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23 luglio 2018

 

Concetti fondamentali della metafisica di M. Heidegger

 

Quando scrisse questo testo Heidegger aveva in animo di trovare le condizioni che consentono di pensare la metafisica. La metafisica, potremmo dire, esiste da sempre; Platone e Aristotele, in particolare, l’hanno formalizzata. Heidegger ha deciso di prendere questi tre termini, mondo, finitezza e solitudine. Come avete notato, si è incentrato soprattutto sul mondo, il mondo come concetto fondamentale della metafisica, il mondo, cioè, la realtà in generale. La metafisica vuole dire come stanno le cose, che cos’è la realtà, cioè l’ente in quanto ente. Infatti, come definisce il mondo? Lo definisce come la manifestatività dell’ente in quanto ente: questo è per lui il mondo. E, allora, gli viene l’idea che per affrontare bene la questione occorre non tanto esperirla teoreticamente, con il solo pensiero teoretico, ma viverla, cioè, vivere questa “drammaticità” della realtà, questa contraddittorietà, questa impossibilità di definire la realtà, di possedere la realtà. Di fatto, tutto si riduce a questo: ad avere il controllo sulla realtà, a dominarla. E, allora, pensa: fra tutti gli stati d’animo possibili, qual è quello che a un certo punto mette di fronte alla difficoltà di controllare le cose, di avere il controllo pieno sulle cose, per cui penso di averlo ma invece non ce l’ho? La noia. L’abbiamo visto quando stava aspettando il treno; quando è andato alla cena da non si sa chi, cena bellissima, ecc., ma a un certo punto è arrivata la noia, cioè, quella sensazione di indifferenza verso tutto. La metafisica vuole controllare l’ente, vuole dire che cos’è l’ente, τί τ ν: questa è la domanda metafisica per eccellenza. Quindi, stabilito che è la noia quella sensazione, quello stato d’animo, quella tonalità affettiva che più di ogni altra mette in evidenza la difficoltà che l’uomo incontra nel tentativo di dominare l’ente, cioè, quel momento in cui l‘ente è come se gli si rivoltasse contro, manifestasse la sua imprendibilità, la sua non dominabilità, a quel punto Heidegger dice che questa noia mi mette di fronte al mondo, mondo che io non posso controllare, la totalità degli enti mi sfugge, e allora si chiede: come funziona questo mondo per l’uomo? La pietra è in un mondo? No, la pietra fa niente, se ne sta lì buona dov’è. L’animale, invece, si muove, fa cose, si muove continuamente, si agita, non sta mai fermo. Pertanto Heidegger riflette su questo: l’animale come si rapporta al mondo? Incomincia a considerare che l’animale ha sì un rapporto, in qualche modo, con gli enti, però, gli manca l’aspetto fondamentale, e cioè per l’animale gli enti non sono in quanto tali, nella loro totalità. L’animale vive in questo cerchio ambientale, in questo habitat, in cui lui è tutte queste cose che incontra, non ha la possibilità di cogliere l’ente in quanto ente, cosa consentita soltanto all’uomo. Cogliere l’ente in quanto ente è la condizione della metafisica; se non colgo l’ente, come posso dominarlo? L’animale non può inventarsi una metafisica, in nessun modo, perché per lui l’ente non è in quanto ente; quindi, Heidegger ci dice che per l’animale non può esistere la metafisica. Per l’umano, invece, non solo può esistere ma esiste da sempre, perché c’è la necessità di dominare l’ente: la metafisica è la modalità per cui gli umani sono in grado di pensare a che cosa è veramente l’ente, perché soltanto se so veramente che cos’è l’ente ne ho il controllo; se ho un’idea molto vaga, se mi sfugge da tutte le parti, cosa che peraltro accade sempre, non lo riesco a dominare. Invece, la metafisica dice: l’ente è questo. Che poi ci riesca oppure no, questo è un altro discorso. Ovviamente, ci