23 luglio 98
Questa seconda metà di luglio, tutto agosto e
probabilmente anche settembre occuperemo a corroborare e a rinforzare tutto ciò
che ho scritto ne La Seconda Sofistica
in modo da renderla molto più potente di quanto già non sia. Leggendo qua e là
mi sono accorto che ci sono delle cose che sono un po' ostiche, espresse forse
in modo un po' tortuoso, forse è possibile rendere la cosa ancora più semplice.
Per fare questo dovremmo riconsiderare una buona parte delle proposizioni
cercando di muovere a queste proposizioni tutte le possibili e immaginabili
obiezioni che possono essere fatte. Tanto per dirvi, mi è capitato qualche
tempo fa di parlare con un tizio che insegna filosofia da qualche parte... e,
non so come, ci siamo trovati a parlare delle prove dell'esistenza di dio. Lui
sosteneva che la prova di Anselmo non era sostenibile, “perché come tu sai,
Anselmo afferma che è possibile pensare l'assoluto, se tu neghi questa
possibilità chiaramente tutta la sua prova non è più sostenibile”. E allora, dunque,
alla mia domanda se ritenesse possibile pensare l'assoluto rispose con
risolutezza di no, che l'assoluto non è pensabile. Perché, ho chiesto. Domanda
legittima, "perché l'assoluto riguarda tutto ciò che è prima del pensiero
e quindi il pensiero non può pensare ciò che è prima di se stesso". Allora
gli ho domandato come mai, come sapesse che l'assoluto fosse prima del
pensiero, perché per affermare una cosa del genere occorre accogliere una
definizione di assoluto e stabilire che questa definizione si attaglia
esattamente a questo quid che dovrebbe essere l'assoluto perché, in effetti, se
io dico che non posso pensare l'assoluto occorre che sappia che cosa non posso
pensare e, quindi, già ho attribuito a questo quid qualche cosa. E come glielo
ho attribuito se non con il pensiero? Ora, questo lo ha molto infastidito e la
conversazione è terminata lì, anche perché come nei dialoghi socratici uno ha
fretta, deve andare via e purtroppo non può proseguire. Però, al di là di
questo, tutto ciò mi ha fatto riflettere sul fatto che in effetti ciò che
andiamo facendo, per quanto sia molto potente, non ha, ed è la questione di cui
ci stiamo occupando, un forte potere persuasivo. È la scommessa che facemmo
l'altro giorno con Cesare il quale nega la possibilità che possa farsi una cosa
del genere, mentre io più fiducioso invece sostenevo il contrario. Mi ha fatto
riflettere, dunque, sul fatto che c'è un intoppo nell'ascoltare cose del genere
che come ho detto mille volte convincono ma non persuadono e mi sono chiesto se
questo difetto, chiamiamolo così, non fosse in qualche modo insito nel modo in
cui abbiamo affrontata la questione. Questo modo, alcuni di voi hanno letto
queste…di qualunque tipo, non ha nessuna importanza. La prima proposizione “non
possiamo fare niente”, diciamo: non posso in nessun modo - dice qua - un
pensiero fuori dalla parola se non attraverso il linguaggio, trovandomi dunque
e comunque nella parola. Intendiamo con linguaggio la struttura logica e
sintattica di cui è fatto l'atto di parola e senza cui la parola non potrebbe
darsi." Obiezioni? Qui abbiamo semplicemente stabilito, dato una
definizione, come avviene... Ciò che stiamo facendo è confrontarci con
l'eventualità di costruire una proposizione che renda il giocare questo gioco
assolutamente ineludibile, tale per cui non può eludersi in nessun modo. E qui
abbiamo soltanto dato una definizione... però qualcuno potrebbe obiettare
fornendo questa definizione, che evidentemente non è casuale, anziché un'altra.
Già in questo modo vincoliamo tutto ciò che seguirà a questa definizione,
giusto? Perché se io, potrebbe dirmi un ipotetico interlocutore, accolgo una
definizione diversa... in effetti noi l'abbiamo posta assolutamente come
necessaria, abbiamo detto che intendiamo questo, se intendiamo altro, tutto ciò
che seguirà prenderà un'altra via, e quindi?
