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23 giugno 2021

 

Lezioni sulla storia della filosofia di G.W.F. Hegel

 

Abbiamo detto che avremo proseguito con Parmenide, Il poema sulla natura. Lo leggeremo nella traduzione di Diels-Kranz e poi, naturalmente, torneremo al testo di Hegel. Parmenide scrisse così. Le cavalle che mi portarono fin dove il mio desiderio vuol giungere (la verità) mi accompagnarono dopo che mi ebbero condotto e mi ebbero posto sulla via che dice molte cose, che appartiene alla divinità e che porta per tutti i luoghi l’uomo che sa (Dea Alètheia). Là fui portato e, infatti, là mi portarono accorte cavalle tirando il mio carro e fanciulle indicavano la via. L’asse dei mozzi mandava un sibilo infiammandosi in quanto era premuto da due rotanti cerchi da una parte e dall’altra; quando affrettavano il corso nell’accompagnarmi le fanciulle, figlie del Sole, dopo avere lasciato le case della notte, verso la luce, togliendosi con le mani i veli dal capo. Là è la porta dei sentieri della Notte e del Giorno con ai due estremi un architrave e una soglia di pietra, e la porta è retta nell’etere e rinchiusa da grandi battenti. Di questi Giustizia (Dike), che molto punisce, tiene le chiavi che aprono e chiudono. Le fanciulle, allora, rivolgendole soavi parole, con accortezza la persuasero affinché per loro la sbarra del chiavistello senza indugiare togliesse dalla porta. E questa, subito aprendosi, produsse una vasta apertura dei battenti facendo ruotare nei cardini in senso inverso i bronzei assi fissati con chiodi e con borchie. Di là subito attraverso la porta, diritto per la strada maestra le fanciulle guidarono le cavalle e la Dea di buon animo mi accolse e con la sua mano la mia mano destra prese, incominciò a parlare e mi disse così. Questa è la Dea Alètheia, la verità, che parla. O giovane, tu che compagno di immortali guidatrici con le cavalle che ti portano giungi alla nostra dimora, rallegrati, perché non una infausta sorte ti ha condotto a percorrere questo cammino. Infatti, esso è fuori dalla via battuta dagli uomini, ma legge divina e giustizia. Bisogna che tu tutto apprenda e il solido cuore della verità ben rotondo e le opinioni dei mortali, nelle quali non c’è una vera certezza. Eppure, anche questo imparerai, come le cose che appaiono bisogna che veramente fossero, essendo tutte in ogni senso. Ora, io ti dirò e tu ascolta e ricevi la mia parola, quali sono le ricerche che sole si possono pensare: l’una che è e che non è possibile che non sia, è il sentiero della persuasione che tien dietro alla verità; l’altra che non è e che è necessario che non sia, e io ti dico che questo è un sentiero su cui nulla si apprende; infatti, non potresti conoscere ciò che non è, perché non è cosa fattibile né potresti esprimerlo. Infatti, lo stesso è essere e pensare. Questa semplice frase, che dice Parmenide, va presa molto seriamente. Dice che l’essere è e che il non essere non è, cosa che detta così potrebbe apparire una banalità. Ma lui non dice solo questo, dice anche che essere è pensare, e pensare è parlare, non si può pensare senza linguaggio, con che cosa penso sennò? E, dunque, dire che “l’essere è” è dire che “il linguaggio è” e che è l’unica cosa che è. Di ciò che non è, del non linguaggio, non curarti, perché non esiste, non c’è niente, perché essere è pensare. Questo dettaglio, che per quanto mi risulta nessuno ha colto prima d’ora, l’ho trovato determinante e fa intendere molto bene quello che sta dicendo Parmenide, come in Parmenide fosse già ben presente questa idea che ciò che è, è il mio pensiero: il mio pensiero che produce le cose, è solo con questo, con il pensiero, che io ho a che fare. Quindi, dice la dea “attieniti a ciò che è”, cioè, attieniti al pensiero, attieniti al linguaggio e non credere che ci sia qualche cosa fuori dal linguaggio, cioè, qualcosa che non è. Se non è non è pensiero, visto che ha precisato che pensare e essere sono lo stesso. Posta in questi termini, che sono quelli in cui la pone Parmenide, la questione assume tutt’altro aspetto. Non è che l’essere è, che le cose ci sono o non ci sono; no, non sta parlando di cose, sta parlando del pensiero; solo dopo è stato inteso a questa maniera, le cose sono e non possono non essere; non c’è nessuna cosa, è il pensiero, cioè, linguaggio. Parmenide