se ci sono non c’è la morte, e con questo pensava di avere risolta la questione. Siamo a pag. 301. Questa possibilità più propria, incondizionata e insuperabile, l’Esserci non se la crea però accessoriamente e occasionalmente nel corso del suo essere. Se l’Esserci esiste, è anche già gettato in questa possibilità. Innanzi tutto e per lo più l’Esserci non ha alcuna “conoscenza” esplicita o addirittura teorica di essere consegnato alla morte e che perciò essa fa parte del suo essere-nel-mondo. Sta dicendo che non c’è una conoscenza esplicita della morte tale per cui è possibile, almeno facilmente, tenerne conto. Adesso ci dirà perché. L’esser-gettato nella morte gli si rivela nel modo più originario e penetrante nella situazione emotiva dell’angoscia. L’angoscia davanti alla morte è angoscia “davanti” al poter-essere più proprio, incondizionato e insuperabile. Questa angoscia è l’angoscia davanti a qualche cosa di incondizionato e insuperabile. Dicevamo la volta scorsa che questa angoscia, ammesso che si tratti di angoscia, ha a che fare con l’essere gettato innanzi e, quindi, nel perdere tutto ciò che mi ha fatto gettare in avanti in quel momento. Una volta che sono gettato in avanti, le condizioni che mi hanno gettato in avanti non sono più lì, c’è soltanto l’essere gettato in avanti. L’angoscia non deve essere confusa con la paura del decesso. Essa non è affatto una tonalità emotiva di “depressione”, contingente, casuale, del singolo; in quanto situazione emotiva fondamentale dell’Esserci, costituisce l’apertura dell’Esserci al suo esistere come essere-gettato per la propria fine. Questa angoscia relativa alla morte, dice, non è la paura del morire, così come comunemente si intende, ma costituisce l’apertura dell’Esserci verso l’essere gettato non verso la propria fine ma “per” la propria fine, come dire, l’accoglimento del fatto che questa gettatezza ha come fine la morte, come fine nel senso non della cessazione ma del suo compimento. Si fa così chiaro il concetto esistenziale del morire come esser-gettato nel poter-essere più proprio, incondizionato e insuperabile, e si fa più netta la differenza rispetto al semplice scomparire, al puro cessare di vivere e infine all’”esperienza vissuta” del decesso. La questione della morte in Heidegger non è semplice, nel senso che si trova lui stesso di fronte a delle situazioni difficili da elaborare, in quanto ha a che fare con un qualche cosa, la morte, della quale non c’è nessuna esperienza diretta. E, se vogliamo, neanche indiretta, perché, certo, si vede a un certo punto che una persona muore, però, di ciò che dopo ne è di lui non posso sapere nulla, e quindi non ho neanche un’esperienza indiretta. Si trova, dicevo, in una posizione abbastanza singolare dove si tratta di parlare e di porre addirittura in termini ontologici un qualche cosa di cui non c’è assolutamente alcuna informazione e che non è neanche pensabile. Una situazione che è simile, anzi, probabilmente è la stessa, a quella in cui ci si trova nel momento in cui si volesse pensare a sé senza linguaggio. Come faccio a pensarmi, che vivo, che esisto, senza linguaggio? Non lo posso fare. Lo posso fare costruendo delle fantasie, delle storie, ecc., cosa che posso fare solo perché c’è il linguaggio, ovviamente. Cerco di costruire un qualche cosa che, di fatto, non può essere costruita, perché se viene costruita allora questa cosa non c’è e se invece c’è non può essere costruito niente. Heidegger sembra oscillare tra la morte, intesa come fine della vita, come cessazione dell’Esserci, e la morte, intesa in un’altra accezione, come la situazione in cui qualche cosa si sottrae, scompare, viene meno al mio controllo. Appunto, quando dico qualche cosa, una volta detta, questa cosa è come se morisse facendo vivere altre cose: il significante che scompare e fa vivere altri significanti. Qui c’è un brano che sembra andare in questa direzione. A pag. 302. L’Esserci muore effettivamente fintanto che esiste, ma, innanzi tutto e per lo più, nella maniera della deiezione. Infatti l’esistere effettivo non solo è, in generale e indifferentemente, un gettato poter-essere-nel-mondo, ma è anche già sempre immedesimato con il “mondo” di cui si prende cura. Qui morire come deiezione non è altro che il fatto che io esisto in