Intervento: “Nulla è fuori dalla parola” però la pianta
di per sé esisteva, era preesistente, non posso sapere tutte le cose del
mondo...la pianta esisteva a mia insaputa.
Lei quale definizione accoglie di esistenza?
(....)
Intervento: Pensavo che la nostra fosse una prospettiva riduzionistica,
cerchiamo di dire ciò che non si può non dire, il minimo necessario e nella
nostra definizione di linguaggio colgo questa possibilità, cioè il tentativo di
non fare entrare troppi elementi che poi sarebbe difficile spiegare....
Però questa è una posizione capziosa, la mia in
questo caso, cioè per non trovarmi negli impicci dopo, utilizzo questa
definizione. Però uno può dire: allora troviamocene un'altra, togliamoci dagli
impicci... Potrebbe essere soltanto una escamotage per evitare dei problemi che
uno sa che potrebbe incontrare, in effetti questa proposizione come qualunque
altra è arbitraria
Intervento: La prospettiva era non confondere una
prospettiva logica da una retorica. Retoricamente tutte le affermazioni possono
essere arbitrarie, dal punto di vista logico esiste una sorta di coerenza...
Sì, tuttavia quando qui affermo: “intendiamo con
linguaggio la struttura grammaticale, logica e sintattica di cui è fatto l'atto
di parola, e senza cui la parola non potrebbe darsi”, se ci pensate bene... qui
il lavoro che si tratterà di fare è di muovere da definizioni che non possono
essere negate. Invece queste lo sono, lo possono essere. Poi affermo: "di
cui è fatto l'atto di parola del linguaggio". Questo può essere negato,
negando questo succede un macello, perché tutto ciò....
Intervento: Bisogna trovare qualcosa che non possa
essere negato...
La prima l'abbiamo già trovata:
"incominciare a pensare che se penso dico, non posso pensare fuori dalla
parola, non posso formulare alcun pensiero fuori dalla parola e pertanto fuori
dalla parola non c'è alcun pensiero che possa essere pensato". Questo non
è negabile in nessun modo, ciò che segue, certo, lo è. Ora, inincominciamo a
inquadrare la struttura che dobbiamo utilizzare per fare queste operazioni che
sarà tutt'altro che semplice, ecco quella della recursione e, per esempio, il
modello potrebbe essere questo: PÉP
(se P allora P). Potremmo anche dire in questo modo se dico allora dico. Perché
questo? Perché affermando PÉP
non faccio nient'altro che dire che dicendo qualcosa dico qualcosa, nient'altro
che questo. Che potrebbe apparire anche superfluo ma non lo è. Non lo è, perché
questa proposizione P>P ci consente di stabilire che ciascuna volta è
soltanto perché c'è il secondo elemento che posso affermare il primo. Vediamo
di chiarire bene questo punto perché è fondamentale. Perché io possa affermare
che sto parlando occorre che stia parlando per affermarlo, il che non fa una
grinza, ed è questo che intendo dicendo che P>P : se affermo qualcosa allora
lo sto affermando, cioè per affermare qualcosa occorre che la affermi o, come
dicevo tempo fa, se dico, dico necessariamente qualcosa. Ora, tutto questo cioè
P>P di per sé costituisce qualche cosa che possiamo chiamare Q, perché è la
condizione questa perché il linguaggio possa esistere possa avviarsi, che io
possa affermare qualcosa e la posso affermare se e soltanto se posso affermare
qualcosa. Questo per esempio è la struttura della recursione: ciascuna volta
che dico qualcosa è come se non potessi non tenere conto che l'ho detta perché
la posso dire. Intanto questo, dopo si tratterà di stabilire in che cosa
consiste questo qualcosa che mi consente di dirla. In prima approssimazione lo
schema potrebbe essere questo, come dire che esiste un elemento linguistico
perché posso dire che esiste un elemento linguistico. Esiste il linguaggio
perché posso affermarlo. Qui ovviamente inseriamo la nozione di esistenza, di
cui abbiamo parlato e possiamo mantenere, così come l'abbiamo definita,
riuscite a trovare un sistema per proseguire più rigoroso?