non parla di linguaggio, gli è sfuggita la connessione, ma è sfuggita anche a tutti coloro che gli hanno fatto seguito. Però, lo dice, lo dice a chiare lettere e bisogna pure tenere conto di quello che dice. Considera come le cose che pur sono assenti alla mente siano saldamente presenti, infatti, non potrai recidere l’essere dal suo essere congiunto con l’essere, né come disperso dappertutto in ogni senso nel cosmo né come raccolto insieme. Indifferente è per me il punto da cui devo prendere le mosse; là, infatti, nuovamente dovrò fare ritorno. È indifferente da dove parto, là dovrò comunque sempre fare ritorno. Ma se lo intendiamo rispetto a ciò che ha detto prima, che cos’è questo “là”? È il pensiero, è il linguaggio: là sono partito e là sono sempre, quindi, torno sempre lì. Un po’ come l’eterno ritorno di Nietzsche. È necessario il dire e il pensare che l’essere sia. Infatti, l’essere è, il nulla non è: queste cose ti esorto a considerare. E, dunque, da questa prima via di ricerca ti tengo lontano, ma poi anche da quella su cui i mortali, che nulla sanno e vanno errando, uomini a due teste; infatti, è l’incertezza che nei loro petti guida una dissennata mente. Costoro sono trascinati, sordi e ciechi a un tempo, sbalorditi, razza di uomini senza giudizio dai quali essere e non essere sono considerati la medesima cosa e non la medesima cos, e perciò di tutte le cose c’è un cammino che è reversibile. In fondo, è l’idea che si possa uscire dal linguaggio. Infatti, questo non potrà mai imporsi: che siano le cose che non sono. Ma noi teniamo sempre presente quello che ha detto prima, che essere e pensare sono lo stesso. Quindi, che siano le cose che non sono vuol dire che siano le cose fuori dal linguaggio: questo non è pensabile. Ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero né l’abitudine, nata da numerose esperienze, su questa via ti forzi a muovere l’occhio che non vede, orecchio che rimbomba e la lingua, ma con la ragione giudica la prova molto discussa che da me ti è stata fornita. Resta solo un discorso della via che è. Su questa via ci sono segni indicatori assai numerosi, che l’essere è ingenerato e imperituro. Infatti, è un intero nel suo insieme, immobile e senza fine, né una volta era né sarà, perché è ora insieme tutto quanto. Uno, continuo, quale origine cercherai di esso? Come e da dove sarebbe cresciuto? Dal non essere non ti concedo né di dirlo né di pensarlo, perché non è possibile né dire né pensare che non è. Teniamo sempre conto di quello che ha detto prima: cos’è che non è possibile né dire né pensare? Che non c’è il linguaggio, che non è linguaggio: non lo posso né dire né pensare perché se lo dico o se lo penso, già ci sono dentro. Perciò è necessario che sia per intero o che non sia per nulla, e neppure dall’essere concederà la forza di una certezza che nasca qualcosa che sia accanto ad esso. Per questa ragione né il nascere né il perire concesse a lui la giustizia, sciogliendolo dalle catene ma saldamente lo tiene. /…/ Lo stesso è il pensiero e ciò a causa del quale è pensiero perché senza l’essere, nel quale è espresso, non troverai il pensare. Infatti, nient’altro o è o sarà all’infuori dell’essere, poiché la sorte lo ha vincolato a essere un intero e immobile. Per esso saranno nomi tutte quelle cose che hanno stabilito i mortali convinti che fossero vere. Nascere e perire, essere e non essere, cambiare luogo e mutare luminoso colore… Tutte quelle cose che si credono essere vere. Inoltre, poiché c’è un limite estremo, esso è compiuto da ogni parte simile a massa di ben rotonda sfera, a partire dal centro uguale in ogni parte, ecc. Possiamo ritornare a Hegel. La dea espone tutta la dottrina, il doppio sapere del pensiero della verità e dell’opinione donde le due parti del poema. Dice la dea: odi quali sono le vie del sapere, l’una che è soltanto l’essere e non già il non essere, e questa è la via della convinzione sulla quale si trova la verità. Dell’altra secondo cui non vi è essere e invece è necessario il non essere, ti dico che essa è affatto irragionevole, giacché tu il non essere non lo puoi conoscere né raggiungere né esprimere. Infatti, il nulla si muta realmente in qualche cosa nell’atto stesso che lo si pensa o lo si dice. Qui è Hegel che parla. Posso immaginare che qualcosa sia fuori del linguaggio, ma nel