riesce ad alcune condizioni; se non si accettano quelle determinate condizioni, non ci riesce. Stabilito che l’uomo è nel mondo, perché per lui esiste il mondo - l’animale non ha mondo, ha un cerchio ambientale, non ha mondo perché il mondo è fatto di enti in quanto enti - ebbene a questo punto Heidegger incomincia a riflettere intorno all’ente, visto che l’ente è ciò di cui il mondo è fatto. A questo punto la domanda è: sì, certo, l’ente è fondamentale per l’uomo perché solo per l’uomo l’ente è in quanto ente, ma questo ente come si manifesta? Questione fondamentale, anche per Kant era fondamentale. Che cosa rende manifesto l’ente? La prima cosa che incontra è il λόγος, la parola. È la parola che mette insieme delle cose e ci fa apparire, almeno apparentemente, un qualche cosa, però, se il λόγος consente di far apparire qualche cosa, questo qualcosa c’è, sennò che cosa fa apparire? Dal nulla? No, dice Heidegger, non è che lo fa apparire da nulla, il λόγος mette insieme delle cose, manifesta qualcosa che c’è propriamente, e cioè dice che il λόγος è άποφαντικός, il λόγος manifesta, però, esattamente in virtù di che cosa il λόγος riesce a fare questo? E qui è dove siamo arrivati. Andiamo a pag. 396. Ogni λόγος è σηματικός (significa)per cui Aristotele dice anche che il λόγος è φωνή σηματική (un suono che significa), un dar forma alla comprensibilità che diviene emissione fonetica, ma non ogni λόγος σηματικός è άποφαντικός (non ogni parola che significa mostra qualche cosa). Ora la questione è: quale λόγος è apofantico, e in virtù di che cosa è tale? Cosa contraddistingue il discorso assertorio nei confronti di tutti gli altri? Il discorso assertorio è un discorso che a noi interessa e che è interessato all’affermare delle cose, all’asserire. L’asserire comporta che qualche cosa debba essere così come affermo che è, per poterlo affermare. Aristotele dice: άποφαντικός è solo quel λόγος, έν τό άληθεΰειν ψεύδεσθαι ύπάρχει, nel quale è presente l’essere vero o falso. Questo è il discorso assertorio. Se il discorso è assertorio asserisce che l’essere è oppure non è, con delle varianti ma questo fa. Così suona la traduzione corrente – quella naturale, e se ci si discosta da essa, ciò è ritenuto un arbitrio. Ma dobbiamo discostarcene, perché la traduzione apparentemente letterale non fornisce proprio per niente ciò che i Greci hanno compreso in questa definizione, e che, primo fra tutti, ci può condurre al problema del λόγος. Aristotele dice έν ύπάρχει, un discorso è assertorio nella misura in cui in esso άληθεΰειν ψεύδεσθαι non semplicemente “è presente”, bensì perché è insito in esso come fondamento… Sta dicendo che il discorso assertorio, cioè un’affermazione, non è che afferma solamente che qualcosa è vero o falso, perché già nell’asserzione è insita la presenza del vero e del falso, cioè non posso asserire nulla se non c’è già alle spalle un vero o falso, l’asserzione muove già dalla presenza di vero e falso. Aristotele usa la forma media ψεύδεσθαι; rendersi inganno, essere in sé ingannevole. Mostrante è quel λόγος alla cui essenza appartiene tra l’altro il poter essere ingannevole. Ingannare significa: dare a intendere qualcosa, fingere che qualche cosa sia ciò che non è, oppure fingere che qualcosa che non è in un modo e nell’altro, sia così. Questo ingannare, questo essere-ingannevole che fa parte dell’essenza del λόγος, questo spacciare qualcosa per qualcosa che non è, questo dare a intendere è dunque, in riferimento a ciò sul quale si inganna, un velare. Manifestante è quel λόγος della cui possibilità fa parte il poter velare. Il λόγος è tale perché può velare. Può velare ma anche svelare, ovviamente. Dobbiamo dire: “della cui possibilità fa parte”, perché Aristotele sottolinea: άληθεΰειν