quanto nel mondo e, quindi, sono sempre gettato… Anche se qui non ne parla direttamente ma c’è come un richiamo a Marx, al suo concetto di alienazione, e cioè, vivendo, essendo ogni volta gettato in avanti c’è una alienazione,  divento altro, e quindi è come se “morissi” ogni volta in cui mi trovo gettato innanzi. Heidegger ascrive questo alla Cura, cioè, prendendosi cura delle cose io scompaio, mi sottraggo. Esistenza, effettività e deiezione caratterizzano l’essere-per-la-fine e sono perciò costitutivi del concetto esistenziale di morte. Come vedete, è un concetto diverso di morte, non ha a che fare con la cessazione del battito cardiaco, parla della morte come esistenza, effettività e deiezione, che sono l’essere per la fine. Il morire, quanto alla sua stessa possibilità ontologica, si fonda nella Cura. È il prendersi cura che è causa di morte, non della morte fisica ma di quella morte che prima accostavo alla nozione marxiana di alienazione, cioè di qualche cosa che mi fa sparire nel momento in cui sono gettato innanzi. Ma se l’essere-per-la-morte fa parte originariamente ed essenzialmente dell’essere dell’Esserci, esso deve, anche se innanzi tutto in modo inautentico, essere rintracciabile nella quotidianità. Lui ha cercato un modo autentico dell’essere dell’Esserci in quanto essere per la fine, però, dice, di fatto anche nella quotidianità non possiamo non trovarlo. E se, inoltre, l’essere-per-la-fine dovesse fornire la possibilità esistenziale di un essere un tutto esistentivo da parte dell’Esserci, ciò sarebbe la conferma della tesi: la Cura è la designazione ontologica della totalità delle strutture dell’Esserci. Heidegger sta ancora cercando la totalità, se ben ricordate, siamo partiti da lì per fare tutto il discorso sulla morte: la morte come possibilità più propria, come quella del compimento, quella che dovrebbe rendere l’Esserci un tutto, solo che nell’istante in cui lo rende un tutto l’Esserci scompare. Passiamo a pag. 303, al paragrafo 51, che si chiama L’essere-per-la-morte e la quotidianità dell’Esserci. Ma il se-Stesso della quotidianità è il Si, quale si costituisce negli stati interpretativi pubblici. Esso si esprime nella chiacchiera. È quindi la chiacchiera che rivela in quale modo l’essere quotidiano interpreta il suo essere-per-la-morte. Si sta chiedendo: come interviene l’essere per la morte nel quotidiano, nella chiacchiera? Nasce così il problema: in quale modo la comprensione emotiva propria della chiacchiera del Si mantiene aperto l’essere-per-la-morte? In quale modo il Si, comprendendo, si rapporta alla possibilità dell’Esserci più propria, incondizionata e insuperabile? Quale situazione emotiva dischiude al Si l’abbandono alla morte, e in che modo? Il mondo pubblico e dell’essere-assieme quotidiano “conosce” la morte come un evento che accade continuamente, come “caso di morte”. Sta per illustrarci il modo in cui il mondo della chiacchiera si approccia alla questione della morte. Come? Nella chiacchiera la morte è conosciuta da tutti, ma è conosciuta come una eventualità, come dire: sì, c’è la morte, ma finché sono qui, andiamo bene. È questo il modo in cui la chiacchiera affronta la questione della morte, cioè, come una eventualità ma una eventualità sempre remota. Heidegger distingue la morte come possibilità pura dell’Esserci, che è il modo autentico di affrontare la questione, dalla morte pensata come una eventualità remota, che di fatto non mi riguarda mai e, non riguardandomi mai, non c’è mai il confronto con la possibilità della morte imminente, che può accadere in qualunque istante. A pag. 304. Il “morire” è in tal modo livellato a un evento che certamente riguarda l’Esserci, ma non concerne nessuno in proprio. Mai come in questo discorso intorno alla morte si fa chiaro che alla chiacchiera si accompagna sempre l’equivoco. Il morire, che è mio in modo assolutamente insostituibile, è confuso con un fatto di comune accadimento che capita al Si. Capita, capiterà anche a me, certo, ma intanto… Questo tipico discorso parla della morte come di un “caso” che ha luogo continuamente. Esso fa passare la morte come qualcosa che è sempre già “reale”, coprendone il carattere di possibilità e quindi i momenti costitutivi dell’incondizionatezza e dell’insuperabilità. Anche in questo caso, come