momento in cui lo penso è già linguaggio. Lo rileggo: Infatti, il nulla si muta realmente in qualche cosa nell’atto stesso che lo si pensa o lo si dice. Noi diciamo qualche cosa, pensiamo qualche cosa quando vogliamo dire o pensare il nulla. Ancora tratto da Parmenide: Necessariamente il parlare e il dire sono ciò che è, poiché l’essere è mentre il nulla non è. Dice Hegel: La concisa determinazione e in siffatto nulla ricade la negazione in generale, in forma più concreta il limite, il finito, la limitazione. Determinatio est negatio, il grande principio di Spinoza. Parmenide dice che qualsiasi forma assuma il negativo, esso non è affatto. Ritenere il nulla come vero è la via dell’errore sulla quale errano i mortali bicipiti (con due teste) che nulla sanno. L’errore è quello di scambiarli l’uno con l’altro, di dare ad entrambi lo stesso valore oppure di distinguerli nel senso che il non essere sia in generale illimitato. A pag. 278. L’essere non è separabile giacché è completamente identico a se stesso, non è in qualche parte più che allora né in qualche parte meno, ma tutto è pieno dell’essere: il tutto è un’unica connessione... Badate bene: il tutto è un’unica connessione, che è una relazione. … giacché l’ente confluisce con l’ente. È immutabile e quiescente, fermamente in se stesso, la dura necessità lo contiene nei vincoli del limite. Quindi, non si può dire che sia incompleto. Infatti, non ha alcuna deficienza, mentre non essendo mancherebbe di tutto. Questo essere non è l’indeterminato giacché è contenuto nei limiti della necessità. Infatti, Aristotele attribuisce appunto a Parmenide il limite. Questa del limite è un’espressione di cui resta indeterminato in quale senso debba prendersi. Ma in Parmenide questo qualche cosa assolutamente delimitante è, come Dike, la necessità assoluta in sé semplicemente determinata ed è importante che egli abbia superato il vuoto del concetto dell’infinito. Quindi, il limite, di cui parla Parmenide, è, dice Hegel, la necessità assoluta in sé semplicemente determinata. Questa semplicità assoluta non è altro che la relazione. La semplicità assoluta è il fatto che ciascuna cosa è sempre in relazione; quindi, anche l’infinito è in relazione con il finito. Prosegue citando Parmenide. Pensare è ciò a cui motivo il pensiero è. Abbiamo detto prima che sono la stessa cosa. Infatti, tu non troverai il pensiero senza l’ente in cui esso si esprime, giacché esso è e sarà niente all’infuori dell’ente. Ora è Hegel che parla. Ecco il pensiero principale: il pensiero produce se stesso. Dice “non troverai il pensiero senza l’ente”. Senza l’ente, cioè, senza la parola. L’ente letteralmente è il significante. Il pensiero produce se stesso: è l’autoctisi di cui parla Gentile, e ciò che vien prodotto è un pensiero. Pertanto, il pensiero è identico con il suo essere. Ecco perché la dea dice che essere è pensare sono lo stesso. Giacché esso è niente all’infuori dell’essere di questa grande affermazione. /…/ Vediamo che Parmenide s’innalza al regno dell’idea e con lui comincia il vero e proprio filosofare. Un uomo si libera da tutte le rappresentazioni e opinioni, nega loro ogni verità e afferma che solo la necessità, l’essere, è il vero. Questo cominciamento è certamente ancora confuso indeterminato e non si può ulteriormente chiarire che cosa vi contenga, ma il chiarimento è dato appunto dal svolgimento stesso della filosofia, che certamente qui non s’ha ancora. Con siffatto cominciamento si collega quella dialettica secondo cui il mutabile non ha verità. Questa è un’altra questione importante. Dice Hegel un uomo si libera da tutte le rappresentazioni e opinioni, nega loro ogni verità. L’unica cosa vera è il pensiero, è il fatto che sto pensando. Si è cominciato a prendere le distanze dal dato sensibile. A pag. 280. A questa teoria della verità Parmenide aggiunge la teoria relativa alle opinioni degli umani, al sistema ingannevole del mondo. Egli dice, secondo Simplicio, che gli uomini nelle loro opinioni pongono due forme, una delle quali non dovrebbe essere e li ha indotti in errore, e le contrappongono l’una all’altro quanto a forma e a segni, separati l’una dall’altra: l’una è il fuoco etereo della fiamma, sottilissimo e affatto identico a se stesso ma non identico con l’altro, che è anch’esso per sé; e di fronte ad esso la notte, vale