ψεύδεσθαι, o l’uno o l’altro, ma lo afferma di uno dei due che ha in sé la possibilità di entrambi, velare – oppure non-velare, con maggiore esattezza lo strappare dalla velatezza, e quindi non velare, bensì disvelare – ά-ληθεΰειν. Il λόγος ha in sé necessariamente questi due aspetti, è velante e disvelante, però, di volta in volta, o l’uno o l’altro, non entrambi. Mostrante, apofantico, è dunque quel λόγος della cui essenza fa parte il disvelare oppure il velare. Da questa possibilità risulta definito cosa significhi apofantico: mostrante. Apofantico vuol dire che può disvelare o velare; quindi, può mostrare qualcosa in quanto velato o svelato, vero o falso, poi 1,0, ma ci vorranno un po’ di anni, occorrerà arrivare a Boole. Infatti anche il λόγος velante è mostrante. Se non lo fosse, per sua intima essenza, non potrebbe mai divenire ingannevole. Infatti, proprio se voglio dare a intendere qualcosa a un altro, devo già prima essere nell’atteggiamento di chi vuole mostrare qualcosa. L’altro deve a sua volta subito prendere il mio discorso come caratterizzato da tale tendenza al mostrare; soltanto così posso ingannarlo su qualcosa. Per ingannare qualcuno occorre che questi mi creda, sennò come faccio a ingannarlo? Con ciò è delineato il problema per l’interpretazione dell’essenza del λόγος. Dobbiamo chiederci: dove si fonda questa intima possibilità di velare e disvelare? Quando avremo risolto tale problema, potremo rispondere alla questione: che rapporto ha ciò che noi definiamo relazione dell’“in quanto” con la struttura interna del λόγος? L’“in quanto” sarebbe l’“è”, la copula. La struttura dell’“in quanto” è solo una proprietà del λόγος o, in ultima analisi, qualcosa di originario, la condizione di possibilità perché un λόγος possa, in generale, essere ciò che è? Poco più avanti, stessa pagina. Da un punto di vista formale abbiamo ricondotto la struttura dell’“in quanto” alla proposizione assertoria. Questa è una forma normale del discorso umano che, fin dalle prime meditazioni nella filosofia antica, ha determinato non soltanto la teoria del discorso, la logica, bensì insieme ad essa anche la grammatica. Se dunque orientiamo sul λόγος l’esposizione del problema della connessione tra struttura dell’“in quanto” e asserzione, non lo facciamo per un qualche interesse storiografico, bensì con l’intento di introdurci nel carattere basilare del problema. Il problema è stabilire qual è la relazione tra λόγος e l’“in quanto”, cioè tra il λόγος, la parola, e l’asserzione, che dice che una cosa è; l’“è” sta per l’“in quanto”, cioè, una cosa in quanto quell’altra. Osserviamo il problema della connessione di “in quanto” e λόγος orientandoci su quanto Aristotele dice sul λόγος. Con lui infatti il pensiero antico raggiunge il suo apice. Heidegger era un grande estimatore di Aristotele. Era Heidegger che diceva che prima di affrontare la questione della filosofia occorre stare dieci anni sulla Fisica di Aristotele; dopo ne parliamo. Egli ha portato per la prima volta il problema su basi corrette, e l’ha interpretato così ampiamente che noi, se abbiamo occhi per vedere, possiamo desumere da lì alcune direttive per il nostro problema. In termini generali, per Aristotele il λόγος è la possibilità del discorrere e del parlare in generale. A partire da qui per l’antichità divenne naturale prendere il discorso in senso lato come un momento essenziale dell’uomo stesso, e definire così l’uomo ζϕον λόγον χον, un essere vivente che è aperto – perché può esprimersi su ciò in direzione di cui è aperto. Qui Heidegger è fine perché introduce la questione dell’apertura: l’uomo è aperto alla parola. Questo è il carattere generale del λόγος. Resta ora da chiederci dove sia da vedere l’essenza comune del λόγος. Λόγος, è