nella deiezione, tutto ciò che interviene come possibilità per l’Esserci è dato come reale, come già accaduto. Ma anche in questo caso è come se fosse già accaduto, come se la morte fosse già accaduta, nel senso che è già conosciuta, già saputa, per cui non è più una possibilità autentica ma è qualcosa di reale che viene delimitato, determinato e, quindi, dominato. È questa la differenza sostanziale tra la morte nella chiacchiera, dove la morte tende a essere dominata, controllata, in un modo o nell’altro, e la morte come possibilità autentica dove non c’è questa necessità di controllo ma c’è l’approcciarsi alla morte come possibilità più propria. Questo eludere la morte coprendola domina così ostinatamente la quotidianità che, nell’essere-assieme, “i parenti più prossimi” vanno sovente raccontando al “morente” che egli sfuggirà certamente alla morte e potrà fare ritorno alla tranquilla quotidianità del mondo di cui si prendeva cura. … Con questa tranquillizzazione che sottrae all’Esserci la sua morte, il Si assume al tempo stesso il diritto e la pretesa di regolamentare tacitamente il modo in cui ci si deve, in generale, comportare davanti alla morte. A pag. 305. Questa delucidazione dell’essere-per-la-morte quotidiano è implicitamente un invito a tentare di assicurare il concetto esistenziale integrale dell’essere-per-la-fine mediante un’interpretazione più approfondita dell’essere-deiettivo-per-la-morte quale elusione di fronte ad essa. La chiacchiera, la deiezione, fa questo: cerca di eludere la morte, non vuole prendere atto della morte come possibilità assoluta. Più avanti, tratta di una questione, anche se indirettamente, la questione della certezza. La morte è certa e, quindi, riflette su questo tipo di certezza che riguarda la morte. Siamo a pag. 306, paragrafo 52, L’essere-per-la-fine quotidiano e il concetto esistenziale integrale della morte. Nessuno dubita che si muoia. Ma questo “nessuno dubita” non porta necessariamente già con sé l’esser-certo quale si addice alla morte nel senso di possibilità eminente dell’Esserci. La quotidianità si ferma a questo riconoscimento equivoco della “certezza” della morte, per dissimulare, coprendolo ancora di più, il morire, e rendendosi così più leggero l’essere-gettato nella morte. Cosa vuole dire che ciascuno è certo della morte? Ciascuno è certo ma è un tipo di certezza strano perché, in realtà, questa certezza della morte non c’è, nessuno è certo della sua morte. L’elusione coprente davanti alla morte non può, secondo il suo senso, essere autenticamente “certa” della morte, ma ne è tuttavia certa. Come faccio a essere certo che morirò? E se sono immortale? Quindi, è una certezza particolare questa, di cui adesso ci dirà. Che ne è dunque della “certezza della morte”? Esser certi di un ente significa: tenerlo per vero in quanto vero. Verità significa l’esser-scoperto dell’ente; ma ogni esser-scoperto getta le sue radici ontologiche nella verità assolutamente originaria, nell’apertura dell’Esserci. L’Esserci, in quanto ente aperto-aprente e scoprente, è essenzialmente nella “verità”. (pagg. 306-307) La verità per Heidegger consiste nel fatto che l’ente si manifesta, si scopre, esce dal nascondimento. Ma la certezza si fonda nella verità, le appartiene in modo cooriginario. Qui potremmo fare una piccolissima considerazione. Dice che la certezza si fonda nella verità, ma questo è ciò che comunemente si intende con certezza. Vedete come lui, come tutti gli altri filosofi d’altra parte, pone la certezza come se fosse un qualche cosa, un qualche cosa di cui sappiamo bene che cos’è, per cui, sapendo bene che cos’è, possiamo dire che si fonda nella verità. Ma che cosa propriamente si fonda nella verità? In effetti, qui ci sarebbe molto da dire, non tanto per quanto riguarda Heidegger. Certo, anche lui, che è pure un grande pensatore, cade in queste difficoltà che indicano che qualcosa non è pensato. Se dico che la certezza si fonda nella verità, ammesso di avere definito la verità in qualche modo, do a intendere di sapere che cos’è la certezza, intanto che posso affermare con assoluta sicurezza che la certezza si fonda nella verità, appunto come se la certezza fosse un quid, un qualche cosa che è quello che è per virtù propria. Ora, questo accade incessantemente