a dire l’essenza spessa e pesante. Dal primo si deriva il caldo… Queste sono le questioni fisiche che ancora in qualche modo interrogavano, ma oramai hanno già preso un’altra direzione, cioè non sono più degli enti per sé stanti, vengono utilizzati come esempi, come miti. Parmenide è l’inizio della filosofia, ma un inizio travisato, nel senso che si era immaginato che Parmenide affermasse che le cose sono, cosa che Parmenide non dice mai. Ora passiamo a Zenone, altro grande del pensiero, anche lui eleate, di Elea in Campania. La peculiarità di Zenone è la dialettica, che comincia propriamente con lui. Egli è il maestro della scuola eleatica, il pensiero puro di essa per opera di lui diventa movimento del concetto in se stesso, pura anima della scienza. Il concetto che diventa concetto puro, come avrebbe voluto già Gentile. Negli eleati finora ricordati vediamo soltanto questo principio: il niente non ha realtà, non è affatto e quindi, cade tutto ciò che è chiamato nascere e morire. Anche qui c’è stata una sorta di travisamento. Dice il niente non ha realtà, non è affatto e quindi, cade tutto ciò che è chiamato nascere e morire. No, perché il niente è soltanto ciò che è fuori dal linguaggio, e nascere e morire sono soltanto rappresentazioni che ciascuno ha. Zenone pone bensì anch’egli l’Uno ed elimina ciò che gli contraddice, ma però non prende le mosse da questa tesi, anzi, in lui la ragione muove dall’indicare serenamente in se stessa la distruzione di ciò che è posto come esistente. Parmenide ha detto che ciò che è fuori dal linguaggio non esiste, non c’è; Zenone prende questa idea di qualche cosa che è fuori dal linguaggio e la distrugge, la fa a pezzi. Parmenide aveva affermato che il tutto è immutabile, giacché il mutamento implicherebbe il non essere di ciò che è, senonché vi è soltanto l’essere e nell’affermazione che vi è il non essere, soggetto e predicato sono in contraddizione. Qui la contraddizione è già tra soggetto e predicato, quindi riguarda il linguaggio. Zenone invece disse: ammettiamo quello che voi chiamate mutamento. In esso in quanto tale è il suo nulla, esso è nulla. Per Parmenide il mutamento è movimento determinato, compiuto; Zenone si schierò contro il movimento come tale o movimento puro. L’essere puro, dice, non è movimento, anzi, è il nulla del movimento. L’essere di Parmenide, infatti, non è determinato. Particolarmente notevole è che in Zenone la coscienza superiore che quando si nega una determinazione, la negazione stessa a sua volta diventa determinazione… Quindi, se io nego una determinazione la nego attraverso la determinazione; la mia negazione stessa diventa una determinazione. … e che quindi nella negazione assoluta non si deve negare soltanto un’unica determinazione ma entrambe le negazioni opposte. Di ciò ha il presentimento Zenone... Se devo negare la determinazione di qualche cosa costruisco un’altra determinazione, quindi devo trovare il modo per eliminarle tutte e due. Che è quello che farà Hegel con l’Aufhebung. …e poiché egli aveva veduto che l’essere è il contrario del nulla, negò dell’Uno ciò che doveva affermarsi del nulla. Ha cominciato a negare qualunque determinazione del nulla. Ma lo stesso doveva avvenire per tutto il resto. Ritroviamo questa dialettica superiore nel Parmenide di Platone, dove questo concetto erompe soltanto da alcune determinazioni particolari, non da quelle dell’Uno e dell’essere medesimi. La coscienza superiore è la coscienza della nullità dell’essere in quanto qualcosa di determinato di contro al nulla. E la troviamo in parte in Eraclito e poi nei sofisti. In tal modo non resta alcuna verità, alcunché che sia in sé, ma soltanto ciò che è per un altro, ovvero la certezza della coscienza individuale e la certezza come confutazione, cioè il lato negativo della dialettica. Viene distrutta ogni cosa e a questo punto che cosa rimane? Io posso determinare il linguaggio, certo, posso dire tutto quello che voglio, ma di tutte queste determinazioni posso valutarne l’arbitrarietà. Che cosa invece rimane del linguaggio? Che è il rinvio di una cosa a un’altra. Questo non lo posso togliere perché fa parte della struttura stessa del linguaggio, il linguaggio stesso è un rinvio, un rilancio. Infatti, dice, non resta alcuna verità, alcunché che sia in sé, ma soltanto ciò che è per un altro: è questo che rimane, che non può togliersi. Sarebbe come togliere il significato al significante: togliendo l’uno si toglie anche l’altro. A pag. 289. Io stabilisco che una data cosa sia il nulla; poi, secondo la premessa, la applico al movimento e ne segue quindi che questo è il nulla. Ma un’altra coscienza non fa la stessa ammissione e, mentre io dichiaro che quello è il vero immediato, altri ha il diritto di dichiarare immediatamente che è vera un’altra cosa, cioè appunto il movimento. Questo suol verificarsi quando un sistema filosofico ne combatte un altro: si pone come base il primo e muovendo da questa base poi si contesta il secondo. Ciascuno crede in quello che crede e in base alle sue credenze combatte contro l’altro. È facile allora dire: l’altro sistema non è vero perché non s’accorda col mio. Senonché anche l’altro di dire precisamente lo stesso, né vale che io dimostri il mio sistema o la mia tesi e che quindi concluda per conseguenza che l’altra è falsa. Quella mia dimostrazione apparirà sempre all’altro come qualcosa di estraneo, di esteriore. Il falso non può dimostrarsi tale mediante un’altra cosa. Non può essere provato non vero soltanto perché è vero il contrario, sibbene soltanto in se stesso. Appunto in Zenone vediamo destarsi questa veduta razionale. Non posso dire che qualcosa è falso rispetto a un’altra cosa che ritengo essere vera, dice Zenone. Devo dimostrare la falsità, l’inconsistenza della cosa in sé, a partire da lei, senza fare ricorso a nient’altro. A pag. 291. Ci si colloca pienamente dentro la cosa, si considera l’oggetto soltanto in sé e lo si prende secondo le determinazioni che esso ha. In questo modo di considerare esso mostra a sé di contenere determinazioni contrarie e, quindi, si superano. Questo è Hegel, ovviamente: prendendo un elemento in sé, è in sé in quanto è per sé, cioè, è già preso in un spostamento, in una negazione. La dialettica soggettiva, che ragiona su motivi esterni, può far la generosa ammettendo che nel giusto v’è anche dell’errore e nel falso anche del vero. Invece, la vera dialettica non lascia alcun residuo del suo oggetto né ammette che questo sia deficiente, sia pur da un solo lato. L’oggetto si risolve secondo la sua vera natura. L’oggetto si risolve diventando soggetto. È questa la portata del pensiero di Hegel: considera la cosa non in quanto relativa ad altro ma in sé; è in sé che è relativa, è relativa a sé, cioè, l’in sé è relativo al per sé. A pag. 292. Vediamo nella coscienza di Zenone dileguarsi il semplice pensiero immoto ma diventare esso movimento pensante. Mentre egli combatte il movimento sensibile lo dà a se stesso. Mentre combatto l’idea di un movimento sensibile, di un movimento dimostrabile, do movimento al mio pensiero, il mio pensiero si muove, costruisce argomentazioni. La ragione per cui la dialettica si rivolse anzitutto al movimento sta in ciò: che è essa stessa questo movimento. Già tempo fa ponemmo una questione: da dove viene l’idea del movimento? Prima ancora di chiederci che cos’è il movimento, ci chiediamo da dove viene questa idea, come è venuta in mente. E qui Hegel risponde: La ragione per cui la dialettica si rivolse anzitutto al movimento sta in ciò: che è essa stessa questo movimento, ovvero che il movimento costituisce esso medesimo la dialettica e tutto ciò che è. È il movimento del dire: il dire che si proietta sul detto, che torna sul dire. La cosa in quanto si muove ha in lei stessa la sua dialettica e il movimento è l’alienarsi da sé, il superarsi. Aristotele riferisce che Zenone negò il movimento come quello che presentava una contraddizione interna, ma non bisogna intendere che l’eleate abbia voluto dire che il movimento non esiste affatto. Non si tratta di stabilire se vi sia movimento, se siffatto fenomeno sia, che vi sia movimento è accertato dai sensi allo stesso modo di come questi attestano l’esistenza di elefanti, e in questo senso Zenone non si sognò mai di negare il movimento. Si tratta piuttosto della verità del movimento. Questo è non vero perché la sua rappresentazione implica una contraddizione. Con ciò Zenone ha voluto dire che al movimento non si può riconoscere essere verace. Non è che ha negato il movimento, anche lui ovviamente vedeva le cose che si muovevano, dice soltanto che non è vero, che non è dimostrabile, certificabile.