un’emissione fonetica che in sé dà a significare, che forma una cerchia di comprensibilità. La questione ulteriore è: che cosa vuol dire σηματικός. Aristotele dice: questo accadimento non è un processo naturale, bensì qualcosa che accade in virtù di una convenzione. L’essenza della convenzione consiste nel fatto che accade la genesi del simbolo, genesi che noi interpretiamo come convenzione dell’uomo con ciò a cui si rapporta. In virtù della convenzione con l’ente, l’uomo può e deve portare i un’emissione fonetica la sua comprensione, formare quelle connessioni di suoni che sono creazioni di significati, e che noi chiamiamo parole. Ogni discorrere è determinato da questa γένεσις del σύμβολον. Parola come simbolo, che mette insieme tante cose sulle quali ci intendiamo: io le proferisco ed ecco che succede quel fenomeno che oggi si chiama comunicazione. Ma non ogni discorso è un λόγος άποφαντικός, un discorso assertorio, un discorso tale la cui tendenza consiste nel mostrare il su-che-cosa del parlare in quanto tale. Da che cosa, ora, è determinato un tale λόγος? Dal fatto che in esso è presente l’άληθεΰειν ψεύδεσθαι, il disvelare oppure velare. Questo per Heidegger è fondamentale, riprendendolo da Aristotele, per intendere il λόγος. Il λόγος, sì, certo, asserisce cose ma, asserendo queste cose, può velare e mostrare, che fanno parte del λόγος, sono il λόγος; il λόγος è questo: un mostrare e velare. Bisogna fare bene attenzione questa possibilità di disvelare e velare non è un attributo casuale del λόγος, bensì la sua intima essenza. Questo è il punto fondamentale: il λόγος è velare e svelare. Lo svelare e il velare non è qualche cosa che gli si attribuisce dopo; no, lui è questo, la parola è questo: vela e disvela. Il λόγος mostrante deve essere mostrante anche quando vela. Per giudicare male, per ingannare, io devo, discorrendo, vivere in una tendenza discorsiva che mira a mostrare qualcosa. Anche il velare è fondato su una tendenza mostrate. Io mostro quello che io voglio che lui veda. L’altro deve aver inteso il mio discorso nel senso che esso gli debba comunicare qualcosa. Il carattere della tendenza mostrante sta a fondamento tanto del disvelare quanto del velare. A pag. 39, sottoparagrafo c). Se ora vogliamo approfondire questa struttura del λόγος apofantico, dobbiamo chiederci: come è connesso questo λόγος άποφαντικός specifico con l’essenza generale del λόγος, con il σημαίνειν (con il significare)? Come si connette questo λόγος, che è mostrante per definizione, perché lui stesso è questo mostrare o velare, come si connette con il significare? Abbiamo visto che l’essenza del discorso in generale, di quello apofantico e non-apofantico, è insita nel σηματικός, nella γένεσις del σύμβολον (nella genesi di un simbolo, cioè, nella creazione di un simbolo che è quello consente di comunicare) … Se un discorso diviene apofantico, questo σηματικός deve trasformarsi nella maniera che abbiamo descritto, cioè non accade semplicemente, in generale, un convenire tra il significato e ciò che viene inteso, bensì il significato e il contenuto di significato del λόγος άποφαντικός convengono con quanto viene significato in modo tale che esso, in quanto discorso e nel discorrere, vuole mostrare lo stesso qualcosa che viene inteso. Sta dicendo che un discorso, quando è apofantico, cioè quando vuole mostrare, quando è assertivo, positivamente o negativamente, non importa, allora, dice che questo significato emerge nel λόγος nel momento in cui… ecco, dice, e questa è la parola chiave, il λόγος άποφαντικός… vuole mostrare lo stesso qualcosa che viene inteso. Qual è la questione? Il λόγος άποφαντικός, cioè la parola che mostra, vuole mostrare un qualche cosa, e sta qui poi la creazione del significato, che è, dice