mentre si parla, anche in questo istante. Ciò che fa la differenza è il sapere che sta accadendo, cioè, per esempio, io sto dicendo che la certezza si fonda nella verità, ma con questo termine certezza io indico un qualche cosa al quale do un significato che sono io ad attribuirgli, non esiste la certezza da qualche parte come ente a se stante, è un elemento linguistico. Quindi, sapendo quello che faccio, so che dicendo che la certezza si fonda nella verità ho costruito un gioco linguistico a partire da certe regole che ho stabilite. Non ho fatto nient’altro che questo, non ho affermato una verità sub specie æternitate, ho detto in che modo sto utilizzando questo termine in questo modo. L’espressione “certezza”, come del resto il termine “verità”, ha un doppio significato. Originariamente la verità denota l’esser-aprente come comportamento dell’Esserci. Il secondo significato, derivato dal primo, denota invece l’esser-scoperto dell’ente. Heidegger indica due accezioni: da una parte, l’essere aprente dell’Esserci, l’Esserci in quanto essere aprente, l’Esserci gettato apre; dall’altra, l’essere scoperto dell’ente. Quindi, da una parte l’Esserci che scopre e dall’altra l’ente che viene scoperto, nel senso del non nascondimento, dall’Esserci. Corrispondentemente, la certezza significa, nel senso originario, l’esser certo come modo di essere dell’Esserci; in un secondo senso derivato può esser detto “certo” anche l’ente di cui l’Esserci è certo. Ora fa una interpretazione della certezza che è interessante, nonostante rimangano le obiezioni che facevo prima. Un modo della certezza è la persuasione. Dicendo questo fa una cosa interessante, sulla quale non si sofferma, ma pone l’accento sulla volontà di potenza. L’essere persuasi di qualcosa è credere che qualcosa sia vero. E perché dovrei credere che una certa cosa sia vera se non per poterla utilizzare, porla come utilizzabile, ma per che cosa? Per continuare a parlare? Sì, certo, ma per potere continuare a parlare ci vuole un motivo e il motivo è la volontà di potenza, cioè, la necessità di persuadere altri che le cose che dico sono vere, cioè sono una certezza. In essa l’Esserci fa sì che il suo rapporto di comprensione con la cosa dipenda esclusivamente dalla testimonianza della cosa stessa scoperta (vera). Sarebbe la verità come adeguamento della parola alla cosa. È la cosa stessa che si mostra per quella che è e le mie parole non fanno altro che descriverla. Il tener-per-vero equivale al tenersi-nella-verità solo se si fonda nello stesso ente scoperto e solo se, in quanto essere-per l’ente così scoperto, si è reso trasparente nella propria adeguatezza a tale ente. Questo è il tener per vero, cioè, le cose che dico sono adeguate all’ente. Questo è ciò che manca alle invenzioni arbitrarie o ai semplici “punti di vista” nei confronti di un ente. La fondatezza del tener-per-vero si misura dalla pretesa di verità che esso reclama. Questa trae la sua legittimità dal modo di essere dell’ente da aprire e dalla direzione dell’aprire. … L’Esserci quotidiano, per lo più, copre la possibilità più propria, incondizionata e insuperabile del suo essere. Questa tendenza effettiva al coprimento conferma la tesi: l’Esserci, in quanto effettivo, è nella “non verità”. Se la verità è la disvelatezza il coprimento ovviamente è la non verità. A proposito del coprimento, ricordate quello che diceva riguardo alla deiezione, alla chiacchiera. La chiacchiera copre, è coprente rispetto alla morte, rispetto a questa possibilità assoluta, e quindi non è nel vero. Conseguentemente, la certezza inerente a questo coprimento dell’essere-per-la-morte dev’essere un tener-per-vero inadeguato e non un’incertezza nel senso del dubbio. (pagg. 307-308) Nessuno dubita che ci sia la morte. la certezza inadeguata mantiene ciò di cui essa è certa in uno stato di coprimento. Se “si” comprende la morte come un evento che si incontra nel mondo circostante, allora la certezza corrispondente non riguarda l’essere-per-la-fine. Siamo sempre nella chiacchiera, nella deiezione. Si dice: è certo che “la” morte verrà. Lo si dice senz’altro, ma il Si non vede che, per essere certi della morte, ciascun Esserci stesso, in proprio, deve essere certo del suo poter-essere più proprio e incondizionato. La chiacchiera è certa