Intervento: In termini moderni potremmo dire che il modello con cui lo si rappresenta cade poi in una contraddizione.

Esatto. Lo pongo e, quando lo pongo, il fatto stesso di averlo posto porta alla contraddizione. A pag. 294. È noto in quale semplice maniera il cinico Diogene di Sinope abbia confutato questa dimostrazione della contraddizione del movimento: si alzò silenziosamente, camminò avanti e indietro, e diede così la confutazione di fatto. Sarebbe quella che è nota come dimostrazione ostensiva. Ma quando si combattono ragioni la confutazione deve fondarsi unicamente su ragioni, non ci si deve accontentare della certezza sensibile, bisogna anche capire. Che è quello che facevano gli antichi: cercare di capire. Confutare obiezioni significa dimostrarne la nullità, di modo che esse debbano cadere e non possano mai più riproporsi. Ma per pensare il movimento come lo pensò Zenone occorre dare a sua volta movimento a questo modo stesso di porre il movimento. Cioè: dialettizzarlo, per dirla con Hegel. Qui vediamo il puro e semplice infinito, ossia il puro apparire, la cui semplice essenza dalla filosofia viene designata come concetto generale. Quindi, svolgersi anzitutto nella sua contraddizione e pervenire poi alla storia, alla coscienza di tale contraddizione. Il movimento, questo puro apparire medesimo, compare come un pensato, posto secondo la sua essenzialità, vale a dire nella sua differenza di pura identità con sé e di pura negatività, nel senso del punto di contro alla continuità. È un puro apparire questa cosa che chiamiamo movimento e, dice, compare come un pensato, vale a dire, compare nella sua differenza di pura identità con sé e di pura negatività. È identico con sé, il movimento è movimento, ma perché sia movimento deve spostarsi, deve essere una cosa che si altera continuamente, nel movimento una cosa va a quell’altra. Per il nostro modo di rappresentarci le cose non implica alcuna contraddizione che il qui dello spazio, e così pure l’adesso del tempo, siano posti come continuità e lunghezza, ma il loro concetto è in sé contraddittorio. L’identità con sé o continuità è connessione assoluta, eliminazione di ogni differenza, di ogni negazione dell’essere per sé. Il punto, invece, è proprio il puro essere per sé, il differenziarsi assoluto, il superamento di ogni identità e di ogni connessione con altro. È ovvio mostrare tale contraddizione nel movimento perché in questo anche per la rappresentazione i termini contrapposti sono uniti indissolubilmente. Il movimento costituisce precisamente la realtà del tempo e dello spazio, manifestatosi e posto il movimento si pone e si manifesta la contraddizione. È questo che poi ha voluto affermare Zenone con i suoi famosi esempi di Achille e la tartaruga, della freccia immobile e dello stadio. A pag. 296. La divisibilità come possibilità è in generale. In essa sono poste tanto la continuità quanto la negatività o il punto, ma soltanto come momenti, non come esistenti in sé e per sé. Io posso dividere la materia all’infinito ma non posso altro che poterlo fare. Effettivamente non la divido all’infinito. I numeri sono infiniti, ma di fatto è verificabile? No. E l’infinito consiste appunto nel fatto che nessuno dei suoi momenti ha realtà. Non si giunge mai al punto che uno di essi, né il limite assoluto né l’assoluta continuità, sia in sé e si realizzi realmente, per modo che sempre scompaia l’altro momento. Sono due assolutamente opposti, ma come momenti, cioè nel concetto semplice o nell’universale, nel pensiero. Infatti, nel pensiero e in generale nella rappresentazione quello che è posto è e nello stesso tempo anche non è. Ciò che ci rappresentiamo come tale, ossia quale esso è come immagine della rappresentazione, non è una cosa, non ha essere, eppure non si può dire che sia niente. Una mia rappresentazione è pure qualcosa. La divisione dello spazio, in quanto essere diviso, non è assolutamente puntualità né la pura continuità e indiviso e suscettibile di divisione. Parimenti, anche il tempo non è pura negatività o puntualità ma anche continuità. La pura negatività come tempo, la continuità come spazio. Il movimento stesso è precisamente questa reale unità nell’opposto, lo smembrarsi di questi momenti in siffatta unità. Concepire il movimento significa esprimerne l’essenza in forma di concetto, vale a dire come unità della negatività e della continuità; e, quindi, né la continuità né la puntualità debbono considerarsi in esse come essenza. Sono concetti. Se ci raffiguriamolo spazio e il tempo come infinitamente divisi si ha un’infinità di punti, ma vi è anche la continuità come spazio che li comprende. Questo sarebbe l’infinito attuale. Senonché questa continuità come concetto consiste nell’essere tutti i punti identici, sicché in verità essi si smembrano non come punti ma come unità. Ma i due momenti appaiono anche come esistenti. Se essi in tal guisa sono equivalenti non è posto più il loro concetto ma il loro essere. In essi, in quanto sono, la negatività è come una grandezza limitata; essi esistono