Heidegger, lo stesso qualcosa che viene inteso. Questo λόγος mostrante vuole significare esattamente quel qualcosa così come viene inteso. Ora, è ovvio che se io voglio asserire qualche cosa, voglio che l’altro intenda questa mia asserzione, cioè se faccio un’asserzione che dice, per esempio, il vero su qualche cosa voglio che questo vero sia riconosciuto da altri. Quindi, è necessario che questo mio intendimento, questo mio significare, sia la stessa cosa, convenga a ciò che l’altro recepisce. La tendenza del discorrere è ora il lasciar-vedere ciò di cui si discorre, il lasciar-vedere e questo soltanto. La proposizione assertoria è un discorso tale che in sé, in conformità al suo intento discorsivo, è disvelante oppure velante. A pag. 400. Seguiamo solo un tratto della problematica del λόγος, per sviluppare il problema dell’“in quanto” e del “nella sua totalità”. È risultato: il tratto distintivo del λόγος άποφαντικός è il poter-disvelare e velare. Questa possibilità dell’uno o dell’altro costituisce l’essenza positiva di questo λόγος. Ora ci interroghiamo intorno al fondamento di questa essenza. In che cosa si fonda questa possibilità di disvelare oppure velare? Come fa il λόγος a mostrare qualcosa? Abbiamo detto che si parla, si chiacchiera allo scopo di far vedere ciò che si dice. C’è anche una figura retorica che indica questo, cioè il far vedere letteralmente ciò che si vuole dire, voglio far apparire con le parole ciò che io voglio che l’altro veda: l’ipotiposi. Ma come accade, dunque? A pag. 401. Dove c’è disvelamento o velamento, li è λόγος άποφαντικός; dov’è questo, lì è – appartenente alla sua più intrinseca possibilità, che sta a fondamento di quel disvelare e velare – sintesi, composizione, congiunzione (posizione di un “insieme” in quanto tale, formazione di unità), ap-prensione di un insieme, unità – unità dell’appreso. Comincia a dire perché si parla di ente nella sua totalità, come se incominciasse ad accennare a una questione della sintesi, a una composizione di elementi e che, componendosi, formano un’unità, un tutto. A fondamento del λόγος c’è un’apprensione, νόησις, νοϋς (intelletto, la possibilità dell’intelletto di apprendere) - oppure: esso è per sua essenza questa apprensione di… In conformità alla sua possibilità interna il λόγος si fonda nel νοϋς, in latino ratio, da cui risulta l’equiparazione con il λόγος, perché questo è νοϋς. Il λόγος è νοϋς, è ratio. Infatti, una delle traduzioni di λόγος è appunto ragione, oltre a quella di parola, discorso. Da ciò deriva anche la traduzione della definizione dell’uomo come ζϕον λόγον χον, come animal rationale. In breve: un’apprensione che forma unità (apprendente formare-unità) è il fondamento essenziale della possibilità del disvelare e velare, non soltanto dell’uno oppure dell’altro, bensì dell’aut-aut ovvero il “sia-sia” di entrambi, e così il fondamento essenziale di ognuno di essi. Sta dicendo che la condizione, che stava cercando, è questa: perché il λόγος possa affermare qualche cosa, così com’è, occorre che questo qualche cosa si dia in quanto unità. Noi dicevamo tempo fa, rispetto al linguaggio, che occorre che questo elemento linguistico sia quello che è, che sia un’unità e non una frammentazione infinita. Che questo elemento sia un’unità a seguito o simultaneamente insieme a una frammentazione infinita, questo è un altro discorso. Che è poi la tesi di De Saussure: il significante non è altro che una relazione differenziale con tutti gli altri significanti. Badate bene, però, dice: il significante. Lo identifica, fa di questo significante un tutto per dire che non è un tutto: per potere dire che non è un tutto deve dire che è un tutto, deve affermarlo in quanto significante, sennò non avrebbe potuto dire che il