della morte ma, dice Heidegger, questa certezza, in effetti, non è così certa, è inadeguata. L’unica certezza, di cui si può parlare in termini autentici, è la certezza che la morte è la mia possibilità più propria, non un’eventualità ma la mia possibilità più propria, quella che mi compie. Ma in che consiste il fondamento dell’esser-certo quotidiano? Evidentemente non in una semplice persuasione reciproca. Si assiste infatti ogni giorno al “morire” di altri. La morte è un innegabile “fatto di esperienza”. … La morte è, per ogni uomo, verosimile in sommo grado, ma non “incondizionatamente” certa. Rigorosamente parlando, alla morte può essere attribuita “solo” una certezza empirica. Una certezza, quindi, necessariamente inferiore rispetto alla certezza suprema, quella apodittica, quale si raggiunge in taluni campi della conoscenza teoretica. … Che il decesso, in quanto accadimento, sia certo “solo” empiricamente, non è decisivo nei riguardi della certezza della morte. Come abbiamo detto, è sempre successo: è la certezza induttiva. Si è sempre verificato ma si verificherà anche domani? Non lo sappiamo, è possibile ma è anche possibile che non accada. A pag. 309. Si dice: “La morte verrà certamente, ma, per ora, non ancora”. Questo è il modello del pensare deiettivo, della chiacchiera intorno alla morte. Con questo “ma…” il Si contesta alla morte la sua certezza. Il “per ora non ancora” non è un semplice giudizio negativo, ma un’”autointerpretazione” del Si con cui esso si rimanda a ciò che, innanzi tutto, sussiste ancora di accessibile e di oggetto di cura per l’Esserci. Come dire che in questo modo l’Esserci continua a occuparsi di se stesso tranquillamente senza tenere conto di ciò che gli appartiene in modo più proprio. La quotidianità è indaffarata nel prendersi cura e rifugge dall’intoppo dallo stanco e “inattivo pensare alla morte”. questo pensiero è costantemente rimandato a un “più tardi”, facendo appello alla cosiddetta “opinione generale”. Più in là è, e meglio è, così si dice generalmente. La certezza della morte si accompagna alla indeterminatezza del suo “quando”. Nella chiacchiera la morte è paradossalmente certa ma indeterminata. È certa perché si dice che è così ma è indeterminata perché nessuno sa quando. Il concetto ontologico esistenziale integrale della morte può ora essere definito così: la morte, come fine dell’Esserci, è la possibilità dell’Esserci più propria, incondizionata, certa e come tale indeterminata e insuperabile. La morte, come fine dell’Esserci, è nell’essere di questo ente per la sua fine. (pagg. 309-310) Dire che la morte è, riguardo all’ente, per la fine è come dire che questa possibilità più propria è sempre per la fine dell’ente. Come dicevamo la volta scorsa, c’è sempre un qualche cosa che interviene come fine, come compimento, ma, ma rispetto a un elemento linguistico, un significante, la sua fine è letteralmente un compimento. Vale a dire, si compie in quanto conclude ciò per cui esiste e, sottraendosi dà l’opportunità ad altri significanti di apparire. Un significante di per sé, se non avesse questa prerogativa di svanire e di lasciare posto ad altri significanti, bloccherebbe la catena. Un significante deve scomparire per lasciare posto ad altri significanti. Questo è un modo per intendere la questione della morte come la possibilità più propria del significante, anzi, è ciò che lo fa esistere in quanto significante, in quanto un qualche cosa che veicola del significato scomparendo. Come potrebbe essere inteso tutto questo rispetto all’Esserci? In effetti, qualcuno morendo compie, sì, il suo ciclo vitale ma non è certo di una questione biologica che si tratta. È come se, concludendo questa ultima possibilità, questo non lo dice Heidegger, lo dico io, questa ultima possibilità desse un senso a tutte le possibilità che sono intervenute. L’Esserci, in quanto gettato essere-nel-mondo, è già da sempre consegnato alla propria morte. esistendo per la propria morte, esso muore effettivamente e costantemente fino a quando non sia pervenuto al proprio decesso. Che l’Esserci muoia effettivamente, significa al tempo stesso che esso si è già sempre deciso, in un modo o nell’altro, quanto al suo essere-per-la-morte. L’elusione quotidiana e deiettiva davanti alla morte è un