Intervento:…
Allora attualmente possiamo utilizzarlo. Vedete
che già vagliata attraverso questo criterio questa affermazione risulta problematica,
" linguaggio la struttura grammaticale, sintattica ecc. ... di cui è fatto
l'atto di parola". Un critico spietato potrebbe affermare che questa è una
petizione di principio e non una conseguenza, che non segue a niente. Sì, è una
definizione arbitraria ma dopo tutto se è arbitraria non è mia e allora vale
anche la sua. Proviamo a considerare ancora la questione, dicevo: se dico
allora dico o, se preferite, PÉP.
Questa inferenza, così di primo acchito, appare non negabile. Proviamo a
negarla, Cesare la neghi e vediamo cosa succede, perché dobbiamo considerare
questa eventualità, supponiamo allora che se dico allora non dico (PÉnon P), cosa
faccio con questo?
Intervento: È una contraddizione perché parlando sto
dicendo e affermo che non sto dicendo.
Apparentemente sì. (...) Ma qui utilizziamo un
verbo “dire” di cui ancora non sappiamo nulla. "Se dico allora dico"
di per sé non potrebbe significare assolutamente niente, dobbiamo, come dire
scendere ancora, siamo ancora ai piani troppo alti e trovare qualcosa di ancora
più forte, certo affermare che se dico allora non dico, è una contraddizione ma
a condizione che questo significante dire abbia già un significato ben
preciso...
Intervento: Ancora prima dobbiamo giustificare
l'inferenza.
Giustificare l'inferenza (è una struttura
questo) certo, (...) forse, o forse no, tieni conto che rimaniamo sempre
nell'ambito di ciò che avviene parlando, non è che dobbiamo cercare l'inferenza
al di fuori da ciò che ci consente di dire. Possiamo indicare l'inferenza come
una procedura necessaria? Qui nella Seconda Sofistica da qualche parte, dice
sì, però dobbiamo considerare la cosa: e se non lo fosse? Ma se non fosse
necessaria, il linguaggio potrebbe darsi? Occorre che troviamo qualche cosa di
assolutamente particolare e peculiare al linguaggio tale da reggere qualunque
obiezione, abbiamo visto che già alle prime battute possono muoversi delle
obiezioni, Roberto, l'inferenza, da dove potremmo?
Intervento: Esistono delle logiche che la negano questa procedura.
La spostano soltanto come, per esempio, le
logiche paraconsistenti. Le logiche non la negano, rimane comunque il
fondamento, poi vengono negati alcuni particolari aspetti di questa storia però
di fatto non è negabile in nessun modo, ma con inferenza, se vogliamo utilizzare
questo termine, dobbiamo dire qualche cosa che in nessun modo si possa negare,
per esempio che l'inferenza sia un rinvio, da un elemento a un altro. Se non
fosse questo, l'inferenza non avrebbe più nessun utilizzo...
Intervento: Però ci stiamo allontanando dal primo
problema...
Talvolta allontanandosi dal primo... e invece,
invece è possibile uscirne. Ciò che consente di uscirne è una considerazione
proprio rispetto alle considerazioni che stiamo facendo. Voglio dire che per
compiere una considerazione è necessario che si seguano dei passi, seguire cioè
una struttura. Adesso prendiamo per esempio il sillogismo: premessa maggiore,
premessa minore, conclusione. C'è l'eventualità che questo schemino di antica
data risulti necessario alla struttura del linguaggio, come dire che se non c'è
questo schemino allora non c'è nessuna conclusione che possa trarsi, nessuna
inferenza. Se continuiamo a parlare questo ci induce ad accogliere una
eventualità, per il momento poniamola come eventualità, e cioè che a un elemento,
uno qualunque, se ne connetta un altro, non ha importanza quale, potremmo
affermare che non esiste nessuna connessione di questo tipo? Se lo affermassimo
in che modo potremmo farlo se non utilizzando la stessa cosa che stiamo
negando? Parrebbe. E quindi per il momento la accogliamo, perché non vediamo
nessuna possibilità......Dunque, abbiamo visto che l'inferenza, cioè la