significante è una relazione differenziale con tutti gli altri significanti, che cosa è in una relazione differenziale? Il significante, che appunto si manifesta, direbbe Heidegger, come un tutto, un tutto unitario. È indispensabile che presenti come un tutto sia per l’aut-aut, cioè per l’o-o, o questo o quell’altro, l’aut-aut esclusivo, vero-falso, ma anche per il sia-sia, per quella che si chiama la disgiunzione inclusiva, per il vel, cioè la e/o, che prevede sia una e sia una o, per cui non esclude, è una disgiunzione non esclusiva. Prendiamola con de Saussure: qualunque cosa io voglia dire del significante devo porre un significante, e che questo significante sia un significante, per poter dire che non è questo qui, che è quello là, deve esserci significante. La questione è ora: come giustifica Aristotele questa tesi, e come mostra che il disvelare e velare esige necessariamente una σύνθεσις come condizione della sua possibilità? La σύνθεσις è in breve la condizione di possibilità dello ψεύδος (del falso). Per dire che il significante è un’altra cosa devo prima dire il significante, ma è quella cosa lì. È un’altra cosa, va bene, ma intanto ci deve essere quella cosa lì, altrimenti è altro rispetto a che cosa? Per cui Aristotele può dire direttamente: τό γάρ ψεύδος έν σύνθέσει άει, dov’è inganno (velare) lì è quell’apprendente formare-unità. Dove c’è il falso, l’ingannare, lì c’è quell’apprendente formare unità. Quando io voglio dire che il significante non è il significante ho bisogno del significante. Infatti, se uno dice, volendo ingannare l’altro, che il bianco e non-bianco, ha già posto il “non-bianco” in una unità con il bianco. Se è non-bianco, è non cosa? Che cos’è non? Questo “insieme” deve essere assolutamente formato a priori, per poter dire, ingannando, che qualcosa non è questo o quello. In termini sostanziali: per mostrare qualcosa in generale – sia così com’è, sia come non è, vale a dire per poter, mostrando, disvelare oppure velare, ciò per il quale vale il mostrare deve già a priori essere appreso… Per dire che un significante non è un significante io devo già aver appreso il significante. …nell’unità delle sue determinazioni, a partire dalle quali e nelle quali è determinabile esplicitamente, e precisamente nel carattere dell’in quanto così e così. Il significante è un significante, e bell’è fatto. Pertanto esso è già a priori appreso in quanto questo e quest’altro. Se Aristotele, in questo contesto, para di σύνθεσις, intende ciò che noi denominiamo struttura dell’“in quanto”. Questa sintesi è la “è”, l’“in quanto”, cioè il significante è significante, in quanto significante, è ente in quanto ente. Intende ciò, senza però penetrare nella dimensione autentica del problema. La struttura dell’“in quanto”, la preliminare apprensione di qualcosa in quanto qualcosa… Questa “è” dice che qualcosa è qualcosa. Ricordate la formula di Peirce, a è b, è b che dà un senso alla a e che la fa esistere in quanto a, deve pur esserci un qualche cosa, ci deve essere un’apprensione che mi fa scrivere a. …la quale forma unità, è la condizione di possibilità per la verità e la falsità del λόγος. La lavagna nera devo già averla avuta sott’occhio in quanto qualcosa di unitario, per poter, nel giudizio, scomporre ciò che ho appreso. Nel corso della prima caratterizzazione dell’“in quanto”, introduttiva e superficiale, abbiamo affermato soltanto che esso compare là dove compare la proposizione assertoria, alla quale viene ascritto l’esser-vera oppure l’esser-falsa. Ora diviene già evidente una connessione all’interno del λόγος, e precisamente tale che la stessa struttura dell’“in quanto” viene ad essere la condizione di possibilità del λόγος άποφαντικός, se è vero che questo è contraddistinto