essere-per-la-morte inautentico. Qui cerca di dire che cos’è questo essere per la morte autentico. A pag. 311. È possibile per l’Esserci comprendere autenticamente la possibilità più propria, incondizionata, insuperabile, certa e come tale indeterminata? È possibile, cioè, che esso si mantenga in un essere-per-la-fine autentico? Il problema qui è che Heidegger non ci dice esattamente che cosa intende con questo. Dice Finché questo essere-per-la-morte autentico non sarà stato evidenziato e determinato ontologicamente… L’essere per la morte come la possibilità più pura, più autentica, perché è l’unica che appartiene in modo assolutamente proprio alla persona, all’Esserci. In molti hanno considerato che tutta questa teorizzazione di Heidegger intorno alla morte soddisfa fino a un certo punto, non è sempre così semplice, lineare, spesso è un po' arzigogolata, farraginosa. A pag. 311, paragrafo 53, Progetto esistenziale di un essere-per-la-morte autentico. Abbiamo fissato il concetto esistenziale della morte e, con esso, ciò a cui deve rapportarsi un essere-per-la-fine autentico. È stato inoltre caratterizzato l’essere-per-la-morte inautentico ed è stato stabilito negativamente ciò che un essere-per-la-morte autentico non può essere. (pagg. 311-312) Che cosa non può essere? Non può essere che la morte appartenga al Si, per cui “si muore”. In base a queste indicazioni positive e negative dev’essere possibile progettare la struttura esistenziale di un essere-per-la-morte autentico. Heidegger vuole addirittura fare un progetto che finalmente che cos’è il progetto per la morte autentico. L’Esserci è costituito dall’apertura, cioè da una comprensione emotivamente situata. L’Esserci si apre nel mondo e questo aprirsi ha sempre una comprensione emotivamente situata, cioè, non è indifferente a ciò che accade, c’è sempre un’emozione che accompagna questa cosa. Un essere-per-la-morte autentico non può eludere la possibilità più propria e incondizionata, né può coprirla fuggendo e reinterpretarla per la comprensibilità del Si. Il progetto esistenziale di un essere-per-la-morte autentico deve quindi chiarire i momenti di un simile essere che lo costituiscono come comprensione della morte nel senso di un essere che non fugge e non copre la sua possibilità più propria. Sta dicendo che la morte è la possibilità più propria senza cercare di eluderla nelle varie modalità che abbiamo visto prima. Prima di tutto bisogna caratterizzare l’essere-per-la-morte in quanto essere-per una possibilità, e precisamente per una possibilità eminente dell’Esserci stesso. La prima caratterizzazione della morte è come possibilità dell’Esserci. Essere-per una possibilità, cioè per un possibile, può significare: mirare a un possibile nel senso di prendersi cura della sua realizzazione. Voler fare una cosa è prendersi cura del fatto che questa cosa riesca. Nel capo dell’utilizzabile e della semplice-presenza si incontrano continuamente possibilità di questo genere: il raggiungibile, il controllabile, il fattibile e così via. Il mirare a un possibile prendendosene cura tende all’annullamento della possibilità del possibile rendendolo disponibile. Qui dice una cosa che anticipa qualche cosa di importante, che forse va al di là di ciò che voleva intendere Heidegger. Vi rileggo la frase: Il mirare a un possibile prendendosene cura tende all’annullamento della possibilità del possibile rendendolo disponibile. Una volta che è messo in atto non è più possibile, è realizzato. Quindi, il prendersi cura di qualche cosa comporta che la possibilità sia messa in atto, in quanto possibile, e quindi cessa, muore, in quanto possibilità. Ma la realizzazione che procura un utilizzabile (il fabbricare, il preparare, il sostituire, ecc.) è sempre soltanto relativa, perché anche il “realizzato” conserva ancora il carattere ontologico dell’appagatività. La realizzazione di una possibilità, dice, è sempre soltanto relativa perché comunque anche il “realizzato” conserva ancora il carattere ontologico dell’appagatività, cioè, è stato, sì, realizzato ma è stato realizzato a partire da quella possibilità. Quindi, è come se mantenesse ancora qualcosa che riguarda la possibilità, che è sì realizzata ma da quella possibilità, non da un’altra. Benché realizzato, esso rimane sempre, in quanto