connessione fra un elemento e un altro, risulta non negabile. Un'inferenza,
abbiamo detto prima, essere nient'altro che un rinvio, potremmo anche
considerarli sinonimi. In effetti, un elemento, rinvia, rimanda, si sposta,
costruisce, uno può poi metterci tutti quanti i verbi che vuole non ha nessuna
importanza, in questo caso la cosa è soltanto uno schema, per un verso astratto
per un altro no. Dunque, il rinvio è proprio necessario all'esistenza del
linguaggio: se il rinvio, nei termini in cui lo stiamo costruendo, non si desse
allora il linguaggio non esisterebbe. Qui abbiamo messo un altro piccolo
mattoncino perché in questo senso stiamo procedendo in modo da impedire
qualunque obiezione e quindi qualunque arresto. Prima di parlare di linguaggio
noi occorre che parliamo di inferenze, di rinvii, solo a questo punto, dopo
risulterà questa affermazione o una simile che troveremo più appropriata,
assolutamente non negabile perché, così com'è, è negabile, risulta arbitraria
mentre affermare che nel linguaggio è necessaria l'inferenza, questo non è
negabile perché per negare una cosa del genere sono costretto a utilizzare
un'inferenza e quindi non lo posso fare. Questo modo in cui stiamo procedendo è
sicuramente più rigoroso di quello che ho utilizzato in una prima stesura, ma
se non ci fosse stata la prima oggi non ci sarebbe la seconda. Prima di
lanciarci in queste affermazioni che affermano che l'albero esiste “di per sé”
dobbiamo rifletterci bene prima, altrimenti c'è l'eventualità che ci troviamo a
giungere a conclusioni che potrebbero essere facilmente negabili. Dunque,
dovremmo assolutamente seguire questa struttura ricorsiva in tutto ciò che
diremo, cioè quella che tiene conto che PÉP
, se sto parlando allora necessariamente devo accogliere l'inferenza...
Intervento: L'inferenza che sta affermando è del tipo se PÉQ.
Perché? E perché allora se PÉP (l'inferenza
che noi abbiamo giustificato è del tipo PÉP
ma potrebbe essere allora Q. Noi partiamo da “PÉP
non è negabile” però non ha solide basi, però il linguaggio si basa comunque su
inferenze di tipo PÉQ,
e c'è una differenza notevole, essenziale: in una il linguaggio si arresterebbe
e nell'altra invece ha la possibilità di proseguire. Tu dici però in modo
arbitrario, come fare sì invece che prosegua in modo necessario? In questo
modo: prova a pensare PÉP
questa proposizione chiamala Q, allora puoi scriverla così: se (se PÉP) ÉQ, che non è
altro che il PÉP.
Ora in questo modo tu puoi obiettare che abbiamo spostato di poco la questione,
però abbiamo inserito un elemento e cioè la proposizione al completo che
consente la produzione di un terzo elemento. Austin fa un giochetto simile, il
primo se P è la locuzione, il secondo è l'illocuzione, la terza è la
perlocuzione. La prima dico, la seconda faccio qualcosa dicendo, la terza mi
accorgo anche di quello che succede. In questo modo tu hai in effetti questo
terzo elemento che consente poi lo spostamento e la costruzione di un ira di
dio di cose.
Intervento: Lo spostamento c'è ma il valore di questo spostamento...
Ma è il primo passo, che possiamo fare per
introdurre in modo non arbitrario questa P. A noi interessa introdurla in un
modo non arbitrario, poi vedremo man mano come utilizzarla, ma abbiamo ormai
rimossa la tua obiezione che PÉQ
sia un passaggio arbitrario, se tu con Q consideri la proposizione stessa (...)
Non affrettarti a trovare subito conclusioni precipitose, andiamo per gradi...
Proviamo a riflettere bene su questo passo che abbiamo aggiunto, su questa Q
che è sorta apparentemente dal nulla, che poi non è così, non è altro che la
stessa proposizione, la stessa tautologia considerata in toto. (Gli abbiamo dato un nome) Sì, abbiamo
detto che non soltanto esiste la P la prima e la seconda della inferenza, ma
anche la prima e la seconda simultaneamente.
Intervento: Così potrei fare esistere anche il
nulla...