dall’άληθές e ψεύδος. L’“in quanto” non è un attributo del λόγος, incollato e innestato su di esso, bensì, viceversa, la struttura dell’“in quanto” è da parte sua, in generale, la condizione di possibilità di questo λόγος. La “è”, copula, l’essere di qualcosa un qualche cosa, è la condizione, sta dicendo Heidegger, del λόγος, della parola, che la parola di questo qualche cosa che è qualche cosa, ma questo qualche cosa deve già essere apparso. Vi anticipo dove andrà poi a parare Heidegger nelle ultime pagine. Perché appaia qualche cosa occorre l’esser-ci; è soltanto nel mio progetto che qualcosa appare, quindi, nell’essere gettato continuamente verso qualche cosa. Questo essere gettato verso qualche cosa è ciò che me lo manifesta così come si manifesta, ed è a questo punto che posso parlarne, perché si manifesta così come si manifesta nel mio progetto. Ora, è evidente che il progetto non è che preceda la parola, il λόγος, perché lui intende λόγος come discorso, come ratio, non si è avvicinato alla struttura del linguaggio in quanto tale. Qualunque progetto non può darsi se non all’interno di una struttura linguistica, che lo rende possibile. Però, tutto ciò che sta dicendo Heidegger, la condizione di pensabilità della metafisica è che qualcosa appaia, che qualcosa si dia così come si dà; ma perché si dia è necessario il mondo, cioè, tutti gli enti in quanto enti nella loro totalità, cioè la mia storicità, il mio progetto. Perché l’ente si dia, perché l’ente sia quello che è, occorre che ci sia io in quanto esser-ci, in quanto mondo: questo è il fondamento della metafisica per Heidegger. A pag. 406, sottoparagrafo e), Il mostrare (άπόφανσις) dell’asserzione come lasciar-vedere l’ente in quanto ciò, che è e com’è. Questo è il mostrare: lasciar vedere l’ente come è e in quanto utilizzabile per la mia volontà di potenza. Introducendo il problema abbiamo detto: l’“in quanto” è una relazione. Ora abbiamo visto innanzitutto: questo porre in relazione tende alla σύνθεσις, è un correlare che congiunge. Ma non soltanto: il congiungere è in sé un disgiungere. Se io congiungo vuol dire che metto insieme due cose che sono due e, quindi, sono disgiunte, sono discernibili in quanto disgiunte. Ma non solo questa struttura duplice, bensì ancora di più, il porre in relazione come un fare agire, accadere, è un correlare νοήματα, un νοείν, un’apprensione (νοϋς), un apprendente congiungere e disgiungere. Ogni vota che apprendo per apprendere devo isolare, devo unificare, ma anche disgiungo, perché se dico che il significante non è il significante o che il significante è fatto di mille differenze, occorre che prima individui il significante in quanto qualche cosa (sintesi), dopodiché posso dire a questo punto che il significante è tutte queste altre cose; quindi, devo prima congiungere e poi disgiungere, simultaneamente o al contrario, a seconda dei casi. Ciò implica: il disgiunto è in quanto tale appreso nel suo “insieme” in quanto tale. A è b. prendiamo di nuovo un esempio concreto: questa lavagna sta in una posizione sfavorevole: la lavagna nella sua posizione sfavorevole, in quanto tale e in se stessa, cosa e come essa è. Questa lavagna, dice, è in una posizione sfavorevole. Per esempio, se io mettessi una lavagna alle vostre spalle, sarebbe in una posizione sfavorevole per voi. Questa lavagna, dice, è così come essa è, in una posizione sfavorevole, in base a che cosa? Al mondo in cui è inserita, in quel caso specifico un’aula. Quindi, vedete come già si sta avvicinando alla questione finale: qualcosa è quello che è in relazione al mondo in cui è inserita. A pag. 408. Riepilogo ancora una volta i passi interpretativi compiuti da ultimo. Ho esposto brevemente come il contrassegno costante del λόγος άποφαντικός sia