reale, un possibile-per…, qualcosa di caratterizzato dal “per”. È sempre “per”, io realizzo “per”. La presente analisi deve soltanto chiarire come il mirare che si prende cura si rapporti possibile: non in una considerazione tematico-teoretica del possibile in quanto possibile o in vista della sua possibilità come tale, ma, guidato dalla visione ambientale preveggente, distogliendo o sguardo dal possibile e mirando al per-che-cosa-possibile. Ci sta dicendo che questa possibilità è comunque e sempre un qualche cosa “per”. Questo “per” non si toglie, questo “per” è costitutivo del progetto, è costitutivo dell’essere continuamente gettati, gettati “per” qualche cosa. L’essere-per-la-morte di cui stiamo discutendo non può evidentemente avere il carattere del prendersi cura che mira alla sua realizzazione. In primo luogo, in quanto possibile, non è un possibile utilizzabile o una semplice-presenza, ma una possibilità dell’essere dell’Esserci. Non è un utilizzabile. Una volta morto non posso utilizzare la mia morte per farci qualcosa, in genere non avviene così. Inoltre il prendersi cura della realizzazione d’un possibile siffatto equivarrebbe al suicidio. Ma con ciò l’Esserci sottrarrebbe a se stesso proprio la possibilità di assumere, esistendo, l’essere-per-la-morte. Ci troviamo di fronte a un paradosso: io mi realizzo suicidandomi, però, in questo modo mi sottraggo a questa possibilità di possibilità. Quindi, l’essere per la morte non è la realizzazione della morte. A pag. 313. La morte, in quanto possibile, deve allora palesarsi il meno possibile nella sua possibilità. Al contrario, nell’essere-per-la-morte, se esso, comprendendo, deve dischiudere questa possibilità come tale, la possibilità deve esser compresa senza indebolimenti come possibilità, deve esser sviluppata come possibilità e in ogni comportamento verso di essa deve essere sopportata come possibilità. Qui, il termine possibilità interviene sempre, la morte come semplice possibilità. È questo l’unico modo, per Heidegger, di porre la questione in termini ontologici e non fantasmatici. In qualunque modo io voglia pensare la morte comunque la penso sempre attraverso delle fantasie, attraverso il mondo di cui sono fatto. Heidegger vuole, invece, porre qualcosa di più originario: l’essere per la morte come un qualche cosa che è impossibile stabilire per potere fare dell’Esserci un tutto. A pag. 314. L’essere-per-la-morte è l’anticipazione di un poter-essere di quell’ente il cui modo di essere ha l’anticiparsi stesso. Qui ha concentrato tutto quanto. Dice: L’essere-per-la-morte è l’anticipazione di un poter-essere, come dire, se io sono per la morte anticipo un poter essere, che è una possibilità, ovviamente, ma, anticipandola, non faccio nient’altro che essere quell’ente, che è sempre gettato innanzi a sé, e io approccio l’essere per la morte come se mi gettassi innanzi a questa possibilità vivendola qui adesso. Ponendola qui e adesso, come possibilità imminente, in quanto è qualcosa che può accadere in ogni istante, anticipo questa possibilità. In questa gettatezza c’è anche l’essere avanti, l’essere innanzi, rispetto alla morte. Non che io la dia come già realizzata, che è ciò che fa la chiacchiera, ma è come se fosse all’interno della gettatezza, del progetto gettato, in cui io sono gettato innanzi continuamente, e anche la morte rientra in questa gettatezza, in questo essere già innanzi. Io sono già sempre gettato innanzi, quindi, sono già sempre per la morte, nel senso che la morte è già sempre lì, non è fuori dal progetto, non può esserlo. L’anticiparsi si rivela come la possibilità della comprensione del poter-essere più proprio ed estremo, cioè come la possibilità dell’esistenza autentica. La sua costituzione ontologica dev’essere resa visibile attraverso l’elaborazione della struttura concreta dell’anticipazione della morte. A pag. 315. La possibilità più propria e incondizionata è insuperabile. L’essere-per questa possibilità fa comprendere all’Esserci che su esso incombe, come estrema possibilità della sua esistenza, la rinuncia a se stesso. Che è esattamente ciò che si diceva prima rispetto al significante. Potremmo dire che l’estrema possibilità dell’esistenza di un significante è la rinuncia a sé per produrre altre catene, altre combinatorie.