Hai scoperto come funziona il linguaggio! (No!). Sì, funziona così. (Ho uno spostamento sul piano dei
significanti ma non sul piano del significato). Direi che non hai uno
spostamento rispetto al senso, forse, però di fatto hai individuato come
funziona il linguaggio, come si costruisce... Certo, noi abbiamo soltanto
considerato delle variabili proposizionali è chiaro che Q che non è altro che
se PÉP può essere al
posto di un'altra P, tu dici “ma sempre una P rimane”, ma è una proposizione,
in effetti può avere come qualunque variabile proposizionale, al posto della P
puoi metterci qualunque cosa, e se ci metti una qualunque cosa ti accorgi che
facendo funzionare questo meccanismo infernale allora costruisci qualunque
proposizione. Chiaramente per costruirle così dovresti costruire le stringhe di
una lunghezza strepitosa, però per il momento ci interessa soltanto la
struttura. Per esempio, adesso provo a fare un esempio, al posto di PÉP, diciamo
così: se dico allora dico, chiamo questa proposizione "parlo" per
esempio, così un altro nome, tieni conto che tutti gli elementi di cui è fatto
un discorso, da quello che stiamo facendo a quello che chiede mezz'etto di
biscotti dal panettiere, sono costruiti da elementi che di per sé sono
assolutamente niente, poi vedremo man mano come acquisiscono un senso e come
sia questo senso… perché in effetti funziona così: se dico allora dico. Questo
lo chiamo “parlo”. Affermo che si chiama così, allora se parlo allora parlo,
questo chiacchiero: dice va bene un esempio così, forse lascia un po' il tempo
che trova, però può forse rendere conto di come sia possibile costruire una
quantità sterminata di proposizioni che muovono di fatto da un elemento che
afferma se stesso. Poi, sì certo, avviene uno spostamento, lo spostamento che
occorreva trovare cioè di quello da P a Q, spostamento che in tutta la logica
risulta assolutamente arbitrario perché noi stessi dicemmo a suo tempo che
risulta necessaria che ci sia inferenza ma non quale. Però posta la questione
in questi termini risulta che un terzo elemento sia inevitabile e ineludibile.
Intervento: Il fatto che io possa intervenire a chiamare una
proposizione, ha un regime di arbitrarietà che non so se conviene.
Tu dici che io arbitrariamente chiamo una certa
cosa in un modo oppure in un altro. (Questa
arbitrarietà potrebbe riservarmi delle cattive sorprese in futuro).
Obiezione legittima, certo. Vediamo un po', si può affrontare in due modi e poi
vediamo se funzionano. La necessità di inserire una marca, direbbero i
linguisti, per distinguere un elemento da un altro laddove se ne fa uso
differente. Io potrei rispondere all'obiezione di Roberto che è arbitrario che
io scelga Q ma forse non è arbitrario che io scelga un'altra lettera, questo
potrebbe essere necessario come marca per distinguere un elemento da un altro,
questo mi costringe a farlo il linguaggio o il dire stesso, noi utilizziamo il
significante linguaggio, al momento che se questo non avvenisse cesserei di
potere parlare. Ciò che dobbiamo stabilire è se risulta assolutamente
necessario che ciascun elemento linguistico sia differente da ciascun altro,
oppure se ne basta uno, per esempio. Se risultasse necessaria la prima ipotesi
allora ecco è arbitraria la scelta della Q, certo, posso chiamarla anche
Peppino, ma non il fatto che io utilizzi per denominare questo altro elemento
un'altra marca distintiva, direbbero i linguisti una marca, per esempio fra
pane e cane, c'è una marca distintiva, per esempio C cane marca distintiva, per
distinguere da pane, se dico che il pane abbaia non funziona...