l’esser-vero o falso ovvero il poter-esser vero o falso. Siamo passati alla questione di dove si fondi la possibilità dell’essere-vero o falso. Abbiamo osservato: questa possibilità si fonda nel fatto che il λόγος è in sé una σύνθεσις. Sintesi, mettere insieme. Per mettere insieme delle cose occorre che prima non fossero insieme ma disgiunte. Questa connessione può venir chiarita nel modo più evidente se si considera anche ciò che Aristotele dice sulla duplice struttura del λόγος: che cioè ogni λόγος άποφαντικός è una κατάφασις oppure una άπόφασιςκατάφασις e άπόφασις sono termini divenuti famosi quando Dionigi Aeropagita si era inventato una teologia apofatica e una teologia catafatica. La teologia catafatica diceva tutto ciò che dio è, quindi, positiva; la teologia apofatica diceva tutto ciò che dio non è. Che cosa dio non è? Non è un ferro da stiro, un accendino, ecc. Quindi, catafatico è ciò che dice come stanno le cose, le cose che sono; apofatico dice le cose come non sono. Potremmo dire in modo spiccio, anche se improprio: affermare e negare. …cioè un mostrare attribuente (catafatico: mostra gli attributi di dio) oppure rigettante, ciò che in seguito è stato definito, in modo non del tutto adeguato, come giudizio positivo e negativo. Ogni attribuire e rigettare dipende dal fatto che collega a priori qualcosa con qualcos’altro, cosicché l’esser-vero o falso si fonda nella σύνθεσις. È sempre la σύνθεσις che ci dice se qualcosa è vero o falso, se si connette oppure no. Egli dice inoltre che possiamo definire la σύνθεσις anche come διαίρεσις. Se c’è σύνθεσις c’è anche διαίρεσις, se c’è unione c’è anche separazione, perché prima di unire le cose queste cose erano separate. Anche nella unione si mantengono separate perché non è che scompaiono, rimangono comunque degli elementi. Per poter collegare qualcosa con un’altra devo prima al contempo tenerla distinta, cosicché in ogni attribuzione sono insite una σύνθεσις e una διαίρεσις. Non è che l’attribuzione, il giudizio positivo “a è b”, sia costituito solamente da una σύνθεσις, e il giudizio negativo, “a non è b” da una διαίρεσις. Così come il giudizio positivo è in sé collegante-differenziante, anche il giudizio che rigetta è differenziante-collegante… È evidente che se voglio negare qualcosa, se voglio dire che questo non è bianco devo avere già ben presente il bianco. A pag. 409. È risultato che ogni mostrare è, o il mostrare un ente sussistente come sussistente oppure un non-sussistente come non-sussistente oppure un non-sussistete come non-sussistente oppure un non-sussistente come sussistente. Tutte queste variazioni si riferiscono al sussistente così com’è sussistente oppure non-sussistente, al sussistente non soltanto com’è: sussistente ora, ma anche come era sussistente o sarà. Per cui il mostrare è άποφαίνεσθαι, un portare sott’occhio, vale a dire per il comprendente vedere e cogliere, un portare sott’occhio il sussistente nel modo in cui sussiste. Per vedere qualcosa nel modo in cui è. È chiaro che tutta la metafisica vuole che questa cosa sia così come è, per virtù propria; per Heidegger, no, è quella che è perché è nel mondo. Ma la sussistenza del sussistente viene concepita come la presenza di qualcosa, e la presenza di qualcosa è “per l’antichità e oltre” l’autentico significato di ciò che noi chiamiamo essere. Che cosa è? Ciò che appare. L’άποφανσις, la prestazione fondamentale del λόγος, è il portare-sott’occhio l’ente così come è e in ciò che è in quanto ente. L’asserzione non si limita a quanto è presente ora, bensì si riferisce anche all’ente che è stato e a ciò che sarà. Questo è ciò che la metafisica intende fare, cioè, cogliere l’ente in modo definitivo, sub specie æternitate. Poi, vedremo che non è così che vanno le cose.