come spazio e tempo limitati e il movimento reale è costituito dal trascorrere di uno spazio limitato e di un tempo limitato e non già dello spazio e del tempo infiniti. A pag. 300. Quando noi vogliamo in genere raffigurarci chiaramente il movimento, diciamo che il corpo è in un luogo e poi va in un altro luogo; in quanto si muove esso non è più nel primo, ma non è neppure ancora nel secondo; se fosse in uno di due sarebbe in quiete, ma dove si trova, dunque? Dire che è in mezzo ai due punti è lo stesso che dir niente, giacché in mezzo ad essi sarebbe sempre in un posto e risorgerebbe la stessa difficoltà. Senonché, muoversi significa essere in questo punto e anche non esservi, e quindi essere contemporaneamente in due luoghi. Dopotutto è quello che ha trovato Schrödinger quando parlava del suo gatto, che si trova contemporaneamente in due stati, cioè è vivo e morto simultaneamente. In questo consiste la continuità dello spazio e del tempo senza di cui non sarebbe possibile il movimento. Zenone dà soltanto valore al limite, alla divisione, al momento della discrezione dello spazio e del tempo in tutta la sua determinatezza, e così nasce la contraddizione. È la difficoltà di superare il pensiero. Infatti, ciò da cui soltanto nasce la difficoltà è sempre il pensiero, che tiene separati l’uno dall’altro nella loro differenza i movimenti di un oggetto, che invece nella realtà sono collegati. Qui naturalmente è Hegel che parla. Lui li pone come due momenti e dice che il problema è tenerli separati. Intanto, dice che il problema è nel pensiero, è un problema del linguaggio. Come dicevamo, i presocratici, nel momento in cui si è posto il pensiero, hanno colto subito i problemi del pensiero. Quando sorge il problema? È di questo che si avvale Zenone: nel tenere separati i due momenti. Se li tengo separati, ecco che sorgono i paradossi, come, per es., misurare l’infinito con il finito, come faccio? Il pensiero produsse il peccato originale allorché l’uomo mangiò all’albero della conoscenza del bene e del male, ma esso guarisce anche questo male. L’obiezione che fa Aristotele si appoggia, in effetti, su ciò che dicevamo prima, e cioè questa infinità è soltanto ipotetica, non è reale. Essendo non reale, cade la contraddizione che vuole Zenone, perché questa impossibilità di raggiungere il limite di fatto non c’è, non esiste, perché non si dà nella realtà una cosa del genere, è per l’appunto solo ipotetica. Sì, è vero quello che dice Aristotele, ma occorre anche dire che se questo infinito potenziale, se l’infinitizzazione non è reale, non è concreta e, quindi, di fatto non esiste perché non posso mai averne la fine, allora questo crea un problema anche con il finito, perché il finito è tale in quanto è l’altra faccia dell’infinito, cioè è ciò che limita, per così dire, l’infinito, è ciò che consente all’infinito di potersi pensare appunto come non-finito. Quindi, se elimino l’infinito, perché non concreto, non reale, elimino anche il finito. Ed è in effetti ciò che accade nella critica di Aristotele a Zenone. Riferito ad Aristotele dice Il movimento non ha verità perché l’oggetto mosso deve arrivare alla metà dello spazio prima che alla meta. Aristotele la riferisce così brevemente perché prima aveva discusso ampiamente l’argomento. Il pensiero di Zenone va inteso in generale nel senso che sia presupposta la continuità dello spazio. Se lo spazio è continuo allora è vero quello che dice Zenone, se è discreto no. Ciò che si muove deve giungere a una meta e la via da percorrere costituisce un tutto; per poter percorrere il tutto l’oggetto in movimento deve aver prima percorso la metà. Orbene, il termine questa metà è la meta, ma questa metà dello spazio è di uovo un tutto, che ha anch’esso la sua metà. L’oggetto deve dunque arrivare prima alla metà di questa metà, e così all’infinito. Zenone qui si fonda sulla divisibilità infinita dello spazio. Poiché spazio e tempo sono assolutamente continui, la divisione non può arrestarsi a nessun punto. Ogni grandezza, e ogni tempo e ogni spazio hanno sempre una grandezza, è sempre di bel nuovo divisibile in due metà, che debbono venir percorse, e per quanto piccolo poniamo lo spazio questo rapporto si riproduce costantemente. Il movimento consisterebbe nel percorrere questi movimenti infiniti e quindi non termina mai. Per conseguenza, il corpo mosso non giungerà mai alla meta. Questo movimento continuo, infinito, per Aristotele non esiste perché non ha un fine, cioè non è verificabile. Quindi, Zenone che cosa fa? La cosa più importante che fa e che dice è che questi problemi sorgono con il pensiero, non si è mai posto il problema reale. Come diceva giustamente prima Hegel, non è che non vedesse il movimento, ma si è domandato qual è la condizione di pensabilità del movimento. Questa condizione si è rivelata autocontraddittoria, perché non posso stabilire il movimento, cioè, la sua verità, dire il movimento è questo, perché questa formulazione è autocontraddittoria. Dunque, il pensiero incomincia a mostrare i suoi aspetti contraddittori.