Intervento:…
Non si avverte la necessità ma che ci sia la necessità
questa sì, se no come fare a parlare, impossibile! Non puoi parlare usando un
unico significante che significa tutto, diventa un macello. Direi che è forse
una delle maggiori funzioni che operano nel linguaggio, queste delle marche
distintive...(...) Sì certo, tuttavia, anche laddove apparentemente il
significante è lo stesso per indicare due elementi differenti, qualche cosa
comunque interviene sempre a distinguere, torno a ribadire. Comunque mi rendo
conto che la cosa è ancora molto farraginosa, così come è esposta, occorre un
elemento o interviene un elemento qualunque esso sia, metti lo stesso contesto,
metti il tono di voce, metti qualunque cosa, che consenta, come direbbe il buon
vecchio Hielmeslev, di encatalizzare cioè di stabilire veramente qual è il
significato all'interno di quella proposizione di quel elemento, in caso
contrario non potrebbe probabilmente venire utilizzato, non potendo venire
utilizzato, non viene utilizzato e quindi non è niente. Mi rendo conto che la
questione è da elaborare però ho l'idea che sia questa la via da seguire e cioè
una via che è molto più rigorosa di quella seguita fino ad oggi. Supponiamo che
una marca distintiva sia necessaria, discuteremo ancora di questo, ma se lo
fosse ecco che questo salto che la logica ha sempre reputato impossibile a
farsi, anche se poi di fatto avviene ininterrottamente, sarebbe giustificato
per la prima volta nella storia, dobbiamo ancora rifletterci bene perché... ma
se fosse, allora lo sarebbe, no? Vedete, già qui alla seconda proposizione sono
sorti problemi non indifferenti, adesso non è che siano tutte così, però
meritano di essere riconsiderate, soprattutto laddove sono affermazioni non
giustificabili e io invito ciascuno di voi a darmi una mano in questo senso
cioè ad andare a rileggervi tranquillamente anche soltanto la prima sezione
sulla logica e reperire tutte quelle affermazioni che a vostro insindacabile
giudizio risultano non necessarie perché è su quelle che dobbiamo
lavorare....(....) perché viene il sospetto che soltanto la prima risulti
confacente al criterio che abbiamo deciso di adottare, se non tutte o una buona
parte delle rimanenti invece offrono il fianco.
Intervento: Anche la prima ...
In un certo senso è quello che cerchiamo di
fare, ma in alcuni casi ci tocca combattere con un addestramento ricevuto nel
corso della storia personale e quella secolare che ci svia continuamente, non
mostrandoci o illudendoci di avere affermato cose necessarie che invece non lo
sono affatto (...) Sì, sto dicendo certo è quello che abbiamo incominciato a
fare, "il come" può risultare non semplicissimo. Proviamo a leggere,
per esempio quella che dice che non c'è uscita dal linguaggio, "qualunque
via tenti di praticare per farlo, questo mi ricondurrà necessariamente al
linguaggio attraverso cui ho pensato anche di poter uscire dal linguaggio,
negare questa proposizione....". Anche questa parrebbe non offrire il
fianco a nulla, questa "con parola indichiamo l'atto attraverso cui e con
cui gli umani possono dirsi tali e quindi pensarsi e dire quindi anche pensare
qualunque altra cosa... è l'atto con cui è attraverso cui esiste" sì è un
po' il discorso di prima " con parola indichiamo... " e se indichiamo
un'altra cosa? Occorre dire se manteniamo questa cosa perché risulta necessario
mantenere questa, se no "indichiamo"...
Intervento:…
Farlo, certo è necessario però se riusciamo in
questa operazione allora saremo andati molto lontani, allora saremo andati...
Intervento: In realtà nonostante tutto noi stiamo cercando di creare
qualcosa che sia fuori dal contesto di un gioco che si sta facendo....ciò che
stiamo facendo va contro a tutto ciò che abbiamo sempre pensato.
C'è questa eventualità. Vedremo nel prosieguo là
dove ci condurranno queste considerazioni se avremo fatto questo oppure no, ma
c'è questa eventualità che in effetti è stata ventilata in varie occasioni cioè
sì, è un gioco fra gli altri però con una particolarità, quella di non essere
negabile mentre gli altri lo sono.
Intervento: È un rischio o è un obiettivo?
Potrebbe essere entrambe le cose, rischiamo
questo obiettivo. In effetti, non so dove una cosa del genere può condurre, non
lo so ancora (quello che andiamo dicendo è certamente necessario) abbiamo
trovato dio. (...) Certo, tutti i mondi possibili...intanto ci divertiamo a
giocare questo gioco poi vedremo...