Intervento: Si può dire che qualunque definizione di movimento nega il movimento.

Sì, come qualunque definizione nega ciò che sta definendo. È questo il problema del linguaggio. In effetti, anche definendo il linguaggio accade questo, e cioè nego il linguaggio. Ma lo nego ponendolo, ed è questo il contraddittorio. Ciò che ha mostrato di sorprendente Zenone è che il pensiero, il linguaggio, nel momento in cui si articola, si fa, si dice, è autocontraddittorio. Non il linguaggio in quanto tale, il linguaggio non è nient’altro che relazione e la relazione non può essere autocontraddittoria perché non afferma niente. Quindi, non è il linguaggio in quanto relazione a essere contraddittorio, ma è ciò che il linguaggio afferma, sono le determinazioni, è l’astratto, per dirla alla Severino, che si rivela autocontraddittorio, non il concreto. Il concreto è semplicemente il tutto, il suo manifestarsi. È quando voglio determinarlo, quando mi chiedo che cos’è qualche cosa, lì incontro le contraddizioni, perché lì incomincio ad affermare, a pensare, quindi, mi scontro con i problemi del linguaggio. Trovarsi di fronte il linguaggio pone di fronte una impossibilità. L’impossibilità è quella che il detto si sostituisca al dire, nel senso di completarlo, di chiuderlo. Il detto è ciò che contraddice il dire, pur rendendo il dire quello che è. È quella divisione che si instaura parlando per cui le cose possono esistere, e possono esistere perché posso dirmi io e qualche cosa che non sono io, che è altro da me. È questo che hanno fatto i presocratici: hanno detto, sì, certo, le cose le interroghiamo, le consideriamo, ma nel momento in cui incominciamo a interrogarle queste interrogazioni si mostrano in contraddizione con se stesse, e cioè affermano cose che in realtà non potrebbero affermare, così come ad es. il movimento. È da qui che hanno preso il via Protagora, Gorgia, che hanno negato la validità di qualunque cosa. Negare la validità significa negare la dimostrabilità. In fondo, se nego la dimostrabilità con forti argomentazioni, che cosa rimane? Rimane un’affermazione retorica, che non poggia come vorrebbe su una logica stringente, potente e inappellabile. Questa stessa logica inappellabile invece viene appellata dalla retorica che le dice “guarda che esisti grazie a me”.

Intervento: …

In effetti, Zenone non ha mai negato il movimento, dice solo che è impossibile dimostrarlo. Non è possibile fornire al movimento un fondamento logico necessario e, quindi, rimane arbitrario, un’idea, un arbitrio, che non può essere saldamente affermato. Come qualunque altra cosa, d’altra parte. Qualunque cosa io voglia affermare devo sempre fare i conti con il linguaggio: io affermo una certa cosa ma, affermandola, la determino, ma questa determinazione è altro da ciò che volevo determinare, diventa già un’altra cosa. C’è uno spostamento, un movimento. Diceva Hegel a proposito di Zenone che mostra da dove viene l’idea del movimento, e cioè dalla dialettica, il movimento che c’è nel linguaggio, ed è questo che non si può togliere, perché questo movimento è la relazione, è la connessione tra un elemento e un altro, è il rinvio da un elemento a un altro.